La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

giovedì 30 novembre 2017

Dedicato a tutte le mie amiche e sorelle

Ciao ,mi hanno mandato un post che parla delle donne che si trovano nella Bibbia e voglio condividerlo con te...

Non mollare MAI.... !
Sii "audace" come  Ester, e coraggiosa abbastanza, per schierarti a difesa della verità, non temere di dire la tua opinione, lotta per il bene davanti all'opinione pubblica anche a costo di sacrificare te stessa. Se Dio ti ha portato in una posizione è per uno scopo. Non avere paura a prestare attenzione alla voce interiore. Sii come Rut, leale in tutte le tue relazioni, fai un miglio in più e non tornare indietro quando incontri difficoltà. Un giorno vedrai perché ne è valsa la pena.
Sii come  Lidia, lascia aperta la tua casa, lascia che le tue mani siano generose, lascia che il tuo cuore sia grande abbastanza per aiutare chiunque sia in difficoltà. La gioia è più grande se condivisa.  Sii come Hanna, non smettere mai di pregare. Non sarà mai inutile.     
Sii come Maria ,  umile e sottomessa. Non devi essere orgogliosa che Dio ti sta utilizzando, tu devi solo obbedire.  Sii come Dorcas, usa i tuoi talenti, per quanto piccoli sembrano, anche per portare un semplice sorriso sul volto di qualcuno. Non saprai mai quanto importante quel sorriso potrà essere stato. Sii come Abigail , ricordati come ogni decisione possa trasformare la tua vita intorno a te per il bene o per il male. Sii saggia.   
Sii come Elisabetta, non importa ciò che Dio fa, é Dio dei miracoli.             
Sii come Maria Maddalena, non lasciare che i tuoi errori e giudizi di altre persone ti impediscano di sperimentare la gioia di Dio.             
Sii come Rebecca, non dimenticare mai, che la vera bellezza è nella tua personalità. Attira tutte le persone che tu ami vicino a Dio attraverso il tuo carattere cristiano.
E infine: Sii come Sara, l'età non è importante, solo la fiducia e la fede che tutte le cose sono possibile con Dio secondo i suoi tempi.

sabato 25 novembre 2017

Solennità di Cristo Re. Riflessione di don Pietro

1. il senso della regalità di Dio in Cristo

Dopo l'esperienza fallimentare e deludente della regalità umana rivelatasi corrotta,  traditrice, oppressiva e idolatra, Dio, attraverso Cristo-Messia, decide di assumere in proprio una regalità alternativa a quella mondana.
Se i re della terra esercitano il potere come dominio, la signoria di Dio in Cristo si caratterizza come servizio umile, generoso al povero che vive in ogni uomo.
Se i potenti della terra opprimono, sfruttano e angariano, Dio in Cristo realizza e attua la vera giustizia.
La signoria di Dio è la forma più alta di grazia orientata alla comunione dell'uomo con Dio e degli uomini tra di loro.
La signoria di Dio attraverso Cristo diventa alla fine anche giudizio sulle opere degli uomini e in particolare dei potenti.

2. La regalità di Dio in Cristo trasferita alla Chiesa e ai credenti.

La Chiesa, partecipando della regalità di Cristo, riceve un onore grandissimo ma si espone anche ad un rischio altrettanto grande e si sobbarca ad un onere non indifferente.
La Chiesa partecipa veramente alla signoria del Cristo se come lui sa farsi serva della verità, della pace, della giustizia, della dignità di ogni uomo.
Come Cristo era re per la salvezza degli altri così anche la Chiesa non è per sé, per la sua riproduzione, per la sua permanenza in eterno, ma è per il regno.
Il regno di Dio inizia già nella storia ma avrà il suo compimento, la sua pienezza, solo alla fine della storia.
Il regno di Dio ha come destinatari privilegiati i poveri e quelli che si fanno poveri, come il Cristo.
Il regno di Dio è un regno di carità concreta verso gli affamati, gli assetati, gli ignudi, i carcerati, gli stranieri, le persone sole e abbandonate...
Nel regno di Dio l'amore è personale, non solo universale.
Nel regno di Dio si proclama e si indica  a tutti la condivisione dei beni. E, infatti, la vera divisione che fa scandalo e grida a Dio è quella tra chi mangia e chi non mangia, chi ha un tetto, un letto… e chi non ce l’ha…

3.  La legge del regno

La legge fondamentale ed unica del regno è l'amore. L'amore verso il fratello come riflesso ed espressione dell'amore di Dio in noi e del nostro amore verso Dio.
Un amore che può e deve avere molti nomi:  attenzione, sensibilità, perdono, solidarietà, condivisione, lotta della giustizia e per la pace, disarmo, istruzione, liberazione...
L'amore, ci ricorda l'apostolo Paolo nel capitolo 13 ai corinzi, inizia non tanto col fare delle cose, ma esattamente con l’astenersi dal fare certe cose come per esempio cedere all'orgoglio, all'egoismo, alla vanità, allo sfruttamento, all'ingiustizia, all'offesa ecc.. L'amore, è ancora Paolo a ricordarcelo, non consiste nell'elemosina. Col danaro abbiamo corrotto tutto, anche l'idea di carità. Amare non è innanzitutto dare. Amare e soprattutto darsi.
Amarsi, poi, è molto meglio che armarsi.

sabato 18 novembre 2017

La parabola dei talenti: riflessione al Vangelo della 33ª domenica del tempo ordinario. Don Pietro

Questa parabola di Gesù non intende minimamente legittimare il sistema economico finanziario né vuol essere una esaltazione dello spirito imprenditoriale o dell'efficientismo mercantile.
Questa parabola vuole solo proiettare una luce su Dio, sull'uomo, sui beni della terra.
I talenti di cui si parla alludono al grande dono della vita con tutti i regali che l'accompagnano. Investendo il talento della vita questo talento si moltiplica e arricchisce chi lo investe sempre di più.

Vediamo un po' i personaggi di questa parabola.  Anzitutto il padrone e poi i primi due servi donatari dei talenti
Il padrone a un certo punto è assente, se ne va, non c'è.Questa assenza  allude al silenzio in cui   Dio è entrato dopo aver pronunciato la sua  parola più alta sulla croce. Dopo quell’evento Dio  non ha più nulla da dirci. Dio ha  affidato la sua  parola nel tempo  del suo silenzio allo Spirito Santo.
Questo padrone è generosissimo nel dispensare le sue ricchezze. Dunque è buono, è munifico, vuole il nostro bene, la nostra felicità e ci da tutto ciò che ci può servire perché questa felicità non sia solo un sogno ma una realtà.

Questo padrone è buono e sorprendente perché non pretende indietro ciò che ha donato ai suoi servi e alla fine questi serbi sono resi signori perché nel suo regno Dio non vuole ricchi, ma  vuole che tutti siano signori. I ricchi non danno a nessuno ciò che hanno, invece i signori sanno condividere quello che hanno.
Questo padrone giudica buoni come Dio creando uomo e  la donna vide che erano molto buoni.
 Questo padrone giudica buoni i primi due per il loro agire. Se Dio fosse un'agenzia di Rating darebbe a questi due servi attribuirebbe un A tre. 

Vediamo invece il terzo servo, colui che rinuncia a investire il suo talento perché non ritiene suo il talento, perché non crede alla generosità e alla bontà del suo padrone, perché non sa rischiare. Egli seppellisce il dono ricevuto e seppellendo il dono seppellisce un po' se stesso. Agisce così  perché giudica cattivo il padrone  donatore Forse è  affetto un po' da paranoia perché vede il male in tutti gli altri. Infine lui si limita solo a non fare il male. lL’agenzia di rating sarebbe molto severa con lui.
È quali sono gli insegnamenti per noi in questa parabola?
Primo insegnamento: una falsa immagine di Dio, un  Dio percepito come cattivo come giustiziere  finisce fatalmente per  bloccare la nostra crescita personale.

Secondo insegnamento: La paura ci  paralizza e ci fa restare infantili e  non ci fa crescere.

Terzo insegnamento:  stiamo attenti! Dio si adira per una sua immagine negativa perché essa distorce i tratti del suo volto.

Quarto insegnamento:  produrre vita è accrescere la propria vita e quella degli altri.

Quinto insegnamento:  il fazzoletto in cui l'ignaro nasconde e seppellisce il talento che ha ricevuto e il sudario che si stendeva su un cadavere prima di seppellirlo hanno in greco lo stesso vocabolo.

Sesto insegnamento:  la vera fede libera le energie non le inibisce mai.

martedì 14 novembre 2017

Alberto Maggi: "Siamo tutti schiavi del più grande tabù"

Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di "eresia", è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell'esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede."Avevo appena ultimato un saggio sull'ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d'urgenza per una dissezione dell'aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l'esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi... Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l'eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all'ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell'azione creatrice del Padre".

Fatto sta che oggi si persegue tutt'altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
"È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell'uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all'infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l'uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa... Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po', ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte.

Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l'estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un'ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto".

Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
"Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: "Noi che siamo già resuscitati", "noi che sediamo nei cieli". Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentrebiosindica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovaniscedi giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai".

E allora l'Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
"Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa".

Non è una visione del cristianesimo un po' troppo gioiosa, consolatoria?
"Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall'alto. Quando stavo male, le persone pie  -  che sono sempre le più pericolose  -  mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione".

Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all'effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
"Questo secondo l'immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l'uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un'offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l'uomo ".

Ecco che salta fuori Maggi l'eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
"La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l'uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l'uomo. Con Gesù invece Dio è all'inizio e il traguardo finale è l'uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l'osservanza della legge divina e il bene dell'uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell'uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all'uomo".

Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos'altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
"Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l'apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà".

Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
"Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all'immensità dell'amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell'Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce".

venerdì 10 novembre 2017

VANGELO DELLA XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. COMMENTO DI DON PIETRO

Le comunità cristiane post-pasquali attendevano come imminente il ritorno glorioso del signore Gesù, la sua parusia. Questo clima di attesa, protraendosi molto, aveva indotto non pochi al disimpegno, in qualche caso a un vero e proprio ozio spirituale e materiale, come nella comunità dei Tessalonicesi. Paolo indirizzerà a quei cristiani moniti molto severi. Verosimilmente anche nel suo gruppo  Matteo deve aver registrato un calo di tensione spirituale e morale, riconducibile pur’esso a una diffusa delusione per il ritardo del Signore. Memore di una parola di Gesù sul comportamento da tenere proprio nell'eventualità di un differimento della sua venuta, Matteo ripropone la parabola delle dieci vergini, adattandola al momento particolare che la sua Chiesa stava vivendo.
La parabola ad alcuni è parsa parecchio inverosimile. E infatti certi particolari  presentano un carattere più vicino all'allegoria che alla parabola. Tenendo conto di queste osservazioni, proviamo a leggerla come rivolta a noi che, similmente ai nostri antenati cristiani, viviamo nel tempo dell'attesa di un ritorno del Signore che sentiamo ancora lontano.
Gesù, annunciando il proprio ritorno, aveva già più volte esortato i discepoli ad una vigilanza attenta e operosa. Ora li invita ad essere prudenti e preveggenti, nel senso di attrezzarsi dell'occorrente nel caso in cui l'attesa della parusia dovesse protrarsi.
L'incontro tra il Signore che ritorna e l'uomo che lo attende era stato finora descritto da Matteo come rapporto padrone-servo. Con questa parabola il rapporto diventa sposo-sposa. Quest'ultima, cioè la Chiesa, è la realtà a cui alludono le dieci vergini. Non c'è dubbio che la metafora nuziale è molto più ricca di tonalità affettive e anche più biblica: basti pensare al profeta Osea.
La festa nuziale di cui parla il brano è ambientata nella notte. Metafora potente, la notte! Certamente la più idonea per alludere a quella condizione di buio profondo e in cui la creatura tanto spesso viene a trovarsi, prigioniera delle tenebre. Tenebre rotte soltanto dall'affanno e dal gemito dell'uomo; tenebre anche come allegoria del peccato e della morte.
Proprio nel cuore della notte, a mezzanotte, l'ora del trionfo massimo delle tenebre, man che l'ora più amata da Dio, accade l'imprevisto: Dio visita la sua creatura, la Chiesa, il mondo, per legare tutti gli esseri con un vincolo d'amore eterno e senza più  ripensamenti.  Dieci vergini escono incontro allo sposo. In questa breve notazione è racchiuso tutto il senso dell'esistenza:  vivere è uscire, esodo permanente da quella tirannia che il proprio io faraonico vuole imporre su tutto, per scoprirsi viandanti tesi ad un incontro con Qualcuno che da sempre è già in cammino verso di noi.
Cinque di quelle dieci vergini sono prudenti perché portano con sé una scorta d'olio per le lampade. Le altre cinque, essendo stolte, non lo fanno.
Ancora una volta grano e zizzania insieme, pesci buoni confusi con i cattivi. Sarà così sino al ritorno dello Sposo, piaccia o no ai nostalgici del paradiso in terra e di una Chiesa già ora senza rughe e senza macchie.
Le cinque stolte erano comunque vergini. Evidentemente la verginità da sola non garantisce, se non si sposa con altre virtù, con la prudenza nella fattispecie. Prudenza, in questo caso, come preveggenza, accortezza, sapienza, discernimento,  intelligenza, giudiziosità..., insomma tutto il corteo delle altre preziose virtù che rendono la prudenza indispensabile. Un dono dello Spirito, la prudenza, da invocare nella preghiera, da accogliere con cuore riconoscente, ma anche da coltivare  esercitandola ogni giorno.

"Poiché lo sposto tardava, si assopirono tutte e dormirono".

Perché questo ritardo dello sposo?
Perché l'ora di Dio non sempre coincide con la nostra ora. Perché anche il suo ritardare è grazia per noi. Con l'attesa può crescere e diventare più vivo il nostro desiderio di lui e la sua assenza può diventarci salutarmente insopportabile. E intanto, mentre aspettiamo, possiamo purificarci, prepararci meglio all'incontro: il tempo, vuoto di per sé, c'è dato proprio per questo e possiamo anche, se è a una festa di nozze che dobbiamo andare, viestirci degli abiti della festa smettendo quelli logori della fatica e del pianto.
C'è, però, la tragica possibilità che le vergini, tutte e dieci, comprese le prudenti, si addormentino. Accade quando non riusciamo ad essere più uomini e donne dell'attesa di Qualcuno. Cioè quando non siamo più niente, perché la creatura altro non è che vuoto che anella a colmarsi, assenza assetata di compagnia, solitudine alla ricerca di un tu in cui ritrovarsi.
Accade all'uomo sazio che ha tutto e non è più in grado di accorgersi che manca di Tutto, che è di infinito la sete infinita che lo divora.
Accade quando non si è più capaci di vedere e interpretare i segni premonitori dell'arrivo dello sposo: la profondità della notte e il sonno dei cuori. Già, il sonno. Non è identico nelle dieci vergini. Quello delle stolte abbraccia anche il loro cuore. Nelle prudenti le membra esauste per il ritardo si abbandonano sì al sonno, ma il loro cuore veglia, presago delle visite notturne dello sposo. È il cuore ancora capace di sorpresa, aperto alla novità, consapevole che i giochi non sono mai fatti del tutto, il cuore che sta come sentinella sull'uscio a scrutare ogni impercettibile rumore di passi di viandante nella strada.

"A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro".
Chi sono quelli che debbono scuoterci dai nostri torpori grevi, snidarci dai rifugi onirici in cui amiamo rintanarci? Sono i profeti, i provocatori di coscienze intorpidite, i giusti con la limpidezza della loro vita; sono le moltitudini di uomini e donne in lamento e grido per l'oppressione che li sovrasta; è la chiesa quando lo Spirito la libera dal ripiegamento su se stessa. Ed è sempre un grido di gioia: ecco lo sposo, l'Atteso dei secoli, la speranza delle genti.

"Dateci del vostro olio...". "No..., andate piuttosto dai venditori e compratevene ".

Senza l'olio della fede-speranza-carità non può iniziare la festa. In oriente l'olio si offre all'ospite. Nel sogno dei profeti il suo fluire a fiumi giù per le valli  è il segno atteso per i tempi messianici insieme con cascate di vino. Nella lettura devota dei rabbini l'olio simboleggia la giustizia messianica che avrebbe illuminato e rallegrato la terra.
Il rifiuto delle vergini prudenti di spartire il loro olio con le stolte non va imputato a egoismo o ad avarizia. Il tempo della condivisione è quello che precede l'arrivo dello sposo. Oltre quella soglia si è soli davanti a lui, ognuno con quello che è riuscito a portare nelle proprie mani. Del resto, verità, giustizia, sapienza, amore..., sono conquiste personali, fatiche non delegabili ad altri,  esperienze fatte in prima persona anche se insieme con gli altri, mai vicarie. I compiti a casa non ce li può fare nessuno: al massimo qualcuno può aiutarci, mai sostituirsi a noi.

"E la porta fu chiusa".

Parola spaventosa. Decisione terribile. Dietro quella porta spalancata, nella sala illuminata a giorno, gioia, danze, festa: la letizia dell'amore, il gaudio di un incontro di intimità e comunione. Fuori, "pianto e stridore di denti". In mezzo lo sposso nelle vesti di giudice e una sentenza agghiacciante: "non vi conosco". Eppure anche quelle cinque vergini erano state invitate alle nozze...

"Vegliate dunque".

La vita cristiana è vigilia per tutto l'arco della sua durata. È attesa delle nozze. Occorre prepararsi all'evento. La lampada rischia di spegnersi se non la si alimenta ogni giorno con l'olio della preghiera, del desiderio vivo di Dio, di quella carità operosa secondo la misura sovrabbondante del "discorso della montagna". È di amore che dobbiamo riempire questo frattempo di grazia che ci è concesso.
Per il mondo il tempo è denaro. Per il discepolo è grazia, tempo offertogli per amare Dio che per primo ci ama e quanti lui ama.

venerdì 3 novembre 2017

RIFLESSIONE AL VANGELO DELLA XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Lo scontro tra Gesù e i capi di Israele va facendosi via via più duro. Dopo aver polemizzato vivacemente con loro, Gesù passa alla denuncia aperta e pubblica dei loro vizi più gravi e più scandalosi. Egli vuole smascherare agli occhi della gente quella onorabilità di cui si ammantano e di cui vanno fieri ma che, in realtà, è soltanto parvenza e nasconde comportamenti per niente lodevoli.
L'attacco che Gesù  sferra alle false guide religiose del popolo e la reazione rabbiosa che esso provoca fanno, intanto, precipitare sempre più gli eventi verso l'esito tragico della croce. L'ostilità che Gesù ora sperimenta nella propria pelle sarà la stessa che, alcuni decenni dopo la sua scomparsa, conoscerà la comunità di Matteo nello scontro con le autorità dell'epoca. La narrazione di Matteo rispecchia in qualche modo questa dolorosa situazione.

Gesù con una punta di ironia ma senza sarcasmo, riconosce la bontà degli insegnamenti impartiti dai suoi avversari, scribi e farisei, però diffida le folle dal seguire i loro esempi, "perché dicono e non fanno". Insomma, predicano bene e razzolano male. Le esigenze che l'osservanza scrupolosa della legge comporta, essi le conoscono e sono anche bravi a indicarle alla gente, salvo poi disattenderle nella loro vita quotidiana.
La  proposta morale, poi, che essi fanno è senza misericordia e compassione. Si limitano, infatti, a imporre pesanti fardelli sulle spalle del popolo, ma nulla fanno per aiutare chi, sotto quei pesi, rischia di soccombere. Se un insegnamento non è accompagnato da aiuti concreti per metterlo in pratica resta una pia e sterile esortazione, o finisce con lo scoraggiare e indurre alla rinuncia chi, generosamente, voleva provare a realizzarlo. Non così Gesù, che faceva prima di insegnare, e le sue pecore le guidava, le nutriva, le sosteneva e le incoraggiava nelle difficoltà.
Vanità, narcisismo,  esibizionismo, delirio di grandezza sono, inoltre, i vizi più diffusi di scribi e farisei. Vizi intollerabili agli occhi di Gesù che, invece, si è fatto servo disdegnando per sé onori e riconoscimenti. Sferzante è la sua parola contro il vezzo di quegli ineffabili signori, per i quali la fedeltà alla Legge si esaurisce unicamente nell'esibire sacre coccarde, sciarpe e distintivi vistosi sugli abiti, al solo scopo di far colpo sulla gente, di accreditarsi agli occhi degli ammiratori come persone profondamente attaccate alla religione.
Che cosa direbbe Gesù di certe nostre processioni e manifestazioni esteriori con tanto di stendardi, tuniche differenziate per gradi e colori, galiardetti, luminarie e vessilli vari? Che cosa c'e  sotto certe pubbliche rappresentazioni? E dopo, che resta?
Il Vangelo -è doloroso ma onesto riconoscerlo- è rimasto in gran parte disatteso dai cristiani, salvo nobilissime eccezioni. Dispiace, però, constatarlo  inattuato anche in quelle indicazioni che, tutto sommato, non richiederebbero grandi sforzi e dolorose rinunzie. Che fine ha fatto la diffida e la severa ingiunzione di Gesù di non sollecitare e di non fregiarsi di titoli onorifici e pomposi come "rabbi" (alla lettera: "mio grande") e "maestro"? È sacrificio tanto grande rinunciare spontaneamente a quei titoli e a quanti altri, nei secoli, ha escogitato la schiera congiunta di vanitosi e  adulatori?
Almeno in queste inezie si potrebbe tentare di essere fedeli alle indicazioni del Signore! Egli, in verità, ha disapprovato finanche l'uso della più innocente voce "padre", riservandola soltanto a Dio. Anche qui disobbedienza totale e continuata!
Quando capiremo che Gesù ha messo in quiescenza tutti questi titoli con cui ama paludarsi l'irriducibile vanagloria degli uomini?