La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 29 dicembre 2018

Riflessione sulla Festa della SANTA FAMIGLIA. Don Pietro

1. Gesù va a Gerusalemme
Il mondo è come l’occhio:
il mare è il bianco
la terra è l’iride
Gerusalemme è la pupilla
l’immagine riflessa nella pupilla è il Tempio
A Gerusalemme le pietre parlano:
per gli ebrei le pietre del Muro del Pianto
per i cristiani la pietra ribaltata del S. Sepolcro
per l’Islam è la Cupola della Roccia al centro Moschea di Omar (rupe sacrificio Isacco e ascensione Maometto)
2. Visita di Gesù al Tempio (la II dopo la circoncisione)
forse è la festa del suo “bar-mitzvah” (figlio della legge)
(il suo ingresso ufficiale nella comunità religiosa ebraica)

La I parola di Gesù è Padre, come l’ultima sul Calvario e l’ultima da Risorto: “Manderò ciò che il Padre ha promesso”. Il suo è il Vangelo del Figlio che rivela il Padre. Gesù tornerà ancora a Gerusalemme per morirvi e risorgere. Gerusalemme è il segno: della vita e della morte, delle lacrime e della bellezza, del sangue e della luce. 10 porzioni di bellezza, gioia, sapienza e dolore.
3. A Gerusalemme la I Rivelazione di Gesù “Maestro” (didàscalos)
il discepolo diventa Maestro e i maestri discepoli
è venuto a liquidare la falsa sapienza sulla cattedra di Mosè
“nessuno si faccia chiamare Maestro…”
Egli è pieno di intelligenza (= penetrazione nel Mistero dell’essere e di Dio)
Egli sa decifrare il senso della vita (“Lavorare a ben pensare, ecco il principio della morale”: Pascal)
se non si pensa bene, si finisce “benpensanti”.
La sapienza di Gesù è fonte di gioia e di stupore (“i dottori restarono stupiti”).
Per comprenderla occorre la grazia, anche per Maria e Giuseppe
“lo trovarono”: forse lo hanno perso per sempre.
4. “Non sapevate che io devo essere nella casa del Padre mio?”
è l’apice della narrazione
La vocazione di Gesù è di essere a disposizione del Padre, non di una pur santa famiglia di creature
Egli appartiene innanzitutto a Suo Padre e a Lui deve servire
solo così servirà anche gli uomini
Se prima non si conosce il Volto di Dio non lo si può vedere nel volto dei fratelli
5. “Tornò a Nazareth e stava loro sottomesso”
pur avendo un rapporto unico con Dio e la Sua Sapienza!
i genitori debbono ritirare sogni e progetti sui figli per quelli di Dio: tutti, genitori e figli, sottoposti soprattutto a Dio! E’ il senso del vero pellegrinaggio: (esodo da se stessi per sottoporre tutto a Dio).

lunedì 24 dicembre 2018

Amici, come vorrei essere l’asino del Natale… Auguri fraterni a tutti, Don Pietro

L'asino del presepe guarda il bambino che si è addormentato. Dire che lo adora è forse troppo: un asino non ha dimestichezza con la contemplazione  e non se ne intende tanto di preghiere. Guarda e basta, come può guardare un asino, che pure un sentimento ce l'ha, ma di sicuro fa fatica a tirarlo fuori e a dirlo come si conviene. Guarda, e chissà cosa pensa, chissà cos'ha in testa mentre soffia un po' di calore sul corpo infreddolito del bambino. Guarda e inciampa nei suoi ragionamenti confusi, che sono forse un po' simili ai nostri, in questo Natale.
Vorrei dare di più a questo bambino - pensa l'asino - ma tutto quello che ho da offrirgli è soltanto il mio fiato. Non posso cullarlo con le mie zampe secche, non posso carezzarlo con i miei zoccoli duri e sporchi, o caricarlo sulla mia groppa così scomoda e così poco sicura per un neonato. Magari le mie orecchie lunghe e ridicole potrebbero venirgli utili come guanciale, ma sua madre l'ha già deposto con cura nella mangiatoia, e credo che stia bene dov'è, avvolto nelle sue fasce, accanto a me e al bue, col padre raccolto in preghiera poco lontano.
Mi sarei dovuto preparare meglio ad un avvenimento così; ma clii se lo poteva immaginare? A noi asini nessuno dice mai niente. Tiriamo avanti nella vita a forza di urla e raramente i nostri padroni ci chiamano per nome. Magari un nome non ce l'abbiamo neppure. Tutto quello che ascoltiamo sono suoni più che parole, monosillabi gridati con rabbia e di malumore da chi ci comanda, che si alternano ai colpi della frusta. Non abbiamo la grazia e la scioltezza dei cavalli, nostri parenti nobili, e tutto quello che sappiamo fare è portare pesi, ripetere ogni giorno gli stessi gesti, ripercorrere le medesime strade, senza una speranza, senza una prospettiva. Per che cosa, alla fine? Un po' di biada, un po' di fieno, qualche zuccherino e una carota se il padrone è di buonumore o se gli sono andati bene gli affari. Vita dura quella degli asini.
Ma forse - pensa l'asino - non è tanto la fatica a farmi sentire triste, non è questa vita da somaro fatta di pesi e di ripetizioni a lasciarmi l'amaro in bocca. In fin dei conti resto soltanto un asino, e non sarei capace di fare molte altre cose. Quello che mi manca è il colpo d'ala. Mi piacerebbe essere come gli angeli, che svolazzano sopra il tetto della stalla. Staccarmi ogni tanto da terra, guardare le cose dall'alto, contemplarle in un'altra prospettiva, cantare con gioia, portare annunci di pace. Mi piacerebbe volare con la loro grazia e la loro bellezza. E non ne sono capace. Se provo a volare scalcio, se penso troppo mi confondo, se cerco di cantare raglio, e tutti si spaventano, o si mettono a ridere. E' vero, un colpo d'ala è quello che ci vuole. O magari soltanto - se proprio non potrò mai volare - un'ala che mi raccolga e mi custodisca, come fa la chioccia coi pulcini, che regali anche a me, povero somaro, un po' di tenerezza e protezione, che mi faccia sentire amato. Anche noi asini abbiamo bisogno di affetto, anche se siamo così poco belli da vedere, così lenti a capire, così incapaci di volare.
Eppure - ragiona il somaro - se è vero quel che ho sentito nella grotta, se tutte queste luci, i pastori, gli angeli, la stella me la raccontano giusta, se questo bambino, come si dice in giro, è il Figlio di Dio, allora vuol dire che anch'io sto facendo una cosa straordinaria. Questo bambino è per terra, con me, e il più vicino a lui sono proprio io, una povera bestia. E non devo fare nulla per lui, non ha bisogno che inventi qualcosa, che gli canti una ninnananna, che gli porti dei regali. A lui basta il mio fiato, a lui basta che io respiri. E' il mio soffio, il mio alito a custodirlo, a dargli il calore di cui ha bisogno. Che strano: non è stato proprio Dio a darci la vita col suo soffio?  Eppure adesso è il mio respiro a tenere in vita Dio, a far sì che non muoia di freddo. Io questa cosa proprio non la capisco: si vede che sono un asino, e ragionare non è proprio il mio mestiere...
L’asino si confonde  nei  suoi pensieri ma ora è davvero felice. Vorrebbe perfino cantare dalla gioia, ma sa che dalla gola uscirebbe un raglio stonato, e ha paura di svegliare il bambino. Riprende semplicemente a guardarlo, e continua con dolcezza a scaldarlo col suo respiro.
BUON NATALE!

sabato 22 dicembre 2018

IV Domenica di Avvento. Riflessioni di Don Pietro

L’uomo cerca Dio nei simboli, nei miti, nei sacrifici, costruendo spazi sacri, caste specializzate.
Questa è la (comprensibile e necessaria) Religione
.Quando “Dio sarà tutto in tutti” non ci sarà più tempio, né ci saranno più mediazioni di sorta tra l’uomo e Dio (Ap.).
L’unico sacrificio che Dio gradisce è l’offerta che il Figlio gli fa del corpo.
Non nel senso che Dio goda della immolazione di suo figlio, ma perché in essa c’è l’adempimento della volontà del Padre fino alla offerta di se stesso. Questo è il vero culto.
Ne segue che – anche per noi – il luogo di incontro con Dio è lo spazio della vita, nostra e altrui.
C’è un “prologo in cielo”: il corpo che il Padre prepara al Figlio, e c’è un tripudio del corpo sulla terra: quello di Maria, di Elisabetta e del bambino in grembo.
Quindi la nostra vita quotidiana non è la materia su cui Dio agisce, ma è essa stessa portatrice di significato e di messaggi negli eventi che la strutturano e accompagnano. La salvezza, allora, non avviene in una zona parallela alla vita, oltre la vita (il giardino fiorito dell’anima nel deserto dell’esistenza) ma nella vita (far fiorire il deserto!). Dovunque l’uomo vive nell’obbedienza al Padre, lì agisce e si opera la salvezza promessa.
Lì, dolore, pane, gioia, fatica… morte pur restando nella loro fisicità diventano segno e luogo di un Incontro altro che salva all’insegna della obbedienza a Dio. Ma, in che consiste questa obbedienza? E’ conformità al suo disegno che è quello della pace fra gli uomini e sulla terra, quello dell’affermazione della vita.
Chi vuole la vita obbedisce a Dio e chi serve la vita, lo sappia o meno, è fedele a Dio.
Ovviamente per vita si intende la “qualità” della vita, cioè condizioni degne per tutto l’uomo e tutti gli uomini.
 Questo modo di leggere l’obbedienza a Dio, non è infedeltà al messaggio            cristiano, un uscir fuori dall’ortodossia, ma liberare il cristianesimo dalle angustie confessionali in cui spesso è stato imprigionato e restituire a Dio la signoria sull’intera creazione e alla fede le sue misure originarie, quelle cioè che coincidono con l’intera esistenza umana.
Il Cristianesimo nella sua essenza è la rivelazione del significato dell’esistenza umana che trova la sua norma e il suo inveramento nel Cristo della Croce che ha offerto se stesso per la salvezza di tutti.
In questa prospettiva – non cultuale ma esistenziale – acquistano nuovo significato gli episodi evangelici, come la visita di Maria a Elisabetta e la nascita di Gesù a Betlemme.
Queste due donne incinte che si incontrano, colme di Spirito Santo, pervase di gioia, stanno appunto a confermarci che la salvezza non è realtà che rinvia ad altezze celesti (anche!) ma attraversa le radici della carne, passa per il ventre delle madri, è dentro la nostra realtà fisica.
Non sono eventi che riguardano solo i cristiani, ma l’intera umanità e ogni singola persona.
Qui dobbiamo farli risuonare e reagire, non solo nel tempio e nel culto. Gesù non ha mai fatto l’elogio degli uomini del Tempio e del culto, o della ortodossia formale. Anzi li ha messi in imbarazzo proponendo come modello di obbedienza a Dio un eretico ed uno scomunicato, il Samaritano.
E l’episodio conferma che nascere è nascere per la salvezza e, nonostante la violenza e la morte, la fede ci dà in Cristo la certezza che, nonostante tutto questo, il disegno del Padre non sarà annullato.
La Parola che risalta nel Vangelo di oggi è la beatitudine di Maria che non ha creduto per l’evidenza delle cose, ma ha creduto alla Parola del Signore suo e al suo adempimento.
Credere all’adempimento della Parola del Signore è cosa molto rara e difficile! Ma è questo che dobbiamo proclamare ai deboli e agli umili, agli impoveriti e umiliati: le promesse si adempiranno e si adempiranno nella vita se gli uomini si immoleranno, non in senso ritualistico (Dio non è Moloch assetato di sangue!) ma nel senso della fedeltà alla Parola e al disegno del Padre.
Proviamo a essere fedeli a questo progetto di vita e saremo immolati. La mia vita non serve per me: va collocata, pur nella cronaca insignificante del mio quotidiano, dentro l’orizzonte della salvezza i cui risultati non sono visibili.
E bisogna crederci. Credere all’adempimento vuol dire vivere senza prove, con una fede nuda come quella di Abramo.
Credere alla vita in un mondo ostile alla vita. Credere alla pace in un mondo non pacifico. Quelli che credono non son quelli che professano la domenica la loro fede, ma quelli che calano la fede nel quotidiano e lì si immolano, incompresi e perseguitati da tutti, perfino i familiari che perseguono altri obiettivi e seguono altre logiche…
La grande speranza cristiana può rimanere congelata nel rito domenicale. La vita non vince perché offriamo sacrifici rituali a Dio, ma solo se ci sacrifichiamo per i fratelli. Questa è la via della salvezza, che passa per un modo di vivere che non sia contro l’uomo.
Chi non si interroga sul senso che ha il dare la vita per i fratelli costui inutilmente prega, inutilmente fa dir Messe in suffragio dei defunti. La sua non è religione vera, ma chiusa nella presunzione del tempio; è ricerca della salvezza per vie magiche, attraverso riti propiziatori che dispensino dall’impegno e dispendio personali. Cristo viene a dirci che la vera religione consiste nell’offrire il nostro corpo all’immolazione per la vita degli uomini.
Così è e così sia.

sabato 15 dicembre 2018

III Domenica di Avvento. La riflessione di Don Pietro

1. Rallegratevi!
Non si può comandare la gioia, un sentimento “spontaneo”: c’è solo in presenza di un certo modo di essere e di una particolare condizione interiore. Eppure la parola di Dio oggi insistentemente ci ordina di essere gioiosi.
Certo, Paolo ci illumina sulla natura particolare della gioia che ci è comandata:
una gioia che possiamo far fuoriuscire da noi, solo se entra in noi una pace, - quella di Dio – che “sorpassa ogni intelligenza e custodisce i cuori e i pensieri in Cristo Gesù.
     Il Vangelo poi, nelle parole del Battista, ci presenta un presupposto della gioia:
la pratica concreta della giustizia e della carità, come premessa di quella pace di Cristo da cui scaturisce la gioia.
     Finché c’è chi naviga nel superfluo e chi si dibatte nella povertà, e forse nella miseria, finché c’è chi vive di un ingiusto profitto e chi vive derubato del frutto del suo lavoro (o del lavoro) è da farisei parlare della gioia cristiana del Natale.
     Forse nasce da qui la sensazione di quel carattere illegittimo delle nostre festività, dei nostri Natali consumistici, delle nostre allegrie familiari, mentre nel mondo si consumano infinite tragedie della miseria e del sottosviluppo.
2. Novità e verità evangelica: il dono dello Spirito. 
Ma il Vangelo non ha la sua novità nell'esigenza morale, semplice presupposto, preliminare della verità evangelica. Tutte le leggi morali Gesù le ha risolte nell'unica legge dell’amore.
Che conti non è la norma, ma il modo in cui, nella diversità delle epoche, si attua l’amore verso il fratello.
Ma neppure l’amore ai fratelli è la novità e verità dell'evangelo.
L’esigenza di amare il prossimo si trova pressoché in tutte le religioni.
La novità dell'evangelo è, intanto, nel fatto che il precetto dell’amore è legato al dono in noi dello Spirito Santo. E’ lo Spirito Santo che apre il nostro cuore alla gioia vera.
3. La “vera” gioia.
C’è un’allegria illegittima che non possiamo e non dobbiamo permetterci:
quella che ignora le tribolazioni del mondo e quella costruita sulle nostre ingiustizie quotidiane. Se è così, non possiamo che essere tristi.
La gioia legittima è quella che si coniuga con la giustizia da cui nasce la pace come ordine che non fa perno su di noi e sui nostri interessi ma con un senso universale. Senza equa distribuzione della ricchezza, senza l’eliminazione dei meccanismi di sfruttamento, non c’è pace. E senza giustizia non possiamo che esser presi da un’indignazione continua verso il mondo presente.
4. La diversità della gioia cristiana.
     Tutto questo è ancora il presupposto della gioia cristiana, dell’evangelo che ci annuncia una gioia “diversa”. Un mondo solo giusto non è ancora capace di gioia.
     Neppure la sola osservanza morale dà gioia per i limiti e il contrasto che essa deve necessariamente porre per arginare la voracità debordante dei nostri istinti e pulsioni. La mortificazione è alla libertà e spontaneità, all'interiorità della persona. I codici, anche quelli morali, non danno gioia. La norma uccide. La legge è morte, anche quando la si attua, ci ricorda Paolo. La novità è lo Spirito Santo che è “fuoco”.
     Il “fuoco” dello Spirito non conduce a un soggettivismo spregiudicato (ognuno fa quel che vuole).
     Il fuoco è l’attesa di un diverso modo di vivere, un modo di vivere cioè
in cui la spontaneità sia quella dei figli di Dio.
in cui si possa esistere come bambini nel mondo, non come censori di sé e degli altri che spiano il peccato per condannarlo.
il Vangelo è l’imprevisto, l’impossibile inserito nel cuore dell’uomo.
Imprevisto e novità per il mondo è Gesù Cristo.
5. Per noi, oggi.
Non bisogna saltare il presupposto della giustizia concreta, per guardare alla libertà dei figli.
Questa libertà è condizione essenziale perché la scelta di vita sia secondo Dio.
Dobbiamo prudentemente diffidare anche della nostra libertà per le insidie della carne, mai definitivamente debellate.
La vera libertà è il miracolo che Dio compie in noi. In questo miracolo sta la novità del Vangelo, il vino della gioia. Questo è il fuoco in cui dobbiamo essere battezzati e non c’è tutore dell’ordine che possa soffocare queste fiamme.

domenica 9 dicembre 2018

Immacolata Concezione e II Domenica di Avvento. Le riflessioni di Don Pietro

                                  II DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C 2018

1. Dio continua a parlarci attraverso profeti
della periferia e dei deserti del mondo
con uno stile di vita alternativo a quello del mondo

2. Com’era G. Battista che
viveva nel deserto
vestiva di pelle di cammello
mangiava miele selvatico e locuste
     Egli ci apre al cammino di e con Gesù.

3. Chi sono i Giovanni Battista di oggi?
i profeti, i sapienti, i santi… uomini e donne che cercano e fanno esperienza di Verità, Giustizia, Pace
sono i contestatori non-violenti che non si lasciano omologare alla logica del mondo
sono i poveri, gli esclusi, i miti, i puri di cuore…

4. Quali sono le sfide di questo terzo Millennio?
i sentieri da spianare, le valli da colmare?
i colli da abbassare, le storture da raddrizzare?

     5. 
l’invito della Parola è la conversione persona
occorre cambiare mentalità e affetti (i pensieri del cuore)
circa la concezione dell’uomo riconoscendone la (miseria, creaturalità  grandezza)
circa gli altri: riconoscendone la dignità e diversità
circa il mondo: rispettandone le leggi che lo regolano
circa i beni: ridistribuendone il possesso
circa Dio: rispettandone il Mistero e adorandolo in spirito e verità

     In una parola: convertirci dagli errori storici, spesso legittimati da una cattiva comprensione della fede, connessi contro la vita, nostra e degli altri esseri viventi.
                                              
                                       IMMACOLATA CONCEZIONE 2018

1. No all’idolatria della creatura.
Il messaggio rivelato ha in abominio qualsiasi forma di esaltazione e glorificazione della creatura-uomo.
L’idolatria della creatura è il peccato più grave che si possa commettere e si configura come reato di appropriazione indebita di quell’onore, gloria e potenza che spettano di diritto solo all’Unico, all’Altissimo.
Eppure nel grande racconto biblico non mancano pagine di ammirazione, di elogio, perfino di vera e propria venerazione nei confronti di creature terrene, uomini e donne.
Accade per Abramo, per Mosè, per Elia, per Debora, per Giuditta, per Davide, e nel N. T. per il Battista, per Giuseppe e soprattutto per Maria.

2. L’esaltazione della Vergine-Madre.

La ragione di tanta ammirazione va individuata nel compiacimento pieno e convinto che Dio, il Creatore, ha nei loro confronti. Dio, come fa per ogni creatura che esce dalle sue mani e dal suo cuore, si offre loro nella totalità del suo essere d’amore.
La grandezza di queste creature privilegiate sta nell’essersi lasciati invadere totalmente dall’amore di Dio, senza opporvi resistenza. E così la loro esistenza si svolge in estrema fedeltà al disegno di Dio.
Creature che non si appartengono, ma che si consegnano al loro Signore.
Creature che cercano la loro realizzazione solo dentro la realizzazione del disegno di amore di Dio per la creazione.
Creature, vere immagini di Dio, nel loro cercare costantemente il bene, la verità e la giustizia di Dio.

3. Così è stato per la creatura-Maria di cui oggi celebriamo una particolare prerogativa: il suo essere stata preservata in vista e per grazia proveniente dal Figlio, dalla colpa originale.
Insieme festeggiamo la piena corrispondenza di Maria nella sua vita terrena a tanto amore e a tanta grazia: concepita senza ombra di macchia ha conservato questo immacolato candore durante tutta la sua esistenza.
Le poche ma significative pagine evangeliche che parlano di lei – perché il Vangelo è l’annuncio lieto di Gesù Cristo – trasudano di fede profonda, di preghiera intensa, di umiltà, di carità generosissima verso il prossimo e, soprattutto, di conformità piena, anche se sofferta, e di adesione alla parola di quel Figlio nel quale, con gli occhi della fede, Maria riconosceva la più sconcertante delle presenze di Dio nel tempio della carne umana.
Sul modello-Cristo Maria si è compresa ed ha costruito il suo essere credente nella forma del suo essere donna, sposa e Madre. Perciò Maria ha i titoli per essere riconosciuta come tipo insuperata di credente e di Chiesa e di creatura umana.

4. Credere, vivere, sperare e amare come Maria.

La umanità che è in noi, ferita dalla colpa ma restituita alla sua innocenza dal sangue del Figlio di Maria, aspetta il suo pieno compimento. Una realizzazione impossibile se ricercata sulla strada della insostenibile autonomia da Dio, peggio ancora se prometeicamente inseguita in opposizione a Lui.
L’uomo è un’opera incompiuta, senza Dio. Solo nell’apertura e nell’accoglienza di Dio in Cristo la creatura umana può ritrovare la grandezza perduta. Possiamo essere fedeli alla nostra umanità, nella differenza della sua specifica modalità maschile e femminile, solo se, come Maria, celebriamo le nozze con lo Sposo, con Cristo-Dio.
Anche la nostra risposta cristiana trova in Maria una fecondissima fonte di ispirazione. Perché Maria è discepola assunta a Maestra di fede, speranza e Amore. Credere come Maria è obbedienza cordiale ad una Parola vivificante ma anche esigente. Sperare come Maria è abbandonarsi fiduciosi solo alla promessa del Dio, fedele anche se l’ora dell’adempimento di essa sembra tardare sulle nostre frettolose scadenze.
Amare come Maria significa vivere la vita come qualcosa che ci appartiene solo come dono destinato agli altri e attraverso gli altri, alla gloria di Dio.
Amare è cercare e trovare Dio sulla strada di uomini e donne riconosciuti come fratelli e sorelle, non più estranei o nemici.
Su questa strada possiamo ritessere i brani lacerati di quella veste candida in cui Dio vuole vederci per riconoscere in noi i tratti del Figlio.
E così è concesso anche a noi di recuperare quella innocenza perduta di cui, anche se inconsapevolmente, abbiamo struggente nostalgia, e che ci permetterà di comparire al cospetto del Padre “santi e immacolati” come Cristo e Maria.

venerdì 30 novembre 2018

I Domenica di Avvento anno C. Riflessioni di Don Pietro

1. Siamo nella paura

A) Siamo figli della paura.
Per l’uomo antico la sicurezza si fondava sulla convinzione della immutabilità degli astri, della natura. Per noi moderni si è fondata a lungo sull’aspettativa della stabilità delle istituzioni, della tradizione.
Questa sicurezza oggi è in crisi e ci domina la “paura di ciò che potrebbe accadere”.
Alla luce della fede dobbiamo saper leggere questo segno del tempo, che è la paura, per scoprire se, per caso, non ci sia in essa una saggezza preziosa per la vita. Intanto è scorretto sfruttare, sciacallescamente questa paura collettiva, per fini apologetici: infierire sulla perfidia dell’uomo e catturarlo per riportalo al nostro ovile.
In questa paura ci siamo anche noi, insieme a tutti; credenti e non credenti siamo partecipi di un comune destino. L’area delle certezze incrollabili è andata restringendosi anche dentro il perimetro ecclesiale.
Del resto l’esempio del Fondatore, Gesù, testimonia ampiamente come Egli non sia mai stato in un luogo sicuro, una oasi di pace lontana dai clamori del mondo, ma al contrario Egli è stato sempre tra i pericoli di un mondo che voleva braccarlo e non è scappato a mettersi in salvo, ma è andato incontro alla morte.

B) Dinanzi a questa paura collettiva da insicurezza dobbiamo esercitare il discernimento della fede:
La sicurezza perduta non derivava forse da ragioni umane, troppo umane, da sapienti accorgimenti nostri?
     La nostra (ormai smarrita) tranquillità non l’avevamo costruita chiamandoci fuori dal                     pianto degli uomini ed esonerandoci il più possibile dalle tribolazioni di tutti gli altri?
     Insomma ci eravamo costruita una sicurezza fondandola sulla carne e sul sangue, non sulla roccia che è Dio, con la sua Parola e il suo Spirito.
A noi ora è chiesta una sicurezza diversa: una sicurezza che sappia confrontarsi con la catastrofe che investe ogni cosa. Non la catastrofe come evento finale, ma come processo che investe ogni cosa portandola a lenta ma inesorabile consunzione.

2. Dentro la catastrofe.

Ebbene in questo processo di consumazione di tutto (i cieli e la terra) noi siamo profondamente immersi e coinvolti. E’ sempre in azione quello che gli psicanalisti chiamano “il principio di morte”.
La fede, alimentata dalla Parola di Dio, ci invita a non ostentare dinanzi a questo principio di morte una falsa sicurezza, ma a farci invadere dalla paura derivante dalla constatazione che tutto passa, tutto finisce. In questa paura è nascosta una profonda sapienza umanistica e cristiana.
E questo principio di dissoluzione non dobbiamo riferirlo solo alla terra, al cosmo, alle sue istituzioni, ma alla nostra vita personale che veleggia verso la morte, la fine di noi stessi.
Pensare che la catastrofe-morte riguardi il mondo, gli altri e non noi sarebbe avere il “cuore appesantito dalle dissipazioni” come dice Gesù nel Vangelo di oggi.
La catastrofe c’è e riguarda ciascuno di noi.
Accettare questa lezione di umiltà circa il destino della nostra carne può aiutarci a vincere parte almeno della superbia del nostro spirito.

3. Catastrofe e annuncio di fede.

Bisogna partire dall’umile accettazione di questa nostra condizione per comprendere e accogliere l’annuncio consolante e liberante che Gesù è venuto a farci: “Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina!”.
In fondo alla catastrofe non c’è il vuoto, il nulla. C’è un Incontro. C’è un’Alleanza col Dio della vita. Questa è la promessa di Dio.
Noi crediamo nella promessa di Dio e nel Dio della promessa.
Questa è l’essenza della fede.
Ma, allora, se c’è questa promessa che già si è attuata nel Figlio, il nostro atteggiamento non può più essere di paura invincibile e devastante.
Per quanto passino i cieli e la terra, per quanto passa la mia esistenza, c’è una cosa che non passa: la Parola che mi promette la vita.
Allora la tragedia della fine la viviamo senza finzioni dentro di noi, ma la superiamo con l’attesa delle cose nuove che devono venire e che, nella forma delicata di timidi germogli, noi già vediamo spuntare qua e là sotto cumuli di foglie morte e imputridite.
La risposta della fede non è quella di piangere su queste cose morte o moribonde (lasciate che i morti seppelliscano i loro morti), ma di allearci con le cose nuove che Dio fa nascere e attraverso cui traspare l’adempimento della promessa.
Un adempimento sempre promesso e da attendere sempre come dono e futuro.
Il Signore è colui che viene. Il suo giorno non appartiene al passato, è futuro che irrompe nel presente, è “adventus”, qualcosa che viene verso di noi.
Questo irrompere di Dio è il processo di vita che Egli oppone alla catastrofe. Con questo processo dobbiamo allearci attenti a non mettere il piede sul germoglio nuovo che Egli ha già fatto nascere.
Aver fede è saper cogliere ciò che nasce come nuovo.
E così incontriamo il Dio vero non un Dio consolatorio che, poi, ci impedisce di cogliere la tragedia della condizione umana e di sperimentare la vera serenità interiore.
Incontrare il Dio vero significa anche essere liberi dalla paura.
Cosa può accaderci di irreparabile?
A chi è impegnato ad allevare il germoglio che è noto, non resta tempo per la paura.
Quel germoglio gli attesta che la vita vincerà sulla morte.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”. Ma, chiusi dalla morte, quegli occhi si apriranno alla luce del giorno senza tramonto, il Giorno del Signore che viene

sabato 24 novembre 2018

SOLENNITA’ DI CRISTO RE. riflessione di Don Pietro

1. Cristo non voleva essere fatto "re". Ma la chiesa lo ha fatto lo  stesso.

Quella di Gesù è un'allergia verso la regalità di tipo ereditario. Anche suo Padre nel Primo Testamento rivela molte perplessità circa l'istituto monarchico.
Oggi il titolo di re e un po' anacronistico e anche parecchio logorato.

2. Eppure l'unico cui spetta il titolo di re è Gesù.

È raro un re che finisce arrestato, processato e condannato a morte.
È inaudito un re che serve e lava i piedi ai suoi sudditi.
È paradossale che il suo trono sia una croce, la corona di spine sul capo, mani e piedi crocifissi.

3. Perché una fine così gloriosa per gli uomini,  a Gesù fa guadagnare i galloni di re sul campo?

Perché Gesù è stato testimone di verità: e la verità è sempre crocifissa Perché è insopportabile per l'uomo
Perché il regno di Dio è riservato solo a chi serve e a chi ama.
Perché Gesù non ha rivendicato alcuna autonomia da suo Padre.

4. Anche noi come Gesù siamo chiamati a regnare

Saremo re solo servendo Dio, il prossimo, la terra.
Regneremmo solo testimoniandola verità.
Saremo signori solo sottomettendoci a Dio.

venerdì 16 novembre 2018

VANGELO DELLA DOMENICA 33 DEL T.O.. Riflessioni di Don Pietro

1. Apocalipsy now

La fine del mondo è una tema tornato di moda. La letteratura, il cinema, la pubblicistica utilizzano la grande paura diffusa nelle persone per riproporre temi apocalittici.
Ovviamente c'è anche chi specula e lucra su questa paura.
C'è chi gongola perché dinanzi all'avvilimento della cultura, dinanzi all'imbarazzo dei programmatori del futuro, vede gente che finalmente torna a Dio. In effetti assistiamo quasi esclusivamente ad un ripiegamento delle coscienze, ad una ripresa di contatto con i timori dei nostri padri.
Ma l'annuncio cristiano non è un annuncio della fine di tutte le cose, bensì del cominciamento di un mondo nuovo e di una nuova creazione. Questo nuovo inizio del mondo è qui, ora, nel tempo, anche se solo germinalmente. Non fosse così che "buona notizia" sarebbe il vangelo? Eppure nel genere apocalittico c'è una parte di verità. Bisogna coglierne la novità evangelica.

2. Il fallimento dell'ottimismo creaturale

Si è appena conclusa una stagione culturale che guardava sprezzante al passato, che pensava sempre alla fine del mondo, che era ossessionata della provvisorietà dell'umanità. Una stagione che considerava la storia come una marcia lineare verso mete gloriose. Il progresso illimitato, il divenire dello Spirito assoluto, l'umanità come nuova divinità del cosmo erano considerati autentici dogmi da non discutere.

Siamo chiamati a riprendere contatto con la verità delle Vangelo che impietosamente dichiara:

"Il cielo e la terra passeranno"

Il nostro mondo, il nostro ambiente vitale, sono provvisori.
Provvisoria è anche la nostra vita e provvisoria la vita dell'umanità.
Gesù esprimeva tutto questo con le figure letterarie del suo tempo che erano  impregnate di catastrofi astrali. Noi usiamo altri generi letterari: la bomba N, la bompa ecologica, quella demografica, la violenza, l'assurdo, l'angoscia...

3. La Parola nuova della fede

Con Gesù irrompe nel tempo il Regno di Dio

Il Regno come terremoto, uragano, capovolgimento di ogni realtà.
Meglio: il Regno come parto doloroso, ma perché veda la luce un mondo nuovo.
Per raggiungere il fine bisogna passare attraverso la fine.
Come è già accaduto a Cristo: la resurrezione attraverso e dopo la sua morte.

venerdì 9 novembre 2018

BREVE RIFLESSIONE SULLE LETTURE DELLA DOMENICA XXXII DEL T. O. Don Pietro

1. Prima lettura: la vedova di Zarepta

A. Alla povertà e alla carestia risponde  Dio col suo dono di pienezza.

Le vedove e gli orfani costituivano in quel tempo le categorie più indifese della comunità.
Ebbene Dio sceglie proprio una vedova per il sostentamento del profeta Elia.

B. Da notare che Elia era cercato a morte dalla perfida regina Gezabel e trova  salvezza presso la vedova di Zarepta.
Ecco: Dio  sa trarre il bene là dove l'uomo scorge solo il male.

C. L'episodio della vedova di Zarepta allude all'epoca messianica.

Dio realizza le sue promesse di abbondanza, di vita, di felicità, di pienezza proprio dentro la storia di dolore dell'uomo. 
Elia è il profeta obbediente  a Dio perché su sua indicazione si reca a Zarepta.
La vedova dà fiducia alla parola di Dio che il profeta Elia le proclama.
L'obbedienza e la fiducia costituiscono per il Nuovo Testamento la vera conversione per entrare nel Regno che viene.

D. La vedova del Vangelo è l'immagine positiva dopo quella negativa  incarnata dagli Scribi e dai Farisei.
Questi seguono una religione esibizionista,  esteriore, fatta di apparenze e di ricerca di elogi umani.
Gesù lodando la vedova ci undica come fare il bene:  nel nascondimento e nella ricerca non della propria dalla gloria, ma unicamente di Dio.
Può donare tutto, come fa Gesù, solo chi è povero di cuore.

domenica 4 novembre 2018

Riflessione di Don Pietro al Vangelo della 31° domenica del T.O.

"Ascolta Israele!" (Dt 6, 4ss)

1. La parola

L’ebraismo è spesso considerata come la religione del Libro o della Parola. In realtà essa è innanzitutto  la religione dell’ascolto. Un ascolto  che deve precedere il culto, la preghiera, l'azione.
Il pio israelita la parola di Dio deve legarsela al braccio: perché essa sia guida alla sua azione.
Deve appendersela alla fronte: perché  guidi il suo pensiero.
Deve appenderla gli stipiti della porta di casa: perché essa guidi la sua vita sociale, la vita fuori di casa.

2. Nel libro del Deuteronomio, al cap. 4, sul monte Sinai Dio si rivela a Mosè  solo come  una "voce" tra le fiamme. Poi Dio  rientra nel suo silenzio.
Perché se  Dio mostrasse all'uomo la sua luce sfolgorante, questi non potrebbe reggerla.
Il salmo '94 esorta il credente ad ascoltare ogni giorno la voce di Dio.
E nel salmo 40 del Signore si afferma: " Sacrificio non gradisce, gli orecchi mi ha scavato".
L'orecchio scavato era quello dello schiavo perché stesse a ricordargli l'obbligo dell'obbedienza al suo signore.
In ebraico ascoltare, shemà, significa anche obbedire. 

3.  Ascoltare per crescere come credenti.

Nella tradizione islamica quando nasce un bambino viene subito consegnato ancora grondante di sangue tra le mani del suo papa il quale suggerisce all'orecchio destro del bambino: Dio è il Signore e Maometto è il suo profeta. Poi all'orecchio sinistro: ora per te incomincia il tempo della preghiera. E infine: ricordati che sei  cenere e luce.

4.L'ascolto della parola di Dio comporta un esercizio di umiltà

Nessuno è in grado di accogliere tutta la pienezza di mistero  la parola di Dio che sempre ci trascende.

5. Per accogliere la parola di Dio dobbiamo fare il vuoto

Dobbiamo, cioè, liberare la mente il cuore da tutti i nostri pregiudizi e le nostre precomprensioni.

6. Bisogna infine riscoprire il silenzio

Il silenzio non è  senza di parole ma la sintesi muta di tutte le parole.
Così come accade per i colori dove il bianco non è assenza di colore ma il risultato dell'unione di tutti i colori base.
Il filosofo e matematico Pitagora soleva dire che non bisogna mai rompere il silenzio se non si ha qualcosa di più importante di esso da comunicare.

venerdì 2 novembre 2018

Commemorazione dei defunti. Riflessioni di Don Pietro

1. Il senso della commemorazione dei defunti

Ricordiamo, oggi, i fratelli e le sorelle che hanno già attraversato il passaggio buio, difficile della morte e che ora sono presso Dio.
Ci conforta la certezza nella fede che nessun tormento può più toccarli e nessuna fragilità può più farli soffrire.
Essi hanno oltrepassato quella porta che  separa  questa vita dall'eternità.
Essi hanno seguito il Cristo, loro Signore, lungo il percorso che porta dalla morte alla vita.
Essi stanno davanti a Dio e conoscono senza fatica il suo splendore ed il suo affetto di padre.
Essi ricordano al Signore di tenere sempre spalancate per noi le porte della sua casa.
Cos’  anche noi, nonostante le nostre debolezze, tradimenti, ansie e paure, potremo un giorno essere ammessi nella dimora della luce.

2. Meditazione sul senso della morte dei propri cari

Dinanzi alla morte dei propri cari  c'è chi trova nella preghiera la forza per continuare a vivere, sperare, ad avere fiducia: la presenza del Signore lo sostiene.
C'è chi, invece, dinanzi alla morte non riesce ad esprimere con le parole il tumulto dei sentimenti: piange e tace.
Qualcuno sente nascere in sé la rivolta e la ribellione. Non solo non riesce a pregare ma protesta con Dio. Non è giusto, grida!
L’odierna commemorazione dia ad ognuno la possibilità di affrontare con serenità il problema della morte. E diventi un'occasione per pregare. Pregare è infatti sia rivolgersi a Dio con fiducia, sia meditare in silenzio, sia far arrivare a lui la nostra amarezza e protesta. Il Signore ha vissuto l'esperienza della morte. Ascolterà le nostre parole e ci darà una parola di conforto.

3. Rinnovare la nostra fede

La fede ci assicura che la nostra vita non è nelle mani di un cieco destino. La morte non potrà dire l'ultima parola sulla nostra esistenza. La nostra vita è nelle mani di Dio.
La parola di Dio ci garantisce che Dio si prende personalmente a cuore la nostra vita. Egli non c'abbandonerà alle tenebre, ma ci condurrà verso la vita che dura per sempre.
Anche di fronte alla morte noi ci fidiamo di Dio.
La buona notizia consegnata alle Scritture ci ricorda che Gesù ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra vita, conoscendone gioie e dolori.
Egli non ha evitato la morte ma nel suo amore per Dio e per noi l'ha affrontata senza paura.
Per questo, per il dono che  ha fatto di tutto se stesso fino alla morte, e alla morte di croce, Dio lo ha risuscitato e gli ha dato una gloria senza misura. Ha fatto di lui il primogenito dei viventi.
Ora noi abbiamo il suo Spirito che anima questa nostra vita e la conduce verso il compimento. Ci sostiene nello sforzo di cercare di amare Dio sperando nel suo regno.

mercoledì 31 ottobre 2018

Solennità di Tutti i Santi. Riflessione di Don Pietro

1. I santi non sono eroi, superman, taumaturghi che operano miracoli. E neppure sono i "perfetti". Tanto meno dobbiamo vedere i santi come asceti severi che hanno rinunciato ad ogni gioia del vivere.

2. Essi semplicemente sono quelli resi capaci dalla grazia corrisposta di essere liberi da sé stessi, poveri di sé perché la loro fiducia totale è riposta esclusivamente  in Dio.
Santi sono tutti i misericordiosi. Ogni santo ama tutto e tutti. Per sempre. Soprattutto  ama gratuitamente.
Santo è quel contadino che ringrazia Dio per il buon raccolto ed anche se è venuto scarso o è stato distrutto dal maltempo.
Santa è quella casalinga che ogni giorno accudisce con fedeltà e amore attendendo con costanza ai ripetitivi lavori domestici.
Santo è l'operaio che compie con spirito di sacrificio  col senso del dovere il suo lavoro.
Santo è lo studente che si prepara alla vita non per conseguire successi suoi ma per servire al meglio i fratelli con il suo impegno professionale. Santa è la portinaia che accoglie le persone con un sorriso, con pazienza, con amabilità.
Santo è il malato che non soo non bestemmia Dio, ma lo ringrazia perché può partecipare alla croce di Cristo.

3.  Ci sono delle immagini che possono aiutarci a comprendere un po' meglio quel mistero sono il santo e la santità.
Il santo è come un flauto: come da questo strumento, dai suoi buchi, escono suoni e melodie, così dalla povertà accolta  da una persona, Dio può ricavare stupende armonie.
Il santo è come uno specchio: investito dai raggi del sole lo riflette sugli altri w sul mondo illuminandoli.
Il santo è come il vetro di una finestra, il suo  vano : lascia che entri la luce, il vento dello Spirito, e il sole della parola di Dio.

4. La santità non è un privilegio per le anime belle.. Tutti vi sono chiamati. La nostra più grande tristezza è quella di non essere santi.
 Ma quali sono le vie che conducono alla vera santità?
La risposta del Vangelo di oggi è una sola: le Beatitudini.

venerdì 26 ottobre 2018

RIFLESSIONE SUL VANGELO DELLA DOMENICA XXX TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1. Bartimeo. Il cieco, sedeva lungo la strada a mendicare
Questo cieco è l'icona dell'uomo di oggi. Sono tante le cataratte per che ottundono i sensi interiori dell'uomo moderno. La strada dove giace è l'immagine viva dei suoi stati di disperazione, di alienazione, di attivismo e di vuoto.

2. "Cominciò a gridare. Molti lo sgridavano"
Il grido è un  registro legittimo per la nostra preghiera. La cultura  dominante invece ci invita a nascondere i nostri mali, considerati come vergogne. Perché la città deve sempre godere di una buona immagine. I poveri poi vanno deportati in ghetti appositamente  loro destinati. La loro presenza potrebbe turbare la brava gente.
Anche molti intellettuali, quelli che una volta si chiamavano i chierici, hanno vergognosamente tradito il loro compito perché contribuiscono a far ignorare il dolore ed i poveri.

3. Gesù si fermò
Emerge in questo comportamento di Gesù la straordinaria potenza della preghiera: essa può mutare i piani  i piani di Dio.
Gesù si fermò. Fermarsi è il verbo del samaritano e il verbo di chi per amore rallenta il suo passo. E’ il verbo che ci costringe a ripensare il tempo che viviamo e il senso che gli diamo.

4. Gesù disse: chiamatelo!
La prima missione dei discepoli del Signore è proprio quella di chiamare i i perdenti e portarli a Gesù.

5. Gli dissero: "coraggio, alzati, ti chiama"
Ecco la seconda missione dei discepoli: dare speranza, rimettere in piedi  i caduti, ridare dignità alle persone,. E la dignità più grande è annunciare ad ognuno che è chiamato da Dio.

6. "Gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù" 
Per incontrare Gesù occorre preventivamente liberarsi di tutti i mantelli,gli orpelli inutili che impediscono alla nostra identità profonda di rivelarsi.
Occorre poi l'entusiasmo nell'andare a lui e anche la prontezza nell'incontrarlo quando ci chiama.

 7. Gesù: "che vuoi che io ti faccia?"
Che vuoi che io ti faccia: non è forse questa la domanda di chi è servo?
Nella domanda di Gesù emerge anche un altro aspetto paradossale del suo messaggio. La potenza di Dio è messa a disposizione, è offerta alla debolezza, non alla forza.

8. "Che io riabbia la vista"
Un esempio luminoso di preghiera vera. Perché nasce dal riconoscimento umile e sincero delle proprie cecità. Perché e un’ invocazione alla luce. Perché è disponibilità a farsi "ferire "dalla luce, cioè dall'amore luminoso della luce di Dio.

9. Gesù: "la tua fede ti ha salvato"
Solo la fede salva, la fede come ascolto-obbedienza è quella che salva.

10. E il cieco guarito prese a seguirlo
Ma sequela  del Signore  equivale ad un certificato che autentica una guarigione totale ottenuta.
Al cieco finalmente si è aperto il terzo occhio, quello del cuore.
Ora egli vede veramente perché solo chi segue Gesù ha vista buona per vedere l’invisibile…
Dove seguire Gesù? Verso la Luce che è vita eterna..
La strada che Gesù indica è quella della croce. Ma la fede e l'amore sanno percorrerla.

domenica 21 ottobre 2018

DOMENICA XXIX PER TEMPO ORDINARIO. Riflessioni di Don Pietro

1. I rapporti interpersonali nella comunità di Gesù

Debbono essere improntati ad un rifiuto assoluto di ogni dominio e all'abolizione di ogni struttura di potere, come quelle vigenti nel mondo.
Nessuno deve considerarsi, né può essere considerato padre-padrone, perché gli altri sono solo fratelli. Al massimo può esserci qualcuno che incarni la figura della mamma...
E’ possibile tutto questo?
Intanto registriamo che la Chiesa delle origini ha recepito questo essenziale messaggio del suo unico Maestro e Signore.

2. Giacomo, Giovanni e la loro madre

La mamma di questi due apostoli prenota per essi le principali poltrone una volta che Gesù avrà instaurato il Regno. Dimostra, questa deliziosa mammina, un gran senso di tempismo e di rampantismo insieme.
Gesù la gela con la sua replica: nella mia Chiesa tutti sono solo servi, come lo sono io.
Questa parola di Gesù non va intesa come un invito all'anarchia o allo spontaneismo per quanto attiene ai rapporti nella Chiesa, ma come un invito a perseguire la vera autorevolezza e la vera potestà.
Gesù ci avverte di non imitare lo stile del mondo e cioè la ricerca e  il mantenimento del potere per i propri interessi.
Nella Chiesa l'autorità dev'essere riconosciuta solo a chi prescinde da sé, a chi non persegue i suoi interessi, a chi vive solo per Dio e per gli altri.

3. Gli strumenti dell'esercizio dell'autorità

Nel mondo questi strumenti sono la forza, la coercizione, la violenza anche per fini ritenuti buoni.
Nella Chiesa invece Gesù dichiara assolutamente illegittimi tutti i mezzi coercitivi.
Nella Chiesa vale solo la testimonianza alla Verità, con la morte affrontata per ciò che si ritiene giusto e santo, come del resto ha fatto lo stesso Gesù.
I cristiani  sono testimoni della verità, non  soldati che la impongono con la forza.
Come Gesù essi debbono essere inermi e anche esposti ad ogni aggressione.

4. Attualizzazione ecclesiale

Bisogna onestamente riconoscere che tantissime volte la prassi ecclesiale si è rivelata infedele a questa memoria del Signore Gesù. Essa non ha disdegnato il ricorso alla coercizione. E così ha vanificato la vera autorità e ha  compromesso l’evangelo.
La vera autorità la si apprende dal Crocifisso, dalla sua impotenza.
Questo stile è vincolante per quanti vogliano ritenersi discepoli del Signore.
In caso di conflitto, poi, i cristiani sono ammoniti da Paolo a non ricorrere ai tribunali per far riconoscere i propri diritti. Debbono risolverli all'interno della comunità in spirito di carità. Se necessario debbono subire anche ingiustizia e privazione. Ma questa possibilità è riservata solo a delle comunità che vivono "nello Spirito".

venerdì 19 ottobre 2018

La gloriosa e tragica storia di Annalena Tonelli.

A proposito di profughi e rifugiati, nel mare magno e tempestoso delle chiacchiere e delle immagini si sente un gran bisogno di testimoni, che in greco antico si dicono, purtroppo, martiri. La signora in azzurro che si vede nella foto qui sotto, e di cui colpiscono l'aspetto minuto e l'intensità degli occhi azzurri, si chiamava Annalena Tonelli e sapeva che prima o poi l'avrebbero uccisa. Fin dalla più tenera età si era votata agli altri, anzi ai più malandati. «Io sono nessuno» diceva, o al massimo «io sono una povera cosa» - ce ne fossero un po' più, in realtà, povere o inesistenti come lei! Volontaria laica e ardente in Africa, prima in Kenya, poi in Somaliland. Per nulla facile le fu all'inizio farsi riconoscere donna e cristiana dai nomadi musulmani del deserto, tutto le era contro meno il Signore (che non è poco). Per i non credenti un opino di romagnola dolce e tenace ben oltre la spericolatezza. Quando comprese che i capi (cristiani) dell'esercito kenyota avevano deciso di regolare i conti con la sua tribù di somali (musulmani) come si fa da quelle parti, poco disse e tanto fece da mandargli a monte il genocidio. E contro ogni buonsenso, sempre da sola come un'eroina del più alto teatro, se ne andò a seppellire quei morti che dovevano restare a monito. Fu percossa, imprigionata, affrontò la corte marziale, la esiliarono in Somaliland. In quel frangente venne fuori che già due volte avevano provato a farle la pelle. E però «morire è come vivere d'amore» ha lasciato scritto Annalena in una delle sue pochissime e più impressionanti testimonianze, anche sul piano letterario. Era il 1984. Le rimase il tempo per improvvisarsi manager della carità. S'inventò un protocollo per battere la tbc dei nomadi, insediò scuole e ospedali regalandosi ai bambini sordi, ai ciechi da cataratta, ai pazienti psichiatrici, alle vittime della guerra, della polio, dell'aids, delle mutilazioni genitali. Divenne laggiù, a Borama, più che una donna rispettata, prima una guida, poi una santa. Domenica 5 ottobre 2003, dopo aver servito i suoi malati "sulle ginocchia", qualcuno che non s'è mai saputo spense a revolverate questa sua vita umile e gloriosissima. Forlì, la sua città, la ricorda a 15 anni dal suo martirio con una serie di iniziative da 30 settembre a17 ottobre: l'inaugurazione della Tenda dell'Uomo, l'intitolazione di una scuola, un convegno, una veglia di preghiera, una mostra fotografica, una rassegna d'arte, un musical. Annalena, medaglia d'oro al valor civile del presidente Ciompi, non ha fatto a tempo a sapere cosa è diventata l'Italia. È una tale lezione, la sua, che si ha scrupolo a scagliarla contro l'egoismo del potere o a supporto del lacrimone buonista. Anche per questo vale, anche per questo è più vera.

lunedì 15 ottobre 2018

RIFLESSIONE SULLA DOMENICA XXVIII TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1.  Povertà e sequela

A chi vuole seguirlo, Gesù chiede la pratica effettiva della povertà.
Il "giovane ricco" trova molta difficoltà a seguire Gesù a causa delle ricchezze che possiede.
Questa condizione della povertà, per entrare nel Regno, non per essere perfetti, Gesù l a richiede a tutti, sia pure con modalità diverse.

2. Ma cosa chiede Gesù a tutti per entrare nel Regno?

Chiede tre cose:
la prima: vendere tutto..
la seconda: la nonviolenza assoluta.
La terza: la rinuncia al potere.
Non basta l’osservanza dei comandamenti, come richiesto nell'Antico Testamento.
La povertà da intendere interiormente come libertà da ogni spirito di possesso e concretamente come distribuzione (o restituzione?) ai poveri delle ricchezze accumulate. 
Bisogna lasciare le ricchezze per trovare il Regno.

3. Motivazioni della radicalità chiesta da Gesù

La ricchezza ha  un carattere di estrema caducità.
Essa è estremamente pericolosa: occupa nel cuore il posto di Dio e dei fratelli.
Spesso essa si accompagna all'ingiustizia allo sfruttamento.
Produce una felicità (ma forse sarebbe più appropriato parlare di agiatezza) che non può placare i desideri profondi del cuore umano.

venerdì 5 ottobre 2018

BREVE RIFLESSIONE SUI BRANI SCRITTURISTICI DELLA DOMENICA XXVII T.O..Don Pietro

1. Dio non vuole che Adamo resti solo.

Perché la solitudine facilmente degenera in infelicità. Perché solo l'altro
o l'altra può rivelare alla persona il suo essere finita e, appunto, altra, diversa. Solo l'altro o l'altra può indicarmi il bisogno, il desiderio che spingendomi fuori di me mi apre al bisogno e al desiderio di Dio. Per questo Dio crea Eva.

2. Perché la creazione di Eva

Dio crea la donna non solo per una comprensibile necessità riproduttiva. 
Dio la crea perché solo insieme, uomo e donna, sono immagine compiuta di Dio.
Dio la crea perché Adamo possa parlare: perché la felicità si sperimenta solo nella comunione.

3. Il progetto di Dio sulla coppia

Dio manifesta di voler concedere all'uomo e alla donna una sostanziale uguaglianza e una stessa capacità di essere, però solo insieme, immagine sua .
Dio chiama l’uomo e la donna ad amarsi con un amore fecondo.

4. Il peccato entra nell'uomo e rovina la coppia

Inizia il pericoloso processo di sclerocardia.
I killer dell'amore sono: il dominio, l’egoismo, il materialismo.
L'antidoto  proposto da Gesù: il ritorno alle sorgenti,  alle origini, al principio.
La Chiesa deve farsi annuncio alla coppia umana di un amore esigente ma nello stesso tempo deve aprirsi ad una infinita comprensione e misericordia.

sabato 29 settembre 2018

RIFLESSIONE PER IL VANGELO DELLA DOMENICA XXVI TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1. Il bene
Il bene non ha etichette né confini.
Il bene non è monopolio esclusivo di alcuni.
Il bene non ha bisogno di distintivi e appartenenze.

2. Lo Spirito del Signore
Lo Spirito del Signore  nessuno può imprigionarlo o dettargli ordini: soffia dove vuole.
Lo Spirito del Signore è dovunque ed è in chiunque compia il bene.
Lo Spirito di Dio libera da ogni forma di chiusura e ghettizzazione.

3. Il vero fedele
Il vero discepolo del Signore è capace di dialogo con tutti. Egli sa riconoscere l'azione di Dio anche "fuori" delle proprie mura e dei recinti sacri.
Egli rifugge da integralisimi e fondamentalisti di ogni sorta.
Egli è veramente "cattolico", cioè universale, aperto al mondo intero.
Egli non ha nemici da vincere e da umiliare. Ha solo fratelli da amare.
Egli non fa opera di proselitismo, testimonia solo la novità incredibile dell'amore di Dio.

4. Evitare lo scandalo
C'è uno scandalo che può provenire dalle proprie azioni e comportamenti: dalle mani, dai piedi, dagli occhi... Questo cattivo esempio occorre evitare. Offende Dio non solo la bestemmia ma una certa di vita o certi comportamenti contrari al Vangelo.

5. Mani scandalose

Sono le mani quando si chiudono al dono, quando le puntiamo per minacciare, quando sono oziose o, al contrario, troppo attive.

6. Piedi scandalosi
Sono quelli che non orientrano i propri passi verso Dio nè verso i fratelli.
Sono quelli che vogliono schiacciare, dominare gli altri.

7. Occhi scandalosi
Sono tali gli occhi distratti, torvi, falsi, ammiccanti, gelidi, ciechi...

sabato 22 settembre 2018

Vangelo della XXV domenica del T.O.. Riflessione di Don Pietro

1. "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo dì tutti e il servo di tutti”

Quella di Gesù è una logica antitetica  a quella del mondo ove regna l'ambizione: un virus pericolosamente diffuso  che induce chi ne è affetto alla ricerca ad ogni costo del successo. Questo inseguimento, poi, è una molla potente e spregiudicata in molte occasioni.
Secondo questa logica solo i bravi, i grandi, i riusciti, i ben nati avrebbero diritto alla gloria.
Ma Gesù ci chiama fuori da questo gioco atroce delle competizioni.
Egli ci invita ad imitare lui che sceglie l'abbassamento e il servizio, che non ha mai ambito né richiesto titoli nobiliari, gloria, limitandosi e ricercando di essere grande solo nella piccolezza e nel servizio.
In molte occasioni Gesù annuncia che farsi piccoli e servi è la condizione pregiudiziale per entrare nel suo regno.

2. "Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato"

Allora, cosa attira lo sguardo di Dio e la sua predilezione?
Certamente non l'innocenza, la semplicità, il candore, neppure l'ingenuità e l'abbandono, la fiducia tipica del bambino.
Dio sceglie i bambini proprio perché non hanno nulla di interessante per la società. Nel suo tempo, infatti, i bambini erano disprezzati come esseri immaturi, noiosi, capricciosi e incapaci.

3. Perché privilegiare la condizione di infanzia spirituale?

Il bambino, non è ciò che siamo stati.  Per Gesù è ciò che dobbiamo ancora diventare.
I piccoli sono capaci ancora di stupore, sono fiduciosi, sono aperti al nuovo. Il profeta della morte di Dio, Nietzche,  diceva che l'uomo nasce cammello, crescendo diventa leone ma muore  bambino. Ecco la vera metamorfosi dello spirito.
Gesù ci dice che il bambino è come il regno: di vicino, ma di un altro mondo. Come il bambino anche il regno è uno sguardo nuovo sul mondo e nel mondo.
 Il bambino diventa dunque per lui maestro di fede. Occorre partire dalla novità del regno.
Gesù non ci sta invitando a diventare infantili, ma solo a diventare oggi uomini del regno sciogliendo le durezze e recuperando la dracma  che è  in noi: cioè l'immagine di Dio.

venerdì 14 settembre 2018

Riflessione sul Vangelo della DOMENICA XXIV TEMPO ORDINARIO. don Pietro

L’odierno brano evangelico costituisce un po’ il cuore del Vangelo di Marco, Esso, infatti, registra la prima, solenne presa di coscienza e una chiara rivelazione della messianicità di Gesù.
Gesù non è né Giovanni Battista redivivo, né Elia che ritorna.
Egli è il Messia atteso,inviato dal Padre e consacrato dallo Spirito per portare l’attesa salvezza all’uomo e al mondo.

Ma perché Gesù ci tiene tanto a precisare la sua identità e vocazione messianica?
Il problema, di allora e di oggi, non è Cristo sì, Cristo nò. Il problema è quale Cristo e, di riflesso, quale Dio.
La missione che Gesù deve compiere in obbedienza al Padre non è politica. Egli, cioè, non è venuto a porsi alla testa di un esercito per scacciare gli odiato occupanti romani e restituire ad Israele la dignità di popolo libero e indipendente.
La missione di Gesù e eminentemente spirituale, non mondana. Egli viene ad instaurare e inaugurare un rapporto nuovo di comunione tra Dio e l’uomo e tra gli uomini. E questo attraverso un cammino di sofferenza fino alla morte, secondo l’immagine isaiana del Servo sofferente.

Pietro e gli altri discepoli non riescono a comprendere tutto ciò. Proprio come noi…
Essi pensano che bisogna fare tutto il possibile proprio per evitare la via della croce cui fatalmente conduce la scelta dell’obbedienza al Padre e del servizio ai fratelli.
La logica dei Dodici, Pietro in  testa, ha tentato, tenta e continuerà a tentare sempre la Chiesa. La tentazione, cioè, del calcolo politico e di un messianismo umano, trionfalistico e di potere.
Il rimprovero a Pietro è indirizzato, allora, anche a tutti noi, ad ogni livello ecclesiale, dal più alto al più basso…

venerdì 7 settembre 2018

VANGELO DELLA DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione a cura di Don Pietro

1. Le strane peripezie dell'amore
Un giro tortuoso ed "antieconomico", allo scopo di incontrare e "guarire-salvare" una sola persona. Che era "sordomuta", cioè una persona prigioniera perché impossibilitata  a "comunicare", una persona privata dell'integrità-armonia creazionale

2. Modalità della liberazione del sordomuto
Questi viene chiamato in disparte: Gesù, dunque, detesta il clamore, la pubblicità, i bagni di folla, la teatralità.
Gesù  con le dita lo tocca nelle orecchie, gli bagna la lingua con la saliva , cioè usa  il suo corpo.
Le mani di Gesù sono "potenti" proprio perché sono "impotenti" come lo saranno soprattutto sulla croce.
Gesù usa la saliva: questa secrezione corporale era ritenuta carica di grande "potenza".
Nell'episodio abbiamo un chiaro contatto fisico di Gesù.
Egli non teme questo contatto, anzi sa che attraverso il corpo si può guarire.
Noi purtroppo ignoriamo le immense potenzialità del nostro corpo. Crediamo di più al potere dei medicinali.
Gli orientali sanno invece che in noi c'è una straordinaria carica di energia psico-fisica e spirituale.

3. "Apriti..."
L'esortazione è rivolta a "tutta" la persona.
Una persona ripiegata tutta su se stessa è come affetta da un vero cancro.
Dal deficit di comunicazione infatti derivano molte le nevrosi, stati depressivi, angosce.
Il "sacro" da solo non può "guarire".
Perché esso non è un vero evento linguistico e quindi neppure comunicativo.
Il sordo-mutisimo dei nostri tempi è riconducibile allo scarso o nullo ascolto della Parola di Dio o, anche, all’inflazione e saturazione di troppe parole inutili, spesso nient'altro che chiacchiere vane.

4. "Ha fatto bene ogni cosa"
Questo giudizio sulla bontà delle opere compiute da Gesù richiama e rinvia ad un'altra valutazione positiva: quella che Dio spesso fa della creazione appena uscita dalle sue mani.  Nella prima pagina della Genesi, dopo ogni opera creata Dio è detto  che era buona e financo molto buona. Con Gesù la creazione conosce  un nuovo inizio all'insegna della bontà e di un nuovo apprezzamento positivo da parte del Padre.

sabato 25 agosto 2018

Vangelo della XXI domenica del T. O.: la riflessione di Don Pietro

1. CRISI RELIGIOSA

Le ricerche registrano una diminuzione quantitativa di praticanti e forse di credenti: le chiese  si spopolano, le indicazioni etiche sono disattese, i sacramenti disertati.
Situazione analoga a quella di Gesù in Gv. 6:  viene contestato perché si proclama “Parola” di Dio; viene abbandonato perché si proclama “Pane di vita” (salvezza non trionfalistica ma con offerta vita)
Ai Dodici Gesù dice: “Volete andarvene anche voi?”
Pietro risponde: “E da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Nella risposta di Pietro c’è la motivazione della vera fede che non subisce corrosione nel tempo. Le altre motivazioni si corrompono (non è vera fede personale ma semplice adesione al proprio gruppo).

2. NOI E QUESTA PAROLA DI DIO

Qual è il punto di discriminazione legittima fra coloro che si dicono cristiani e quelli che tali non sono?
Solo coloro che sono in grado di dire a Gesù “tu hai parole di vita eterna”, costoro sono il gruppo dei credenti: eletti, non nel senso aristocratico e sociale, ma nel senso spirituale, carismatico; cioè scelti dal Signore perché siano nel mondo non un impero che si ingrandisce, ma appena una manciata di sale e un pizzico di lievito.
Nella risposta di Pietro c’è la rinuncia alle attese politiche, trionfalistiche del messianismo ebraico e l’accettazione della via umile di Gesù che va verso la crocifissione.
Ora la vera fede ci introduce proprio in questa scelta qualitativa fatta da Gesù. Certo, la vera fede ci impegna anche e severamente nel cammino di liberazione dell’uomo e della terra accanto a tanti altri uomini che si spendono per la giustizia e la libertà, mossi a ciò dall’unico Spirito di Dio che investe la creazione. Ma il nostro specifico di cristiani è l’essere raccolti attorno alla Parola e all’Eucarestia  vale a dire attorno alla CROCE.
La parola di Pietro allora segna un punto essenziale per la vera fede: intesa correttamente essa significa rinuncia ad ogni ambizione, rinuncia ad ogni ricerca di potere, rinuncia ad ogni presunzione di ritrovare dentro di sé o nella storia il significato dell’esistenza.
La parola di Pietro rivela la nostra miseria di fondo, quella che ci porta a Lui, al Signore.  Perché solo Gesù Cristo, morto e risorto, porta luce all’uomo smarrito quando questi si interroga sul suo mistero personale e su quello globale dell’esistere.
Le parole di Gesù sono le uniche cui possiamo aggrapparci. Sono Parole di vita eterna: cioè di vita totale, secondo le promesse di Dio; di vita, già ora  almeno germinalmente, vita ricondotta alla piena autenticità, alla piena esperienza della liberazione. Potremmo mutuare così la parola di Pietro: “Signore, tu solo ci dai la piena libertà; tu solo ci dai l’esperienza della totale liberazione”.
La sura 103 del Corano dice: “In verità l’uomo è in perdizione”. E Giorgio Seferis: “come siamo piombati, compagno, in questa fogna di paura?”.  Le realizzazioni umane non potranno mai essere risposta adeguata a quel cumulo di attese in cui ritroviamo la nostra infinita miseria e anche la nostra straordinaria grandezza. Attese che permangono intatte anche e soprattutto là dove la civiltà delle cose cerca di drogarci con l’offerta di una felicità artificiale e con parziali liberazioni dalle sudditanze che ci stringono. Solo la Parola di Gesù può indicarci e avviarci verso una giustizia altra, una comunione nuova tra gli uomini, una corporeità trasformata e trasformante, una vita che sappia rispondere pienamente alle nostre attese, non solo infinite, ma di Infinito.

domenica 19 agosto 2018

Riflessione al Vangelo della XX Domenica del T.O.. Don Pietro

IL PANE VIVO: SAPIENZA ED EUCARISTIA

A) Il dono di sé che Dio fa all’uomo è il Figlio, la sua parola sapiente che si fa pane, carne per la vita dell’uomo. Chi lo accoglie riceve in se la sapienza stessa di Dio e la sua esistenza riceve un senso nuovo, già nel tempo.
B) L’uomo vive, è una rete di relazioni: con Dio, con se stesso, con gli altri e con il mondo. La novità di chi accoglie e “mangia” il pane divino della sapienza attraversa tutte queste relazioni e le trasforma.
L’UOMO DIFRONTE A DIO
Chi accoglie il dono della sapienza comprende, stupito, l’amore di Dio e lo riama esprimendo così ad un tempo il profondo desiderio dell’uomo e la sua gratitudine nel vedersi così incredibilmente amato. Il contenuto primo e pieno di questa risposta d’amore all’iniziativa amorosa di Dio è la fede, è credervi come al fondamento della propria esistenza abbandonando, come insegna Paolo, l’illusione di fondare in proprio il senso del proprio esistere.
È Dio che discende fino all’uomo per dargli la vita in Gesù. L’uomo, con la fede, si accosta a Gesù per ricevere la Vita. Credere in Gesù, credere a Gesù, credere in ciò che Gesù è, sono formule che, sotto angolature diverse, dicono la decisione con cui l’uomo si espropria di sé, per consegnarsi alla parola fatta carne e vivere di essa. La fede è certamente, nella sua componente cognitiva, una certa visione del mondo e dell’esistenza umana in esso. Ma il centro esistenziale della fede è l’affidamento totale di sé all’amore di Dio.
La fede è anche volontà di mettersi a disposizione di Dio, è obbedienza incondizionata al suo amore.
Nella comprensione di fede Dio non è né ovvio né assente da questo mondo, ma misteriosamente nascosto. Questo Dio dice a me il suo si d’amore dentro il si che dice al mondo. La sapienza di fede mi aiuta ad abbandonarmi a lui, a sperare nella sua parola e promessa di vita (A.T.) e giustificazione (N.T.).
A questo Dio io debbo offrire un “amore indiviso” non nel senso di una esclusività affettiva (1 Cor. 7),  ma nel senso di farne la ragione prima e ultima di ogni scelta umana.
L’UOMO DIFRONTE A SE STESSO
Con il dono della sapienza di Dio  l’uomo, rinunciando ad ogni delirio di onnipotenza, conseguenza del suo desiderio infinito, riconosce il suo limite creaturale, ma non diventa preda dell’angoscia e del nichilismo. Egli sa, infatti, che Dio lo ama, lo fa essere, gli dà un nome, cioè un essenza più profonda del semplice esistere.
 L’uomo è un essere amato e, perciò, interlocutore di Colui che lo ama. Accogliendo l’amore di Dio, l’uomo diventa capace di amare veramente l’altro in una realizzazione reciproca. L’uomo che ama è l’uomo “finito”: uomo, cioè non infinito; uomo compiuto in umanità.
L’UOMO DIFRONTE ALL’ALTRO
La ragione ci fa capire che l’esistenza è coesistenza. L’esperienza ci insegna che l’uomo è nativamente incapace di amare veramente l’altro uomo che viene visto come concorrente e/o come nemico. Solo la sapienza della fede ci fa vedere nell’altro un essere alla ricerca della sua realizzazione che mi interpella e a cui io debbo rispondere. Il dono divino (=Gesù) mi libera dalla impotenza di amare e trasforma la mia vita in dono all’altro nella figura della giustizia verso il diritto dell’altro che in me diventa dovere, e nella figura del perdono del nemico, a cui io non dico: “ti amo perché tu sei amabile”, ma “ti amo affinché tu sia amabile”. Non è chiudere gli occhi sul male passato o presente, ma aprirli sulla possibilità dell’uomo.
L’UOMO DIFRONTE AL MONDO
Il mondo, cioè le cose, è l’habitat dell’uomo. Le cose sono strumenti per la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, es. il cibo. Ma le cose sono, per l’uomo, anche valori: rispondono cioè a un bisogno di senso (es. convivialità). La sapienza della fede ci fa cogliere e usare le cose come doni di Dio all’uomo, segni del Suo amore. Responsabilità e compito dell’uomo consistono nel non interrompere questa dimensione di dono delle cose divenendo egli pure un “donatore”.
Senza la sapienza della fede, le cose o vengono quasi divinizzate rinunciando ad usarle (naturalismo) o vengono ridotte solo a oggetti da manipolare (tecnologia). Ancora: consumismo, aristocraticismo o spiritualismo sono altre patologie nella fruizione delle cose. Con la sapienza della fede l’uomo riesce a risalire dalle cose ai beni gratuiti che in esse sono presenti. Con l’amore di Dio sa destinarle ai bisogni di tutti gli uomini.

mercoledì 15 agosto 2018

SOLENNITA’ DELL’ ASSUNZIONE DI MARIA AL CIELO



1. Non abbiamo, oggi, il resoconto di un evento. Abbiamo solo l’annuncio della condizione finale, il destino, meglio la destinazione, di Maria di Nazaret.

La creatura Maria non è solo polvere che torna alla polvere, ma è chiamata ed orientata alla beatitudine piena in Dio.

2. L’Assunzione di Maria al cielo è l’anticipazione del destino di tutti.
Tutti saremo raggiunti dalla risurrezione del Signore.
Ogni storia e tutta la storia sarà condotta a Dio

3. Eloquenti e ricchi di immagini sono i simboli di Ap 12, 1-6.10

Il sole che riveste la donna: indica la posizione di privilegio presso Dio di Maria.
Le 12 stelle che  incoronano: alludono alla posizione di Maria in seno al popolo di Dio.
La luna sotto i piedi: Maria libera dal tempo ciclico, anzi ne è padrona.
La donna incinta, con le doglie: forte rinvio alla gloria attraverso angoscia e sofferenza.


venerdì 10 agosto 2018

LA MIA LETTURA SUL VANGELO DELLA DOM. XIX T.O. Don Pietro

SCORAGGIAMENTO E SPERANZA
1. Obiezione dei Giudei a Gesù: come può il figlio di Giuseppe, il falegname, dire: “Sono disceso dal cielo?”
Oggi l’obiezione, tradotta in forma moderna, suonerebbe: come può un uomo vissuto 20 secoli fa presentarsi a noi come “parola di vita eterna” ? Tra il suo mondo e il nostro c’è un abisso di eventi, trasformazioni, realtà totalmente diverse, per cui sembra impossibile guardare a Lui come a Colui che è disceso dal Cielo, al “senso” della nostra vita.

2. Una seconda difficoltà nasce da un’altra parola di Gesù nel brano odierno: “nessuno ha visto il Padre” .
C’è in questa parola, non unica nel vangelo, una chiara e forte dissuasione verso chi presume di parlare di Dio, di indicarlo come meta della vita dell’uomo, come punto di aggregazione della vita sociale. Si ridurrebbe il Dio di Gesù Cristo a un Dio nominale, conosciuto. In realtà noi non conosciamo Dio. Egli non è un oggetto della nostra mente. L’unico luogo di conoscenza di Dio è la parola di Gesù, parola di uno che ha conosciuto il Padre, che era presso il Padre. Allora: non è la nostra ragione la via per conoscere Dio, né l’intimismo psicologico, ma unicamente Gesù.
Noi crediamo perché crediamo che la parola di Gesù è Parola di Dio. Il velo che ci separa da Dio si è spezzato solo in un punto: l’esistenza e la parola di Gesù. Gesù è l’unico pane che ci vien dato nel nostro viaggio della vita.

3. IL VIAGGIO DI ELIA.
Elia vive un momento di estremo scoraggiamento, al punto di desiderare la morte: “riprenditi la mia vita, o Dio”.
Quella dello scoraggiamento è oggi tentazione particolarmente diffusa e acuta. Si configura come sentimento dell’inutilità del camminare, dell’inesistenza di una meta degna e capace di giustificare gli sforzi. Quello dello scoraggiamento è un sentimento nobile, è tipico delle anime sensibili. I superficiali e gli egoisti non lo conoscono: essi si prefiggono mete semplici, facili e, garantiti dal conto in banca, da una rete di affetti e di amicizie, veleggiano tranquilli verso il futuro. Per essere tranquilli essi innalzano una barriera protettiva tra la loro esistenza e molte realtà circostanti: la fragilità della vita; la rapidità con cui questa si consuma; le minacce di un futuro sempre più incerto; i rischi di un infelicità collettiva. Riflettere su queste cose è un obbligo morale. Uno ha tanta dignità morale, quanta è la sua apertura e sensibilità verso questi problemi, che producono scoraggiamento. C’è quasi una proporzione diretta tra scoraggiamento, infelicità e serietà morale. Più uno è moralmente serio e più è infelice perché si accorge che ciò che è moralmente degno della vita è instabile, precario e del tutto incerto. Soprattutto quando esso, per una stagione, era apparso possibile, raggiungibile, a portata di mano. Quando cioè alla primavera segue non l’estate, ma l’inverno. Quando questo accade, le ragioni del camminare, del lottare, si dissolvono e nasce lo scoraggiamento. Allora c’è chi si rifugia nell’orticello del proprio privato coltivando piccole soddisfazioni e grandi frustrazioni. Questo innalzamento di un muro tra se e il mondo è una forma grave di dimissione morale. Ma c’è anche chi avvertendo l’impossibilità di dare un senso alla propria vita in un mondo siffatto, cade nello scoraggiamento. Compito di noi credenti non è quello di diffondere serenità artificiali, speranze a buon mercato, bensì quello di prendere sul serio questi scoraggiamenti, attraversare insieme il tunnel buio delle situazioni, e cercare ragioni di vera speranza. È quanto dice la lettera di Pietro quando afferma: “sappiate rendere ragione della speranza che è in voi”.
Rendere ragione della speranza non è semplice. La vicenda di Elia può aiutarci. A questo profeta che sente di non farcela più, che avverte come al di sopra delle sue forze la missione affidatagli da Dio e che, perciò, protesta, il Signore dà una focaccia di pane e un orcio di acqua, due cibi elementari e semplici, segno esplicito della povertà elementare con cui Dio ci viene incontro. Dio, notate, non offre ad Elia un cavallo focoso e forte, non gli dà uno strumento di sicurezza, ma soltanto il cibo per camminare un giorno. Questo perché nel disegno di Dio la forza per camminare, andare avanti non viene all’uomo dai mezzi potenti, dagli strumenti umani, ma dall’amore.
L’amore vuole mezzi poveri perché esso nient’altro possiede che capacità inventive e fantasia creatrice. La sovrabbondanza dei mezzi ha spento la fantasia, ha reso inerte la creatività. Insomma la logica dei mezzi spegne e uccide la logica dell’amore. L’amore è forte di se stesso e capace di inventare. La logica evangelica di preferenza dei mezzi poveri nasce proprio dalla premura di salvare la preminenza dell’amore creativo. Se vengono meno i mezzi o si rivelano inadeguati al fine, l’amore vive di sé, trova in se stesso la possibilità di andare avanti.

4. Collegamento col vangelo.
Il mezzo povero che io ho come credente per vincere lo scoraggiamento e dare speranza anche agli altri è la parola di Gesù di Nazaret. Non abbiamo altre certezze e sicurezze umane: né teologiche, né istituzionali. Si sono tutte dissolte. Non ci resta che quest’orcio d’acqua e questa focaccia scaldata, questo cibo elementare: la parola del vangelo, la parola di vita eterna, una parola capace di illuminare le ragioni del nostro vivere. Anzi questa parola illumina anche le ragioni del nostro scoraggiamento, capovolgendo la disperazione che ci prende sul piano umano in motivo di soddisfazione. La perdita di alcune certezze che ci dà tristezza, si capovolge in grande gioia. Quando sono costretto a dire: non ce la faccio più, proprio allora mi nasce dentro una gran voglia di camminare e di essere accanto a quelli che non hanno più ragioni di speranza. Quando non ho più parole umane per consolare, allora posso contare sulla forza invincibile della parola di Dio. Dunque questo impoverimento di mezzi umani, è, nel viaggio, grazia di Dio, per la vita eterna.
Vita eterna nel linguaggio biblico, è vita in pienezza, non solo vita oltre la morte, ma già ora e qui. È vita diversa, segnata da una pienezza, segnata da Dio, non da noi o dalle cose. Questo mondo passa e viene da Dio un mondo diverso, verso cui andiamo. Chi non ha il dono di questa fede, è normale che si scoraggi fino al rifiuto della vita, non riuscendo a consolarsi con favole. Chi accoglie la grazia della fede sa, invece, che il suo viaggio è dentro l’amore di Colui che lo attende e interviene nei momenti di stanchezza e di scoraggiamento, per donargli la forza di spendere la propria vita per la salvezza del mondo. Allora nasce una somiglianza tra la vita di Gesù offerta fino alla croce e la nostra vita che diventa come la sua: dono offerto. Così svanisce la disperazione: quando la vita è donata in un’ offerta di amore.

martedì 7 agosto 2018

Per scuoterci dalla rassegnazione, indifferenza ed egoismo

La tragedia dei braccianti

LA DIGNITÀ
SOLO DA MORTI

I sedici esseri umani che hanno perso la vita in questi ultimi giorni sulle assolate rotte della via del pomodoro sono caduti in una terra dove, a quanto pare, l'intolleranza verso lo straniero è minima: effetto, secondo alcuni, del tradizionale senso di accoglienza e di apertura delle genti di Puglia. Ma, secondo altri, c'entra anche la convenienza: perché, specialmente nella stagione del raccolto, queste tante braccia aggiuntive fanno comodo. E dunque praticare lo sport nazionale dell'aggressività contro lo straniero sarebbe, oltre che inutile, dannoso.
Forse c'è del vero. La gente di Puglia è aperta e generosa, lo è sempre stata. E lo slancio, da queste parti, ha sempre prevalso sul calcolo. Ma la Puglia è, nello stesso tempo, la terra del caporalato, delle epiche lotte di Giuseppe Di Vittorio, dei canti amari e profondi di Matteo Salvatore, delle indiscutibili inchieste di Alessandro Leogrande. Si potrebbe però dire: questi poveracci non sono mica vittime di un agguato razzista o di uno scontro fra clan. Sono morti in incidenti stradali. Come centinaia di persone ogni anno. Fatalità, al massimo.
Allora perché scomodare il razzismo, il caporalato, i massimi sistemi? In realtà, il trasporto dei lavoratori per e dai campi è proprio uno dei core business del caporalato. Una buona parte della certo non lauta paga del bracciante se ne va proprio in trasporto.
È ancora presto per pronunciarsi sulla dinamica degli incidenti, ma le norme della legge Martina sulla lotta al caporalato che prevedono le convenzioni per il trasporto - norme pensate proprio per sottrarne il monopolio agli sfruttatori - non paiono aver trovato una completa applicazione. Ed è difficile pensare che nei campi i braccianti (non solo gli stranieri, s'intende) se la spassino alla grande.
Ma queste morti suscitano altre riflessioni, se si vuole meno "tecniche". Noi, dello straniero che occupa ormai ossessivamente le nostre cronache, le nostre narrazioni, i nostri pensieri, in realtà non conosciamo quasi mai né il volto né il nome. Non ci interessa conoscerli. Lo chiamiamo, al più, migrante. Evoca diffidenza, rancore, un terrore che talora, ma sempre più raramente, mascheriamo di ipocrisia: porte aperte a chi fugge da guerre e carestie, nessuno spazio per i migranti economici, quelli li aiutiamo a casa loro.
Eppure. I sedici morti del Tavoliere e di Lesina erano migranti economici. Venivano dall'Europa dell'Est e dall'Africa nera, ripercorrevano le rotte che un tempo erano state di noi italiani, quando andavamo a cercar fortuna sotto la Statua della Libertà, navigando dagli Appennini alle Ande. Ora che sono morti cominciano ad acquistare un'identità più precisa. Da indistinti "migranti" a "stranieri braccianti". Qualcuno ha preso persino a trascriverne i nomi.
Che tragedia paradossale: la morte ci ha costretti a prendere atto della loro esistenza nel momento in cui cessano di esistere. Non possiamo più considerarli fantasmi, i loro corpi ce lo impediscono. Sono state stroncate vite. Si è persa per sempre la possibilità di conoscere la loro storia, le traversie, i dolori, le gioie che li hanno segnati, che cosa li ha spinti così lontano, incontro a un destino che certo non desideravano né sognavano. Ora hanno riacquistato, nella morte, la dignità di persone, non più numeri, unità produttive, qualifiche operative, voci di reddito. Una dignità a prova di fake news. Facciamo in modo che non resti l'unica dignità possibile.

domenica 5 agosto 2018

La riflessione di Don Pietro al Vangelo della XVIII Domenica del T.O.

L'evangelista Giovanni ci ricorda che
“quando la folla vide che Gesù non era più là, salì sulle barche e si diresse alla ricerca di Gesù”.

Ma dov'era Gesù ? Gesù era nel luogo della misericordia e della compassione.
Quando non c'è Gesù, non c'è misericordia  e, viceversa,  dove c’è misericordia lì c’è sempre Gesù.
Allora bisogna cercarlo altrove rispetto ai luoghi norrnali, canonici e cioè la famiglia, i Movimenti,  il luogo del culto,  la chiesa come tempio materiale?

“Rabbi quando sei venuto qui?, chiede la folla quando incontra Gesù.
         Cioè:  perché c'hai lasciati, perché  te ne sei andato via?

Gesù risponde: Voi mi cercavate perché avete mangiato quei pani e vi   siete saziati.
Cioè voi cercavate non Dio, ma il vostro appagamento. Nel vostro   cercarmi non c'era gratuità, ma interesse.

“Datevi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna”  , raccomanda Gesù alla folla e aggiunge:  “Questo cibo è fare   la volontà del Padre mio” 
E la volontà di Dio è rendere felice l'uomo: questo è quello che Dio vuole dai suoi seguaci.
        Poi Gesù li esorta  a vivere una fede senza paura e senza sacrifici inutili.

Infine Gesù afferma :
“Questa è l'opera di Dio: che crediate   in Colui che egli ha mandato” :

          Cioè credere all'amore che Dio nutre per noi nel Figlio.

La fede è l'opera più importante. Fede è scoprire il volto di Dio in ogni     segno materiale.

“Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
          Solo Gesù può saziare la fame di vita che è in noi.

“Io sono il pane della vita”:
Un Dio che vuole essere  gustoso per chi lo mangia, un Dio da mangiare.

venerdì 27 luglio 2018

QUALCHE SPUNTO SUL VANGELO DELLA DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro


LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI


1. Letture fuorvianti dell’episodio
A. Dio compreso come “risposta” al bisogno dell’uomo (un dio che serve all’uomo,  un dio tappa-buchi); 
Dio è dono totale di sé all’uomo, gratuitamente, per amore;
Dio supera infinitamente le nostre attese; 
Dio non vuole essere cercato per “bisogno” ma per amore.

B. Una lettura socio-economica molto apprezzata oggi, ma sterile.

C. Una lettura sulla tangente spiritualistica

2. Una lettura corretta
Non del pane materiale, non del pane spirituale si vuole dire, ma della Parola che diventa pane.
È l’Eucarestia: una parola che diventa pane e poi si ridistribuisce a tutti; un unico pane, non uno materiale e uno spirituale.
Tutta la vita di Cristo si svolge sotto il segno del pane: comincia sotto la tentazione del pane e finisce con il pane: “Prendete…”;  Egli si presenta come il pane disceso dal cielo. Oggi si parla della moltiplicazione dei pani. Ma il vero miracolo è quello della distribuzione dei pani: “Prese i pani e li distribuì” e mentre li distribuiva li moltiplicava.

C’è tanto di quel pane sulla terra che basterebbe distribuirlo. Ma ciò avviene solo quando la parola diventa pane: l’amore diviene gesto.
I lettura: “Dallo da mangiare alla gente”: è nel credere nella parola che avviene la moltiplicazione del pane. 
Non è la penuria di pane il vero problema, bensì la penuria della fede nella potenza della parola: distribuisci il pane che hai…
Il primo non è il discorso economico. È la fede nella parola che dice: dallo da mangiare, distribuisci e vedrai che mangeranno e ne avanzeranno. È la fraternità nuova nella parola la premessa per affrontare il problema della fame.

NOTA: Gesù sale sulla montagna:
E’ la montagna delle beatitudini; è il monte di Dio da cui vedere tutto con i suoi occhi, la folla di affamati. 
Gesù …”cominciò a distribuire il pane”. È più facile moltiplicare il pane che distribuire il pane. Distribuire il pane vuol dire cambiare le nostre politiche; vuol dire disarmare tutte le potenze che detengono i beni della terra che sono dei poveri e degli affamati. Il miracolo più grande non è la moltiplicazione, bensì la distribuzione che nasce dalla CONDIVISIONE. Alcuni paesi del nord del mondo consumano da soli tante risorse ed energia da poter sostenere 22 miliardi di uomini. Lo dice la scienza! Allora non si tratta di disturbare Dio, quanto noi ,le nostre politiche, il nostro”ordine” economico mondiale.
E la chiesa è dentro il sistema e cerca di non disturbarlo: vanità delle esortazioni a intervenire sulla fame nel mondo!


mercoledì 18 luglio 2018

Letture per riflettere...


Migrante economico
Sfaccendato
Il profugo si riconosce dal migrante economico perché spesso è malnutrito. Come del resto il migrante economico. Però il pro­fugo spesso ha conosciuto le prigioni senza ragione alcuna. Come del resto il migrante economico. Ma il profugo quasi sempre viene da Paesi in cui non c'è democrazia. Come del resto il mi­grante economico. Le profughe, spesso sono prive delle minime libertà civili. Come del resto le migranti economiche. Profughi e profughe quasi sempre hanno percorso il deserto rischiando la morte, e vedendo morire quelli intorno a loro. Come del resto migranti economici e migranti economiche. I profughi e le pro­fughe hanno passato giorni infiniti nelle carceri libiche, oggetto di vessazioni di ogni genere, dalle torture alle violenze sessuali. Come del resto i migranti economici, e le migranti economiche. Però ascoltate un cretino: se volete far credere di non essere
razzisti ma lo siete nel profondo, se giurate sul Vangelo ma delle vite umane non ve ne frega un cazzo, se lasciate morire la gente in mare perché bloccate i soccorsi ma volete sfangarla con la vostra coscienza e con quella dei mentecatti che vi ritengono uno statista, fate così: dite che i profughi, pochi, e previa disinfezione, quelli, forse, li accogliete. Ma i migranti economici mai.
Notizia ANSA
PALERMO, 14 LUG - Sembra pelle e ossa, pesa 35 chilogrammi, ha 27 anni, e avrebbe trascorso "sette mesi drammatici" in Libia, dove sarebbe stata anche violentata. E'
una delle donne trasferite a Lampedusa dal barcone con 450 migranti e poi ricoverata nel pronto soccorso dell'ospedale Civico di Palermo. Non parla, tanta e' la stanchezza, ma anche la paura, che le incutono i ricordi che non riesce a cancellare. Ma appena arrivata in ospedale ha trovato la forza di gridare, indicando la figlia di 4 anni che era con lei: "non
mangia da tre giorni, aiutatela, datele del cibo, subito, vi prego...". Poi si e' chiusa in un silenzio carico di tensione da smaltire. Ed e' stata la bambina, dopo avere mangiato latte e
biscotti, a prendersi cura di lei.
E' stata lei a scegliere, a Lampedusa, i vestiti per la madre tra quelli messi a disposizioni da associazioni di volontari. Ed e' lei a tentare di farla sorridere cantando e ballando. Per la
musica ha usato un cellulare messo a tutto volume. Ha cantato e danzato apparentemente felice. La madre l'ha guardata, ed e' sembrata sorridere anche lei, ma soltanto con gli occhi, non ha la forza per fare altro.


lunedì 16 luglio 2018

DOMENIVA XV DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di Don Pietro

L’annuncio che i discepoli-missionari debbono portare lungo le strade è: « il regno dei cieli è vici­no ».
Dunque: un apostolato itinerante, un anda­re verso gli altri, non aspettare che siano essi a ve­nire. E proclamare il Regno: una buona notizia, non annunci di sciagure ne di punizioni divine.
Per rendere, poi, credibile il messaggio, occorre pren­dersi cura dei feriti, dei morti, di chiunque il Mali­gno tenga prigioniero.
Il tutto come servizio asso­lutamente gratuito, motivato soltanto da un amo­re compassionevole, senza scopo di lucro alcuno: né materiale, pretendendo ricompense, né spiritua­le, per accumulare meriti dinanzi a Dio, né per fa­re proseliti.
Una gratuità totale a imitazione di Dio che, in Cristo, vuole incontrare l'uomo come pu­ra grazia e incondizionato amore.
La fiducia dell'apostolo deve essere riposta uni­camente in Dio, che provvede ai suoi bisogni materiali suscitando accoglienza pronta e ospitalità generosa da parte di persone buone, presenti in « qua­lunque città o villaggio».
Ma non è da escludere neppure qualche episodio di rifiuto:
l'apostolo non deve fare rimostranze né maledire.
Ci penserà Dio, ma soltanto alla fine, «nel giorno del giudizio».