A) Siamo figli della paura.
Per l’uomo antico la sicurezza si fondava sulla convinzione della immutabilità degli astri, della natura. Per noi moderni si è fondata a lungo sull’aspettativa della stabilità delle istituzioni, della tradizione.
Questa sicurezza oggi è in crisi e ci domina la “paura di ciò che potrebbe accadere”.
Alla luce della fede dobbiamo saper leggere questo segno del tempo, che è la paura, per scoprire se, per caso, non ci sia in essa una saggezza preziosa per la vita. Intanto è scorretto sfruttare, sciacallescamente questa paura collettiva, per fini apologetici: infierire sulla perfidia dell’uomo e catturarlo per riportalo al nostro ovile.
In questa paura ci siamo anche noi, insieme a tutti; credenti e non credenti siamo partecipi di un comune destino. L’area delle certezze incrollabili è andata restringendosi anche dentro il perimetro ecclesiale.
Del resto l’esempio del Fondatore, Gesù, testimonia ampiamente come Egli non sia mai stato in un luogo sicuro, una oasi di pace lontana dai clamori del mondo, ma al contrario Egli è stato sempre tra i pericoli di un mondo che voleva braccarlo e non è scappato a mettersi in salvo, ma è andato incontro alla morte.
B) Dinanzi a questa paura collettiva da insicurezza dobbiamo esercitare il discernimento della fede:
• La sicurezza perduta non derivava forse da ragioni umane, troppo umane, da sapienti accorgimenti nostri?
La nostra (ormai smarrita) tranquillità non l’avevamo costruita chiamandoci fuori dal pianto degli uomini ed esonerandoci il più possibile dalle tribolazioni di tutti gli altri?
Insomma ci eravamo costruita una sicurezza fondandola sulla carne e sul sangue, non sulla roccia che è Dio, con la sua Parola e il suo Spirito.
A noi ora è chiesta una sicurezza diversa: una sicurezza che sappia confrontarsi con la catastrofe che investe ogni cosa. Non la catastrofe come evento finale, ma come processo che investe ogni cosa portandola a lenta ma inesorabile consunzione.
2. Dentro la catastrofe.
Ebbene in questo processo di consumazione di tutto (i cieli e la terra) noi siamo profondamente immersi e coinvolti. E’ sempre in azione quello che gli psicanalisti chiamano “il principio di morte”.
La fede, alimentata dalla Parola di Dio, ci invita a non ostentare dinanzi a questo principio di morte una falsa sicurezza, ma a farci invadere dalla paura derivante dalla constatazione che tutto passa, tutto finisce. In questa paura è nascosta una profonda sapienza umanistica e cristiana.
E questo principio di dissoluzione non dobbiamo riferirlo solo alla terra, al cosmo, alle sue istituzioni, ma alla nostra vita personale che veleggia verso la morte, la fine di noi stessi.
Pensare che la catastrofe-morte riguardi il mondo, gli altri e non noi sarebbe avere il “cuore appesantito dalle dissipazioni” come dice Gesù nel Vangelo di oggi.
La catastrofe c’è e riguarda ciascuno di noi.
Accettare questa lezione di umiltà circa il destino della nostra carne può aiutarci a vincere parte almeno della superbia del nostro spirito.
3. Catastrofe e annuncio di fede.
Bisogna partire dall’umile accettazione di questa nostra condizione per comprendere e accogliere l’annuncio consolante e liberante che Gesù è venuto a farci: “Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina!”.
In fondo alla catastrofe non c’è il vuoto, il nulla. C’è un Incontro. C’è un’Alleanza col Dio della vita. Questa è la promessa di Dio.
Noi crediamo nella promessa di Dio e nel Dio della promessa.
Questa è l’essenza della fede.
Ma, allora, se c’è questa promessa che già si è attuata nel Figlio, il nostro atteggiamento non può più essere di paura invincibile e devastante.
Per quanto passino i cieli e la terra, per quanto passa la mia esistenza, c’è una cosa che non passa: la Parola che mi promette la vita.
Allora la tragedia della fine la viviamo senza finzioni dentro di noi, ma la superiamo con l’attesa delle cose nuove che devono venire e che, nella forma delicata di timidi germogli, noi già vediamo spuntare qua e là sotto cumuli di foglie morte e imputridite.
La risposta della fede non è quella di piangere su queste cose morte o moribonde (lasciate che i morti seppelliscano i loro morti), ma di allearci con le cose nuove che Dio fa nascere e attraverso cui traspare l’adempimento della promessa.
Un adempimento sempre promesso e da attendere sempre come dono e futuro.
Il Signore è colui che viene. Il suo giorno non appartiene al passato, è futuro che irrompe nel presente, è “adventus”, qualcosa che viene verso di noi.
Questo irrompere di Dio è il processo di vita che Egli oppone alla catastrofe. Con questo processo dobbiamo allearci attenti a non mettere il piede sul germoglio nuovo che Egli ha già fatto nascere.
Aver fede è saper cogliere ciò che nasce come nuovo.
E così incontriamo il Dio vero non un Dio consolatorio che, poi, ci impedisce di cogliere la tragedia della condizione umana e di sperimentare la vera serenità interiore.
Incontrare il Dio vero significa anche essere liberi dalla paura.
Cosa può accaderci di irreparabile?
A chi è impegnato ad allevare il germoglio che è noto, non resta tempo per la paura.
Quel germoglio gli attesta che la vita vincerà sulla morte.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”. Ma, chiusi dalla morte, quegli occhi si apriranno alla luce del giorno senza tramonto, il Giorno del Signore che viene