La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

venerdì 28 aprile 2017

Riflessione al Vangelo per la III Domenica di Pasqua - Don Pietro

A. Una grande ricchezza di messaggi

La parola di Dio di questa domenica. ci parla delle difficoltà che la comunità credente incontra per scoprire il Risorto nel proprio cammino. Viene registrata anche la delusione per una salvezza che tarda e che è diversa dalle proprie aspettative. Inoltre la fede è presentata come un cammino e l'inserimento nella comunità è uno dei suoi approdi  essenziali. Infine, viene presentato il Risorto mentre cammina con i suoi discepoli, e la sua è una presenza che si manifesta nella familiarità quotidiana della vita.

B. Il cammino del Risorto con i discepoli

Gesù non è un'idea vaga, un personaggio del passato, ma un compagno di strada che viene nascostamente, in incognito, nelle nostre vite, esattamente là dove noi avvertiamo scoramento, delusione e tentazione di desistere.
La sua presenza-compagnia lungo la strada del nostro  esistere non è legata a visioni celesti, a interventi sensazionali e riconoscibili a prima vista. Il Risorto va scoperto nella dimensione spesso oscura del quotidiano ed è sempre, o quasi, una presenza inattesa e quindi sconvolgente. Il Risorto non è una persona da vedere. La sua è una presenza invisibile da percepire come evento che fa vivere.
Questo è il cammino della fede per una comunità credente: arrivare a sperimentare Gesù come il Vivente, donatore di vita, come Colui che ha potere sopra la morte e sopra gli inferi.


C. Le tappe della fede.

1. La parola
Vita, missione, morte e risurrezione di Gesù sono dischiuse e offerte alla nostra fede nel loro unico è vero significato dalla parola di Dio consegnata alle Scritture. Queste  illuminano la vicenda del Cristo e ne sono a loro volta illuminate. La Scrittura è il terzo occhio, come dicevano i Padri.

2. il pane
Accanto alla parola, per scoprire la presenza invisibile del Cristo nel nostro faticoso andare quotidiano, c'è un altro segno, il pane, in un contesto di pranzo conviviale.
Per scoprire il significato dei segno, per renderlo eloquente, decisivo è l'atteggiamento della preghiera: "Resta con noi Signore, perché si fa sera". Nel semibuio che avvolge i nostri cuori nelle frequenti sere del nostro spirito, senza il suo aiuto non riusciremo mai a scorgere il suo volto quando si presenta a noi.
Se ci  soccorre la grazia invocata, allora  ogni volta che spezziamo il pane, cioè condividiamo  vita, gioie e dolori, ansie e speranze, il Signore è presente e vivo in mezzo a noi.
Darsi senza risparmio, amare fino al culmine, è la condizione per poter dire che Dio è con noi, ci visita il Vivente e datore di vita.
Poi il Cristo scompare, perché non ci adagiamo sulla sua presenza, ma viviamo la condizione della fede: vivere nella presenza-assenza del Signore e nel segno della sua presenza e cioè nell'amore-condivisione.

D. Conclusioni

Il viaggio dei due discepoli è il nostro viaggio. Noi siamo in viaggio con loro due.
Essi avevano sperato... sembra proprio che la storia va avanti facendosi beffe di chi spera. Chi osa sperare è chiamato all'angoscia. Sperare è come gettare l'angora della propria vita in Dio, ma Dio, la roccia salda, non si vede. Ciò che si vede è il mare in tempesta  e tale vista ci sconvolge e ci atterrisce...
Come nel viaggio verso la prima Emmaus, così nei viaggi verso le nostre Emmaus, a noi delusi e disincantati si accompagni un terzo viandante che ci fa leggere in profondità la sua e la nostra storia attraverso dei segni e ci chiede di credere alla sua verità oltre ogni evidenza.
La vista che ci dona è la sapienza del cuore in cui conoscenza e amore si fondono. La storia non è un monologo, ma un dialogo con un Altro.
Lo sconosciuto offre loro del pane: la fede è  donata a noi, non nasce da noi.
Come mai non riconoscono il Signore?
Perché non ne erano capaci: solo con la fede Gesù ha il volto di ogni viandante che si accompagna a noi.

Gesù prende sul serio le nostre delusioni e disperazioni e viene a dissolverle.

martedì 25 aprile 2017

25 Aprile

L’Italia di Salò
I combattenti della parte sbagliata

Arduo scrivere una storia condivisa della Repubblica Sociale Italiana (1943-45). Eppure Mario Avagliano e Marco Palmieri ci sono forse riusciti, indagando un passato segnato dal «disconoscimento totale e reciproco dell’umanità dell’avversario», come ha osservato Luigi Ganapini, autore nel 1999 di uno dei primi studi scientifici d’insieme sulla Repubblica delle camicie nere . Rispetto alle precedenti, questa nuova sintesi privilegia una ricostruzione dal basso, dando spazio ai diari e alle lettere coeve degli uomini comuni. Una fonte non priva di trabocchetti (i testimoni diretti non sono quasi mai i migliori giudici di se stessi), ma utilissima per aprire uno squarcio su una realtà magmatica, non del tutto riconducile all’ideologia dei capi. Altra peculiarità di questo tomo (a volte un po’ ridondante) è lo sguardo esteso anche alle propaggini estere della Rsi, dai «non cooperatori» nei campi di prigionia alleati sino al «fascismo clandestino» operante al Sud, nell’Italia liberata.
Sia chiaro: questi documenti confermano molti tratti distintivi dei combattenti «dalla parte sbagliata». Lo choc del 25 luglio e la vergogna provata per il «tradimento» dell’8 settembre. La volontà di riscatto, anche solo per «perdere una guerra a modo mio». La propensione a considerare il duce vittima di «falsi fascisti» e la rinnovata fiducia nelle sue doti quasi sovrannaturali. L’odio per «la zona grigia degli indifferenti e dei rassegnati». L’ansia di vendetta e il desiderio di combattere non solo al fronte, ma anche contro i «ribelli» (smentendo così la tesi di una certa refrattarietà dei militi di Salò a scontrarsi con altri italiani). Le invettive contro i «negri» e i «porci angloamericani». Una concezione del mondo complottistica e manichea, con «massoni» ed «ebrei» gran burattinai. Del resto, come stupirsene? La Rsi dichiarò di «nazionalità nemica» tutti gli israeliti italiani e collaborò alacremente al genocidio ebraico.
D’altra parte, questa ricognizione svela un quadro assai più variegato dei «gregari di Salò». Non soltanto coscritti entusiasti, ma anche «tiepidi, recalcitranti, renitenti, disertori». Molti di loro, trasferiti in Germania per un periodo di addestramento, scrivono alle famiglie messaggi densi di angoscia per la fame, il freddo, la fatica e la sensazione «di essere agnelli ai comandi di alcuni ufficiali tedeschizzati». C’è poi chi si rifiuta, in Italia, di partecipare a esecuzioni sommarie di partigiani e civili. Per non parlare di quanti passeranno al fronte avverso, come il futuro storico del colonialismo Angelo Del Boca, qui citatissimo. Degne di riflessione anche alcune missive di «repubblichini» in attesa di essere giustiziati, intrise di dignitosa compostezza, tanto che potrebbero essere quasi scambiate per lettere di condannati a morte della Resistenza: «Muoio con l’animo tranquillo perché ho la coscienza di aver fatto tutto con slancio e devozione a quella Patria che ho amato più di me stesso, più della famiglia, forse più di Dio».
Gli autori non trascurano la persecuzione degli ebrei, la «guerra ai civili» e le torture anti-partigiane. Utile corollario a queste pagine è un recente libro di Alberto Mandreoli (Il fascismo della repubblica sociale a processo. Sentenze e amnistia , Il Pozzo di Giacobbe), che ricostruisce in modo capillare i processi celebrati a Bologna nell’immediato dopoguerra contro i fascisti responsabili di stragi e violenze varie, con sentenze di condanna annacquate dall’amnistia di Togliatti (giugno ’46). È il tema della mancata Norimberga italiana.
Ma Avagliano e Palmieri non dimenticano neppure la resa dei conti scattata dopo il 25 aprile ’45: l’ultimo capitolo del libro è infatti riservato alle vendette partigiane e al «sangue dei vinti». Un esito ahimè prevedibile, giacché una guerra civile non può cessare per decreto da un giorno all’altro, e quella italiana era iniziata con il primo squadrismo. Ma è anche vero che la Resistenza permise a molti antifascisti dell’ultima ora di rifarsi una verginità, facendo dei «repubblichini» (spesso giovanissimi) i capri espiatori di una lunga stagione avviatasi nel ’22, non dopo l’8 settembre ’43. Come se il Tribunale Speciale, il patto con Hitler, le leggi razziali e la pugnalata alla schiena della Francia non fossero episodi altrettanto gravi del revival crepuscolare di Mussolini, dall’autunno ’43 a piazzale Loreto.


Mario Avagliano e Marco Palmieri, L’Italia di Salò. 1943-1945 , il Mulino, Bologna

sabato 1 aprile 2017

COMMENTO SULLA V DOMENICA DI QUARESIMA (D. PIETRO)

Amici, ecco a voi un commento  sulla V Domenica di Quaresima.(Don Pietro)

Nell'incontro con la Samaritana Gesù si presenta come il dono di Dio per il bisogno di vita dell'uomo.
Nell'episodio del cieco nato  appare come la luce del mondo per orientare l'uomo smarrito.
Gesù è dunque il grande dono di Dio. Ma è anche capace di misurarsi con la morte? Può superare la sfida del tempo?
La storia di Lazzaro ci insegna che chi crede  e pone in Gesù la sua esistenza conoscerà la morte, ma "anche se muore vivrà" a motivo della sua fede. La morte disfa e distrugge  la vita fisica dell'uomo, i suoi progetti e desideri, ma non può distruggere la vita che Dio dona agli uomini mediante Gesù.
La vita fisica viene dal mondo ed è sottoposta alle leggi che governano il mondo: nascita, crescita, consunzione, dissoluzione.
La vita eterna invece viene da Dio ed è sottratta a queste leggi, come è sottratto Dio.
Credere allora significa cogliere da Dio attraverso Gesù quest'offerta di vita eterna e affidare a lui per sempre la nostra esistenza. Ecco perché "chi crede non morirà in eterno"

La conferma all'amico di Gesù


Che non si tratti di una illusione dell'uomo, di una proiezione del suo desiderio di immortalità, ci è confermato dall'ultimo grande segno operato da Gesù: la risurrezione di Lazzaro.
Il suo ritorno alla vita, dopo quattro giorni di sepolcro, è la conferma -non l'unica- che è presente e opera in Gesù una forza più potente della morte.
Questa forza si manifesta verso Lazzaro, l'amico che Gesù amava intensamente. Lazzaro è simbolo dell'uomo che Dio ama e perciò gli dona la vita. Lazzaro è simbolo del discepolo cui Gesù si lega non solo con idee, ma con un rapporto personale di amore e di amicizia.

Amore e morte. Gloria di Dio e di Gesù 

1. La risurrezione di Lazzaro è allora segno di potenza: Gesù è più forte della morte. Ma è anche segno d'amore: l’amore di Gesù per l'uomo è più forte della morte
2. "Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il figlio di Dio venga glorificato".
L’amore di Dio doveva scontrarsi con la realtà della morte per vincerla e mostrarsi ad essa superiore.
La risurrezione di Lazzaro manifesta la superiorità dell’amore di Dio sulla morte e in questo Dio viene glorificato. E viene glorificato  Gesù in quanto partecipe della stessa potenza e vittoria.

 Nella Giudea

Per liberare Lazzaro dalla morte, Gesù torna in quella Giudea in cui molti tramavano contro di lui per ucciderlo. Significa che per dare la vita a Lazzaro Gesù ha rischiato la propria vita. Anzi, per donare la vita all'altro, Gesù sacrifica la propria vita.
C'è qui un'allusione forte al senso della salvezza: perché l'uomo non muoia, Gesù accetta di morire lui stesso.
Dunque:
l'amore vince la morte prendendo su di sé la morte.
Dio è più forte della morte, ma questa forza di Dio si manifesta nel momento in cui Gesù si sottomette alla morte per amore.

Risurrezione e morte

Con la venuta di Gesù tra gli uomini  il vivere e il morire sono cambiati in profondità perché in questi eventi naturali è entrato il mondo futuro.
Il mondo non è più quello di prima, da quando Gesù vi ha seminato la forza vitale del mondo di Dio.
Gesù non promette alcun esonero dalla morte e dai mali che l'anticipano. Gesù colpirà la morte, dopo che la morte ci ha colpiti.
La risurrezione rimane futura, dopo la morte. Giovanni la considera già realizzata in quando l'operatore di risurrezione, il Cristo, è per sempre unito a noi, se noi non lo respingiamo.
Noi, ora, non abbiamo già la risurrezione, ma la vita che dovrà produrla, nella forma di un seme che deve germogliare e svilupparsi. Dobbiamo lasciarci contaminare dai fermenti di vita eterna per guarire dalla morte di cui siamo ammalati.

Chi possiede questi fermenti è Gesù, il Cristo, il Vivente. Solo lui può liberarci dalla malattia mortale della morte. Per sempre. Cristo ha lacrime per il nostro dolore. Il Lazzaro dentro di noi che è morto uscirà dal nostro profondo grazie alle sorelle che lo chiederanno al Cristo.