La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 24 ottobre 2020

XXX domenica del tempo ordinario. Riflessione di don Pietro

1. Amare Dio e amare l'uomo

L'orizzonte imprescindibile per capire e cogliere il  senso di quest'unico comandamento con due versanti è l'amore di Dio per l'uomo.

Tutte le tappe della storia di Israele e tutte le strutture della creazione sono, nella Bibbia, sotto il segno dell'amore di Dio.

Creazione e storia e il loro confluire nel pane quotidiano a tutti viventi (Salmo 136,25) sono gli ambiti su cui l'amore di Dio ha esercitato la sua efficacia e la sua sempre nuova fedeltà, dal primo giorno fino all'ultimo, il Sabato del Signore.

Dal racconto biblico  emergono gli attributi dell’amore di Dio. Innanzitutto l'amore di Dio è gratuito nel suo sorgere e nell’ agire. È pura libertà di voler donare, senz'altra ragione che quella intrinseca al dono stesso. C'è poi la fedeltà ll giuramento: l'amore che Dio dà all'inizio vale per sempre. L'amore cioè, vincola se stesso con una forza che vince il logoramento del tempo. La tenerezza è l'altra caratteristica dell’amore di Dio. Dio si lascia prendere le sue viscere, cioè si coinvolge profondamente e partecipa a quanto accade alla persona amata. Se questa sbaglia può contare su un amore misericordioso e perdonante di Dio. Certamente l'amore di Dio si aspetta una risposta totale, piena, e incondizionata: amarlo cioè con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. L'amore di Dio non è solo  sentimento. È efficace e concreto: ci dona i beni di cui abbiamo bisogno per vivere.

Il Nuovo Testamento accentua e svela l'amore  irrevocabile di Dio che è dietro i doni che gli fa all'uomo, il pane, la salute, la pace, attraverso la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.


2. L'amore dell'uomo per Dio: la fede

A queste iniziative incredibili di Dio l'uomo può corrispondere solo amando a sua volta il suo Signore con tutto se stesso.

Il primo segno che questa corrispondenza d'amore è in corso è la fede.

Fede appunto come risposta all'amore di Dio. Fede come prova e manifestazione di amore per Dio. Credere, infatti, non è innanzitutto operazione intellettuale, ma coinvolgimento di tutto l'essere e l’agire dell'uomo, come realtà fondate e rifondate continuamente dall'amore di Dio.

Dio mi dà vita in Gesù: ecco il primato dell’amore di Dio. Io accolgo questo dono di vita: ecco la fede-risposta dell'uomo.

A questo affidamento totale di sé all'amore di Dio l'uomo fa seguire la sua volontà di mettersi a disposizione di Dio, di amarlo con tutto il cuore, di obbedire incondizionatamente al suo amore.


3. L'amore del prossimo


E la risposta dell'uomo all'amore di Dio.

L'amore per il prossimo non è espressione della spontaneità umana, ma esso viene comandato da Dio.

Nell'Antica Alleanza questo amore assume il volto esigente della giustizia. Nella Nuova Alleanza è formulato all'imperativo e, in Giovanni, è chiamato comandamento nuovo.

L'uomo accoglie nella fede con la fede l'amore di Dio e vi reagisce amando il prossimo.

L'amore per il prossimo è lo stesso amore che l'uomo riceve da Dio ed è generato da Dio stesso nel cuore del credente.


"Amatevi come e perché io vi ho amati"


E’ comandato perché non corrisponde a ciò che l'uomo ha in sé e può da sé.

È nuovo perché dono divino.

È libero perché posso non corrispondervi.

L'uomo non è capace di amore perché è dominato dalla ricerca e realizzazione di sé, sia nei rapporti strumentali che in quelli affettivi. Ora l'amore dice  un'uscita da sé che cerchi l'altro in ragione di lui stesso. Amare è rispondere a quello che l'altro è: una povertà che chiede di colmarsi.

L’ amore di sé degenera in egoismo nella forma della competizione violenta o della inimicizia verso l'altro.

L'amore divino quando lo accogliamo fa di noi  delle creature nuove liberandoci dall'impotenza di amare. Ci libera dalla necessità di competere e ci libera dalla legittimazione della inimicizia.

Senza questo amore del prossimo, l'uomo è nulla sul piano del senso profondo della sua esistenza.

L’agape fa diventare l'uomo quello che è: essere per gli altri e non essere per sé.

Perdendomi nell'altro io mi ritrovo.

Per questo amore l'uomo diventa come Dio: essere che si dona.

L’agape-amore verso l'altro assume la forma della giustizia.

In Dio come fedeltà alle promesse. Nell'uomo come risposta al bisogno dell'altro.

Il prossimo è il luogo della signoria di Dio. Il suo diritto diventa per me un dovere.

Gesù è principio e termine dell'amore cristiano. Principio: egli dice amatevi come io vi ho amati. Termine: "qualunque cosa avete fatto... l'avete fatta a meno".


domenica 18 ottobre 2020

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di Don Pietro

I nemici di Gesù non desistono. Anzi, l'autorevolezza con cui egli ha tenuto testa, svergognandoli dinanzi alla gente, li ha irritati ancor più. Dopo frenetiche consultazioni decidono di accantonare per il momento le loro discordie interne e di far fronte comune contro di lui e così, in combutta,  emissari dei farisei e degli erodiani partono al contrattacco, decisi più che mai a coglierlo in fallo per poterlo incastrare e, in qualche modo, farlo fuori.

La trappola che gli tendono è davvero insidiosa. Soltanto una perfidia diabolica poteva escogitarla. Maestri di menzogna e navigati nell'arte di fingere, si avvicinano a Gesù simulando apprezzamento per il suo insegnamento "secondo verità", deferenza per il suo coraggio e considerazione per la sua libertà verso tutti.

Illudendosi di averne captato la benevolenza atteggiandosi a discepoli desiderosi unicamente di apprendere, lanciano il loro laccio infido: gli chiedono di pronunciarsi con chiarezza, con un sì o con un no, su un dibattito in corso, una questione pratica ma con risvolti religiosi che accendeva e divideva gli animi: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?".

Fra le tante vessazioni con cui gli occupanti romani angariavano il popolo, c'era una tassa personale, imposta a tutti, anche agli schiavi oltre che alle donne e agli uomini, dai 14 ai 65 anni. Un balzello abbastanza il esoso da corrispondere attraverso una moneta appositamente coniata, un denaro d'argento,  equivalente al salario di una giornata lavorativa.

L'indignazione popolare, di cui il movimento rivoluzionario degli zeloti si faceva vivace interprete, nasceva dal conio, su dritto della moneta, della testa dell'imperatore Tiberio, oltre che dall'universale comprensibile scarso amore per ogni inasprimento fiscale.

Il piano escogitato dai nemici di Gesù è perfido, ma ben congegnato: un vero trabocchetto. Si avesse risposto che era lecito pagare quella tassa all'imperatore, si sarebbe alienato gran parte della simpatia popolare e lo si poteva incriminare di attentato a quell'unica signoria di Dio di cui il popolo era fieramente geloso: due risultati niente male per discreditare Gesù e avviare la sua eliminazione.

Se, invece, avesse risposto che non era lecito pagare quel tributo, allora si sarebbe pubblicamente schierato contro i romani e, una volta deferito alle autorità, avrebbero provveduto queste ultime a farlo fuori come eversore e sobillatore del popolo, con sistemi sbrigativi, a onta delle garanzie pur previste dalla loro decantata civiltà giuridica.

La posta in gioco per Gesù era molto alta e l'alternativa senza via di uscita, così almeno credevano i suoi interlocutori e avversari. Per Gesù si trattava, cioè, di scegliere tra fedeltà al popolo è lealtà al potere occupante; tra l'unica, indiscutibile signoria di Dio e il rispetto dovuto ad una legge odiosa quanto si vuole ma vigente; tra doveri religiosi e obblighi civili; tra l'appartenenza alla città degli uomini, con le sue norme, e a quella di Dio, anch'essa con i suoi statuti.

Gesù non si scompone. Intanto rigetta l'alternativa-capestro con cui i suoi nemici vogliono farlo impiccare da solo. Come in altre controversie, egli non segue i suoi interlocutori sul terreno da loro scelto. Consapevole della complessità della questione, rifugge da ogni sua comoda e superficiale semplificazione spostandola a un livello di più alta problematicità e rinviando ai mittenti la ricerca di una sua possibile e onorevole soluzione.

"Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio": in queste parole di Gesù è possibile cogliere un concentrato densissimo di sapienza nuova e profonda, pur nella loro stringatezza e apparente semplicità.

"Rendete a Cesare": dunque chi legittimamente detiene il potere può legittimamente richiedere prestazioni e i sottoposti, credenti o no, hanno il dovere di soddisfarle. Per Gesù non c'è spazio per l'anarchia e per rifiuti pregiudiziali dell'ordine su cui una convivenza civile si regge.

"... quello che è di Cesare", precisa Gesù, delimitando i confini del potere di quanti sono investiti della responsabilità di legiferare e governare.

Questi, vuol dirci Gesù, hanno aree proprie di competenza, e lì sono sovrani. Se, però, travalicano i loro confini, se peccano, cioè, di eccesso di potere, allora la lealtà e l'obbedienza non obbligano per in coscienza e l'obiezione e la trasgressione diventano non soltanto lecite ma doverose, costi quel che costi.

Gesù non indica i casi possibili di prevaricazione  dai propri limiti da parte dei detentori delle varie forme di potere. Il giudizio dipende dalle situazioni storiche ed è demandato al discernimento dei singoli, della comunità, con l'aiuto dello Spirito e la guida della parola. Se Cesare volesse legiferare su Dio, sulla sacralità e inviolabilità della vita, se volesse disporre dell'uomo da padrone assoluto -i casi ipotizzabili sono infiniti-, l'obbedienza a lui non sarebbe più virtù ma peccato, e anche non lieve, contro Dio e la sua unica signoria sull'uomo e sul mondo. Lealtà sì, ma condizionata, con riserva. Anzi, è dovere del discepolo esercitarsi in permanenza nella critica ad ogni potere che avanzasse pretese lesive di quella sovranità assoluta che compete soltanto a Dio. Il potere, in tal senso, non è divino, ma umano. Non va demonizzato ma neppure sacralizzato. Nei suoi confronti il credente deve far valere le riserve che la sua appartenenza ad un'altra città, quella di Dio con patria nei cieli, gli impone tassativamente. Nessuna teocrazia dunque, con i credenti convinti che dalla fede discenda un unico modello di società da imporre a tutti, magari con la forza. Ma, anche, nessun laicismo, con lo Stato che pretenda di entrare dovunque, anche in ambiti a lui preclusi.

 I modelli, poi, del rapporto con Cesare possono configurarsi in svariati modi. A volte il credente si vede costretto a scegliere tra Cesare e Dio, dando soltanto a quest'ultimo piena obbedienza. Altre volte tra Cesare e Dio può instaurararsi un regime di rispettosa reciproca collaborazione, purché senza confusione, ambigui consociativismi  e compromessi. Può anche accadere che si debba prescindere da Cesare riferendosi soltanto a Dio, com'è accaduto a Gesù e, tante volte nei secoli, alla comunità dei suoi discepoli. Questi, comunque, non farebbero male a ricordarsi sempre che Gesù è stato perseguitato, processato, condannato e ucciso proprio dal potere. "Tra Dio e Cesare non c'è una stretta di mano, un patto... ma una croce. I Gesù patì sotto Ponzio Pilato perché fu davanti a lui testimone, come dice il Vangelo di Giovanni, della libertà dell'uomo e testimone della verità di Dio..., le due cose che il potere teme di più d'ogni altra. Ma sono anche queste le cose che Dio ama  più di ogni altra" (Paolo Ricca, Alle radici della fede, Claudiana, Torino 1987, p. 58).

 " A Dio quello che è di Dio": conclude così Gesù la sua replica ai farisei e agli erodiani. Siccome tutto è di Dio ne segue che anche l'ottemperanza alle giuste leggi dello Stato, il cristiano deve viverla come servizio alla causa di Dio, con spirito religioso come un aspetto indiretto della sua volontà.

Niente e nessuno infatti, all'infuori di Dio, possono essere ragione sufficiente perché un credente si giochi vita. Questo primato di Dio, e di nient'altro che sia meno di Dio, il credente sa che puoi riconoscerlo e viverlo sotto qualsiasi regime politico. Storicamente non si sa bene se, ai fini della purezza e diffusione della fede, sia da auspicarne uno tollerante o uno biecamente persecutorio e stupidamente repressivo. 

venerdì 9 ottobre 2020

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

1. "Il regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Matteo 22,1-14)

il regno dei cieli significa qui il regno di Dio e cioè la famiglia dei figli di Dio.

Il regno di Dio è simile ad un banchetto di nozze, non ad una caserma, ad un'azienda, ad un'agenzia di servizi, neppure a un convento o a un monastero severo, tantomeno a un tribunale.

La festa che accompagna il banchetto prevede una grande abbondanza di vivande. Nella simbologia biblica l'abbondanza di cibo significa l'abbondanza della conoscenza e cioè della sapienza e della vita. C'è anche la gioia a rallegrare il cuore degli invitati al banchetto. Essere invitati personalmente dal re è un grande onore ed è altro segno della bellezza della festa. 


2. Il motivo profondo del rifiuto

Il re invita al suo pranzo, invita a gustare le sue vivande prelibate, invita alle nozze del suo proprio figlio.

Ma gli invitati pensano al proprio campo da curare, ai propri affari.

Ecco: gli invitati non sono disponibili a mettere da parte le loro faccende, i loro interessi.

Sono prigionieri di loro stessi, perciò respingono ciò che li obbligherebbe a badare a qualcosa d'altro.

Non sanno gioire della gioia di un altro. Non sanno riconoscere il primato di un altro.

Insomma: è l'eterna tentazione dell'uomo di conquistare una falsa autonomia da Dio, ignorandolo e difendendosi. E, forse, l’uomo non ha torto:  Dio infatti è molto esigente: dà tutto ma vuole anche tutto.

Farsi amare da Dio è molto difficile.

L'uomo è sempre un bambino che vuole prescindere dai genitori cui si ribella.


3.  La punizione per il rifiuto

I servi sono i Profeti uccisi.

Il Figlio è Gesù Cristo.

Il brano di Matteo allude alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.

Il male, vuol dirci l’ evangelista, è un boomerang: ed è questa  la punizione.


4. L'invitato senza la veste  

Ecco il senso: non basta avere accettato l'invito. Bisogna anche cambiare la propria esistenza in ragione dell'invito.

L'abito nuziale da indossare nel banchetto di Dio è la carità insieme alla  conversione.

Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: questi sono coloro che dimostrano di avere carità e di sapersi ogni giorno convertire.


sabato 3 ottobre 2020

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

1. Sia il brano di Isaia che quello di Matteo narrano la storia tragica di un rapporto, quello tra Dio e l'uomo, attraverso la metafora della vigna.

Protagonisti della vicenda sono il padrone della vigna, la vigna stessa e i vignaioli.

Per Isaia il rapporto è di appartenenza totale, di amore generoso e la vigna è come una persona amata intensamente. "Canterò per il mio diletto un cantico d'amore per la sua vigna" (Is, 5).

Purtroppo l'esito del rapporto è deludente: anziché grappoli dorati la vigna ha prodotto solo uva selvatica. Perciò dal cuore del profeta scaturisce il canto dell'amore tradito, della giustizia disattesa, della fedeltà infranta.

2. La parabola evangelica

Quì la vigna non è avara di frutti. Sono i vignaioli che vogliono accaparrarsi del raccolto.

Il senso nascosto nella parabola è che la vita, dono di Dio, deve essere offerta a Dio. L'uomo non può rivendicare una autonomia totale da Dio. Dio invia agli uomini i suoi servi e alla fine il suo proprio Figlio: ma i vignaioli li uccidono tutti. Il male commesso dagli uomini alla fine, però, si ritorce contro gli uomini stessi.

3. Le due tentazioni della parabola

La prima tentazione consiste nel voler disporre della propria esistenza e del mondo in autonomia totale da Dio. Significa cioè volersi fare  Dio, decidere da soli il bene e il male. Accade quando l'uomo col suo comportamento violento nei confronti della terra finisce per distorcere l'ordine che Dio vi ha inscritto. Un altro esempio è quando l'uomo indebitamente si appropria di tutti i beni della terra  escludendo gli altri dalla loro fruizione.

La seconda tentazione consiste nel misconoscimento e nel rifiuto violento dei profeti e del Figlio stesso di Dio. Non solo gli ebrei hanno eliminato i profeti ma anche i cristiani continuano a farlo nei secoli.

4. Conseguenze

Verrà  il giorno in cui Dio ci chiederà conto della sua vigna. C'è il rischio che Dio ci tolga la vigna per darla ad altri vignaioli più fedeli.

Nel campo di Dio non esistono primogeniture né possessi definitivi.

Per fortuna e grazie a Dio ci sono anche vignaioli fedeli. Sono quelli che migliorano la vigna per offrirla a suo tempo al legittimo proprietario.

Noi ora siamo nel tempo dell'assenza del padrone della vigna.

Però dobbiamo ricordarci sempre che Dio ritornerà e fin a quando non viene avrà pazienza con tutti noi.

Se noi però perseveriamo nel rifiuto, allora incombe su di noi  un giudizio severo: una sentenza di morte!

Gesù, il Messia, non mette fine alle contraddizioni della storia, come tutti spereremmo, ma si pone al centro della contraddizione e da qui la scioglie. 


domenica 20 settembre 2020

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

Che la logica di Dio, il suo comportamento, siano altri rispetto alle nostre più ragionevoli aspettative; che lo stile del suo agire risulti sorprendente soprattutto per il comune senso di giustizia, emerge con evidenza solare dalla parabola di operai mandati a lavorare nella vigna a ore diverse e ai quali viene corrisposto lo stesso salario, con tanto di mugugno e  protesta da parte di quelli chiamati fin dal primo mattino.

È che il massimo della giustizia consiste, per noi, nel fare parti eguali nella divisione di un bene, anche se i partecipanti alla distribuzione non si trovano nelle stesse condizioni. Ci sembra lo esiga  l’equità canonizzata nell'antico principio: unicuique suum, a ciascuno ciò che gli spetta in proporzione del suo diritto.

Ma Dio, vuol dirci Gesù, non la pensa affatto così. Intanto Dio fa parti eguali fra diseguali. Egli non segue, cioè, criteri meritocratici, di gelida giustizia distributiva: a ciascuno il dovuto secondo i suoi meriti.

Dio non dà secondo il diritto di ognuno, ma secondo il bisogno di ognuno. Appaia a noi ingiusto o no, il comportamento di Dio verso l'uomo non segue il nostro criterioo di giustizia. Non che Dio non abbia provato a far andare avanti il mondo secondo la nostra giustizia. Ma -narrano antichi racconti rabbinici- Dio dovette prendere atto che non funzionava. Nacque allora la sua giustizia, che non ha più come simbolo i piatti della bilancia in equilibrio, ma che pende piuttosto da una parte: è il piatto della misericordia, della gratuità e dell'amore.

La notizia è di quelle eccellenti anche per noi: meglio affidarsi al buon peso della misericordia divina che ai nostri veri o presunti meriti. E poi, chi ci garantisce di far parte del novero dei chiamati della prima ora? Buon per noi, allora, che Dio distribuisce lo stesso salario a tutti, non in misura delle nostre prestazioni, ma del suo amore e del nostro bisogno di vita e di gioia. È una vera fortuna per noi sapere che il rapporto dare e avere Dio lo ha tutto squilibrato a nostro favore, eccedendo nel dare.

Il salario che l'uomo riceve, qualunque sia l'ora della chiamata, non deve mai essere visto soltanto come il frutto della sua fatica. Esso ha sempre dentro di sé una  preziosità nascosta: quella della grazia, del dono e dell'amore di Dio. Il salario di ogni ora è sempre il salario della bontà e della misericordia del Signore.

Compreso così il rapporto Dio-Uomo, probabilmente non sono più idonei i termini con cui la parabola definisce descrivere i due partner della relazione: padrone-servo. Non è, infatti, in questa prospettiva, offensivo o quantomeno riduttivo considerare Dio come un padrone che dà una paga?

Non è più bello vederlo come un Padre che dà un dono? E può l'uomo comprendersi come un freddo prestatore d'opera, per giunta portatore nei confronti di Dio di rivendicazioni salariali?

Quanto più arricchente è sentirsi come un figlio, gioioso di servire per amore! E non è oltremodo gratificante sapere che Dio, pur potendo prescindere da noi, ci chiama a dargli una mano nella vigna del regno? Come è avvilente appiattire soltanto sull'economico ogni rapporto! Com'è triste avere solamente diritti da rivendicare e non favori per cui essere grati...

Ancora due brevi notazioni a margine della parabola. 

Da essa emerge chiara la cattiveria dei cosiddetti giusti. Non capiscono e non tollerano la bontà. Per loro tutto deve avvenire secondo legge. Che Dio ce ne liberi! Un mondo regolato soltanto dalla legge sarebbe infinitamente triste. A conforto, poi, di chi dovesse ritenere che per lui o per i suoi cari non giunga mai la chiamata di Dio, la parabola parla dell'ultima ora del giorno, quella buona per i non ancora chiamati. Nessuno, dunque, disperi della salvezza. Dio è sempre in orario, anche se in ritardo secondo i nostri orologi. I suoi tempi non sono i nostri…


sabato 12 settembre 2020

VANGELO DELLA XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Il segno, per sé e per il mondo, che si è discepoli del Signore non va cercato (non lo si troverebbe!) nel fatto che fra essi non avvengono mai  screzi, incomprensioni e non siano possibili comportamenti non proprio  esemplari di alcuni verso altri. La prova dell'appartenenza alla famiglia di Gesù è soltanto nella capacità di sapersi perdonare reciprocamente rimettendosi le offese. Questo Pietro lo aveva compreso. Il suo è un problema aritmetico, di quantità: sino a quante volte bisogna accordare il perdono? Dovrà pur esserci un limite!

Ancora una volta Gesù spiazza Pietro e la cerchia dei discepoli: il perdono deve essere illimitato o, nel gergo dell'epoca, deve essere accordato "settanta volte sette", cioè sempre.

L'antica legge di Lamech, "Sette volte sarà vendicato Caiino ma Lamec 'settantasette volte (Gn 4,24), è abrogata. Con Gesù vige il condono illimitato, a imitazione di quello che il Padre celeste offre ai peccatori. È questo e nessun altro il metro del perdono che Gesù indica ai suoi:  esagerato,  eccessivo, smisurato, al rischio di approfittamento come ogni vero amore, com'è l'amore di Dio che i suoi figli devono imitare.

Per esemplificare questo suo  esigente insegnamento e perché lo si tenga bene a mente, Gesù narra la parabola del servo spietato e punito perché restio a offrire agli altri la misericordia che pur aveva personalmente e corposamente sperimentato a proprio vantaggio.

Il messaggio del racconto è trasparente: il dovere di perdonare, non ci fossero altre ragioni (e ci sono!), nasce dal fatto che Dio perdona a noi le colpe, se lo supplichiamo. È un dovere di pura e semplice restituzione. E c'e anche convenienza: chi non ha nulla da farsi perdonare da Dio? La nostra ostinazione nel non perdonare, i nostri odi tenaci, chiudendo il ministero della grazia divina attivano quello della giustizia, e il suo titolare, lo sappiamo, vede ombre anche negli angeli...

La spietatezza del servo verso il subalterno si ritorce a suo danno e diventa la misura con cui il giudice ultimo tratterà chi è inflessibile e spietato verso i fratelli.

Per godere e non abusare della misericordia divina, l'unica strada è quella di usare misericordia verso chi ci offende e ci fa del male. Le cose tristi, spiacevoli e disdicevoli che avvengono fra noi sono segno che siamo e restiamo sempre creature fragili ed esposte al male. Se sappiamo  ricomporle con un perdono generoso, è segno che siamo discepoli del Signore. Allora il nostro amore non è più soltanto umano, è divino. Non siamo più noi ad amare, ma è Dio che ama in noi. Diventiamo un po' come Dio e, noblesse oblige, dobbiamo imitarlo nel suo amore perdonante.


sabato 22 agosto 2020

XXI domenica del tempo ORDINARIO. Riflessione di don Pietro


La confessione e la missione di Pietro (Matteo 16,13-20)


A. La confessione di Pietro


Prima di incominciare a parlare della sua imminente passione e morte, Gesù compie una specie di sondaggio sulla percezione che di lui hanno avuto le folle e, soprattutto, i discepoli.

Le folle sono arrivate a scoprire in lui un personaggio messianico, ma non  il "figlio dell'uomo", cioè l'associato  all'Antico dei giorni, il partecipe della stessa gloria di Dio e della sua signoria sui cieli e sulla terra.

La fede dei discepoli, poi, rischia di essere inficiata da una visione terrestre e nazionalistica della messianicità di Gesù.

Alla domanda posta a tutti i discepoli risponde Pietro e ciò conferma il suo ruolo di loro portavoce rappresentante presso Gesù.

Pietro afferma che Gesù, non solo è il Messia, ma è il "Figlio del Dio vivente".

Per questa sua confessione Pietro riceve l'elogio di Gesù: "Beato se tu, Simone...": una parola che esprime il ruolo particolare  e unico di Pietro nel gruppo dei discepoli. 


B. La missione di Pietro


I compiti di cui Pietro è investito sono espressi da Gesù attraverso tre simboli: la pietra, le chiavi, e l'azione del "legare e  sciogliere".


1. La pietra


A Simone Gesù aveva cambiato nome dandogli quello di "Cefa".

Nella Bibbia il nome è sempre legato alla missione che, chi lo porta, deve compiere.

Simone, perciò, nelle intenzioni di Gesù, dovrà essere la pietra su cui si innalzerà alla sua Chiesa.

Fuor di metafora Pietro, nel disegno di Gesù, dovrà essere la roccia, la base stabile, su cui gettare le fondamenta della chiesa.

Senza questa base solida, rocciosa, l'edificio potrebbe crollare all'infuriare degli elementi scatenati dalla natura.

Naturalmente Dio, attraverso Cristo nello Spirito, è la pietra che sostiene il popolo di Dio.

Accanto, però, Gesù pone anche Pietro come roccia su cui edificare la Chiesa che Dio convoca per il culto.

La Chiesa è di Cristo, ma mentre essa è nel tempo, è affidata Pietro. Attraverso lui Cristo vi è ufficialmente presente.

La morte e le potenze del male non avranno il sopravvento sulla Chiesa, secondo la promessa di Gesù a Pietro.

Il fondamento che è Pietro durerà e darà coesione all'intero edificio ecclesiale per tutto il tempo della fase terrena della Chiesa.

Il compito assolto da Cristo di raccogliere e tenere uniti alla sua persona i discepoli ora, in sua assenza, sarà assolto da Pietro.

Gesù non ci ha lasciati isolati e dispersi, ma ci ha raccolti in una comunità che ha come fondamento visibile Pietro.

Bisogna essere con Pietro per far parte della comunità di Cristo.


2. Le chiavi


Un edificio ha sempre una porta e, quindi, delle chiavi. Chi le possiede non ha solo la custodia, ma esercita anche la responsabilità su di esso edificio.

Dare le chiavi è conferire dei poteri, è trasmettere una potestà di governo e di amministrazione.

Pietro, che riceve le chiavi della Chiesa, non ne è semplice custode, ma un fiduciario di Cristo, un suo rappresentante.

Non è il fondatore, né il sovrano incontrastato (lo è solo Cristo!), ma ne è il responsabile col potere di aprire e chiudere, beninteso sempre rispettando le intenzioni e la volontà di Cristo e non a proprio piacimento.

La potestà di Pietro non è rivolta solo agli uomini, ma anche all'insegnamento e ai beni spirituali. Infatti aprire o chiudere significa anche interpretare e   proporre un messaggio di fede e di vita.

Significativo è il plurale "le chiavi" a indicare la pienezza dei poteri dell'apostolo: sulle persone, sul messaggio e sui beni soprannaturali. 


3. "Legare e sciogliere"


E’ immagine del linguaggio giuridico del tempo. Significa dichiarare vera o erronea una dottrina, lecito o illecito un comportamento.

A Pietro è conferito la potestà di interpretare autenticamente l’insegnamento di Gesù traducendolo e attualizzandolo per gli uomini di tutti i tempi.

Le sue indicazioni non sono opinioni ma norme di vita vincolanti davanti a Dio e agli uomini.

Egli è la guida per la vita della comunità in ordine alla salvezza.


C.  " Voi chi dite che io sia?"


Se la domanda è rivolta a noi da Gesù non è valida una risposta che non scaturisca da un incontro-esperienza personale con lui, dalla sua intima frequentazione.

Solo allora lo Spirito ci suggerisce la risposta giusta, che è solo quella di Pietro, eliminando le risposte "della carne e del sangue".

Allora Gesù per me non sarà un sogno bello, ma impossibile; un seduttore-impostore; un ideaIista illuso che non sa vivere; un personaggio  prezioso reperto da museo archeologico.

Ma egli sarà unicamente e solo il luogo massimo della Presenza-Amore; il fratello, il compagno, l'amico, il maestro, il salvatore, l'inquietatore dolcissimo del cuore. Il figlio che io debbo imitare. 


sabato 15 agosto 2020

Riflessione alla XX domenica del T. O.. Don Pietro

1. Una donna pagana 

La donna che supplica per la figlia malata non è solo una madre angosciata, ma, soprattutto, è una pagana.

È una donna marginale, doppiamente disprezzata: in quanto donna e in quanto pagana.

Ed è proprio questa donna "irregolare" che induce Gesù a cambiare idea circa la sua missione: la salvezza che egli porta diventa da particolare, riservata cioè ai soli ebrei,  universale, estesa cioè a tutti gli uomini.


2. La fede di una pagana

Questa donna apparteneva ad un popolo, i cananei, che gli israeliti consideravano nemici, idolatri e immorali.

Era, poi, una donna,  una creatura, cioè, da sempre disprezzata dagli ebrei.

Proprio questa donna osa importunare Gesù, il maestro, violando la norma che vietava ad un rabbi di rivolgere la parola ad una donna in pubblico, fosse anche la propria moglie e di non accompagnarsi mai in un viaggio ad una donna, fosse anche la propria figlia!

Per giunta questa donna osa chiamare Gesù "Figlio di Davide", un appellativo che potevano usare solo gli israeliti puri e religiosi


3. Altri aspetti sconvolgenti del racconto

La risposta di Gesù alla richiesta della donna è durissima, anzi sprezzante, se si pensa che data ad una madre angosciata che supplica per la figlia gravemente inferma.

Perché Gesù si comporta così? Vediamo: 

"Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio", dice la donna.

Non sappiamo di quale malattia soffrisse sua figlia.

Al tempo di Gesù era normale attribuire all'opera del demonio tutte le malattie sconosciute.

Forse anche qui si tratta di una malattia psicosomatica che disturba o impedisce ad una persona di condurre una vita relazionale normale.


4. I figli e i cagnolini

All'inizio Gesù ignora la supplica della donna.

Sono i discepoli a intercedere, ma non per pietà: solo perché la donna la smetta di importunare.

Gesù non intende favorire la donna perché ritiene che la sua missione riguardi solo  Israele.

Dinanzi all'insistenza della donna Gesù le dice: "Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini".

Risposta durissima e offensiva: per gli ebrei il cane non era, come per noi, un caro e amico animale domestico. Era una creatura immonda e spregevole. "Cane" era l'insulto corrente che un ebreo rivolgeva ad un pagano. E tra i pagani, ritenuti cani,si pensava risiedessero i demoni.


5. Le vere intenzioni di Gesù

Secondo alcuni Gesù, intenzionato fin dal principio  ad esaudire la donna, si comporta duramente con lei solo per uno scopo pedagogico: far crescere e migliorare la sua fede.

Ma non si capirebbe in tal caso la durezza di Gesù verso una creatura fragile, angosciata e dotata, sin dal principio, di una fede immensa in lui.

Con altre persone, meno credenti, Gesù non è mai stato tanto duro!

Secondo altri l'episodio testimonia di un'evoluzione e crescita nella coscienza di Gesù in ordine alla comprensione della sua missione.

In tal caso è questa donna che provoca in Gesù un cambiamento profondo e reale.

In Gesù cioè, è avvenuta una lenta maturazione. A produrla alcuni incontri decisivi della sua vita pubblica.


6. Le donne e la svolta salvifica


Nel cammino dell'alleanza Dio-uomo ci sono delle svolte quasi sempre provocate da figure femminili, anche se non sempre esemplari.

La cosa è evidente sopratutto nella vicenda di Gesù: la donna che lo incontrano hanno l'esistenza cambiata. Ma anche Gesù si lascia cambiare dall'incontro con le donne.


7. La donna siro-fenicia (cananea)


Questa donna è un modello di umiltà: si lascia ignorare, trattare bruscamente, persino insultare, senza reagire.

Ma è anche un esempio di tenacia nella preghiera: non cede, non rinuncia, persuasa come è del suo buon diritto.

Questa donna incarna la supplica di tutte le minoranze oppresse della storia.

Pur essendo pagana ella appare in singolare continuità con tutti i giusti intercessori dell'Antico Testamento: con Abramo, con Giacobbe, con Mosè, con Giobbe che difende dinanzi a Dio il proprio diritto di essere ascoltato

"Le briciole" nella sua replica a Gesù evocano la sovrabbondanza dei beni che il regno porta il uomini.

A tutti gli uomini, non solo a pochi intimi o privilegiati.

Queste briciole che cadono da una tavola ricolma di cibo parlano di una misteriosa sovrabbondanza dei beni.

Anche la fede della donna registra una progressione: prima chiama Gesù "Figlio di Davide", poi "Signore" e infine "Dio" perché gli si prostra innanzi.

E Gesù loda questa fede, soprattutto perché presente in una persona irregolare.

Poi  Gesù "convertito" oltre a guarire la figlia della cananea, continua ad operare molti altri miracoli nella Decapoli, regione a forte presenza pagana.

La salvezza è per tutti. Il " velo del tempio" comincia a squarciarsi.

La distinzione tra vicini e lontani, puri e impuri, figli e cani cade per sempre. Grazie ad una donna pagana. 


giovedì 13 agosto 2020

SOLENNITA’ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA. Riflessione di don Pietro

1. Parallelo tra Adamo e Cristo

Da Adamo noi partecipiamo la condizione di debolezza e di morte. Perciò siamo circondati da paure e siamo irretiti dalle seduzioni del mondo. In quanto condannati a morte cerchiamo surrogati e  sicurezze di vita. La ricerca ansiosa del piacere, l'attaccamento al denaro sono forme di una paura della morte che ci rende condizionati ed egoisti.

Gesù di Nazaret è stato un uomo come noi, ma non è vissuto come noi. Non ha affermato se stesso contro Dio. Al contrario si è abbandonato alla volontà di Dio.

Libero da se stesso, ha fatto di se stesso un dono a Dio attraverso l'amore dei fratelli. 

E Dio gli ha dato ragione: Adamo cerca se stesso e trova solo angoscia, solitudine e morte. Cristo si affida e  offre a Dio se stesso e trova vittoria sulla morte.

La sorte di Gesù riguarda anche noi. C'è un ordine: prima Cristo, poi quelli che sono di Cristo.

"Essere di Cristo" non è qualcosa che può avvenire naturalmente, come accade nel rapporto con Adamo, ma si realizza solo quando la nostra vita si apre liberamente alla fede di lui.

Maria è la prima credente. Prima in senso non cronologico ma qualitativo.

La sua e stata una fede limpida, integrale, senza riserve.

Perciò Maria è assunta in Cielo.

Maria è la prima credente.. Cioè la prima persona umana nella quale la redenzione del Cristo ha manifestato tutta la sua fecondità.

In Maria si anticipa l'adesione e il destino della Chiesa.

Come Maria anche la Chiesa deve portare Cristo.

Come Maria anche la Chiesa deve accogliere la Parola di Dio, vivere di fede, portare a tutti la gioia della fede, partecipare della vita si Cristo.

In Maria già si è compiuto ciò che la Chiesa spera e attende.

Da quì la nostra fiducia: "L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte". 


domenica 2 agosto 2020

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1. Il significato essenziale del miracolo

Dio non è indifferente ai bisogni materiali, fisici dell’uomo.
La salvezza è offerta da Dio in Cristo ad ogni uomo e a tutto l'uomo.
È respinta ogni lettura spiritualistica del regno.

2. Come leggere la fame che affligge molti...

La fame nel mondo è un problema spirituale, non solo materiale. La fame nel mondo dfa dubitare della  volontà di bene di Dio verso le sue creature e fa nascere  la protesta verso il Cielo. La fame nel mondo sfida, oggi in particolare, la fede-carità dei credenti

3. Le indicazioni derivanti dal comportamento di Gesù

A far decidere Gesù ad operare il miracolo della moltiplicazione dei pani è il suo amore compassionevole per la folla affamata che lo segue da giorni.
La fame nel mondo non si risolverà, senza un cuore compassionevole e una radicale conversione sul senso e sulla destinazione dei beni terreni. Nel disegno di Dio essi debbono servire a tutti gli uomini, nessuno escluso. Decisivo, per avviare assoluzione il problema e lo scandalo della fame nel mondo, è un amore rivestito di giustizia. I discepoli del Signore con il loro impegno morale, politico, culturale, sociale, sono chiamati ad affrontare e ad avviare a soluzione i bisogni collettivi dell'umanità.
Ognuno è chiamato a fare la sua parte. Emerge con chiarezza che a operare miracoli è solo l'amore.

4. Oltre il pane materiale 
Il pane moltiplicato da Gesù è la memoria vivente della manna che Dio concesse al suo popolo nel deserto. Ma è anche profezia dell'eucaristia che Cristo avrebbe  istituito ed è infine allusione al convitto escatologico degli ultimi giorni.
Il senso profondo del pane ci è rivelato nell'eucaristia. In essa il pane per il corpo diventa segno di un altro pane. La fame materiale dell'uomo è segno anche di un'altra fame: la fame di Dio.

sabato 25 luglio 2020

Vangelo della XVII domenica del T.O.. Don Pietro

1. "Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto... ad una perla..."

Il regno dei cieli sta ad indicare qui il regno di Dio. Gli ebrei  non nominano  il nome di Dio ma usano delle perifrasi.
Il regno di Dio significa Dio stesso. Il senso della parabola della perla e del tesoro è diverso nei due casi. Infatti si allude a due diverse esperienze. Il tesoro viene trovato casualmente. La perla invece in seguito ad una accurata ricerca.
Il regno è la realtà più preziosa per un credente. Questo regno già c'è, ma è nascosto. Nascosto in un campo. Il campo è il cuore dell'uomo, è la vita,  il mondo,  la creazione, è la storia Questo tesoro e questa perla occorre cercarli.
Ed entrare in possesso del tesoro e della perla è gratuito. Infatti non esiste merito adeguato.
Occorre però fare spazio al tesoro e alla perla eliminando gli ostacoli.
La grazia cioè si coniuga sempre con la responsabilità.
Il segno  che uno li ha trovato è la gioia che ne segue. Il cristiano non apprezza il sacrificio dello stoico che è sprezzante dei beni.
Il pensiero di possedere un tesoro, una perla dà una gioia che viene da Dio e fa sì che  anche le rinunce per averli non costano molto. Occorre però comunque "vendere i propri averi": nel senso che le cose che non costano nulla non si apprezzano e si ritengono  " dovute".

2. "È simile anche ad una rete... che raccoglie ogni genere di pesci".

Ritorna, come nella parabola del buon grano e della zizzania, la tentazione della selezione e della perfezione. Anche questa mini parabola ci invita a sobbarcarci alla fatica della convivenza.
L'esame di "maturità" e di "idoneità" ci sarà solo alla fine e i "commissari" dell'esame saranno solo gli angeli. È probabile, quasi certo, che l'esito dell'esame comporterà moltissime sorprese...

3. Indicazioni per noi

I discepoli del Signore sono cercatori del tesoro di Dio. 
Noi quanto siamo disposti a rischiare per questo tesoro? 
Ricordiamoci intanto che i compagni di viaggio  non sono dei perfetti. E chi di noi lo è?

sabato 18 luglio 2020

VANGELO DELLA XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

La zizzania nel campo di grano

1. Messaggio centrale della parabola
Il bene (raffigurato dal grano) e il male (simboleggiato dalla zizzania) crescono insieme in un intreccio che non spetta all'uomo districare.
Lo farà il Signore a suo tempo.
Al livello strutturale la parabola presenta due elementi: una storia e un dialogo.
La storia prende avvio da una constatazione:  dei contadini si accorgono che nel campo del loro padrone, mischiata al grano, è cresciuta anche della zizzania.
Il dialogo nasce dalla constatazione di cui sopra e consta di due battute con botta e risposta.
Nella storia si intravedono con precisione tre tempi: il primo tempo è la crescita del grano e della zizzania. Il secondo tempo è il dialogo tra i servi e il padrone. Infine il terzo tempo è la mietitura e il giudizio.
Fermiamo la nostra attenzione sul secondo tempo perché ad esso è rivolta e richiamata l'attenzione della parabola.  

"Non hai seminato buon seme nel tuo campo?".
È la prima domanda del dialogo. Nell'ambiente sociale palestinese era possibile che qualcuno per vendetta seminasse dell'erba cattiva, della zizzania nel campo di un suo avversario. Nel caso nostro quando i servi scoprono la presenza della zizzania restano sorpresi, non resta però sorpreso il padrone. Ma la sorpresa più grande è un'altra: è l'ordine che dà il padrone di non estirpare la zizzania ma di lasciarla crescere insieme al grano.
Questo quest'ordine è contro l'abitudine diffusa di sarchiare il campo prima della mietitura, per liberarlo dalle erbacce. 

"Allora dirò ai mietitori di separare e bruciare nel fuoco la zizzania"
L'esito finale della vicenda non è il punto centrale della parabola. Ma è importante perché testimonia che il padrone non è affatto indifferente al bene e al male.
Allora Dio non pensa al regno come ad una comunità di perfetti, di giusti.
Gesù non ha costituito una cerchia ristretta di santi. I discepoli non sono  autorizzati a fare cernite tra buoni e cattivi. Neppure sono autorizzati a pensare che  bene o male siano la stessa cosa!
Solo alla fine ci sarà la separazione, e non spetta gli uomini farla. Sino ad allora il bene e il male, i buoni e i malvagi debbono convivere insieme.

" Lasciate che crescano insieme"
La zizzania, cioè il male, presente nel campo di Dio è  opera del nemico.Che  cresca insieme al grano è volontà di Dio.
“Lasciate”: qui è la sconcertante novità del messaggio della parabola: è un ordine inatteso con una quasi  giustificazione.

Chi può riconoscere chiaramente il buon grano cioè il bene e distinguerlo dalla zizzania cioè dal male?.
Eppoi: il grano può sempre diventare zizzania e anche la zizzania può mutarsi in buon grano!
I servi di ieri e di oggi si scandalizzano per quest'ordine del padrone, animati come sono da una sorta di sacro furore per cui vorrebbero correggere la tolleranza del padrone. 

Perché il padrone vuole diversamente dai servi?
Bisogna fare attenzione alla prima domanda dei servi: "Signore, ma non hai seminato del buon grano nel tuo campo? Donde viene la zizzania?
Fuori parabola per noi la domanda suona così: se Dio è buono, perché esiste il male nel mondo? Se il tempo messianico è giunto, perché ancora il peccato è presente nel mondo, persino nella comunità cristiana?
Oppure: come mai anche l'ultimo intervento di Dio nella storia degli uomini con la venuta del Messia non ha cambiato le cose?
Quando sarà restaurata la giustizia nel mondo?
È solo ancora il tempo della promessa? Su ci sarà il compimento?
E se il regno di dire arrivato, donde viene la zizzania, il male?

Il padrone del campo risponde laconicamente: "Un nemico ha fatto questo". Come a dire: "Non è colpa mia". Con la risposta del padrone l'essenziale sull'origine del male e detto.
La parola di Dio, infatti, non vuole spiegare il male. Vuole solo indicarci come vivere in un mondo dove bene e male crescono insieme. La parabola non persegue uno scopo teorico, ma pratico.
I servi sentendo che la zizzania è stata seminata da un nemico propongono di estirparla. Il padrone non è di tale parere e dice: "Lasciate che crescano insieme, fino alla mietitura il grano e la zizzania".

La parabola contiene anche un forte invito alla misericordia. Nella prima lettera ai Corinzi (4, 5) San Paolo scrive: "Non giudicate nulla, prima del tempo, finché sia venuto il Signore, il quale metterà in luce ciò che le tenebre nascondono e manifesterà i consigli del cuore".
La volontà di eliminare il male molte volte è presente anche nei vari mondi vitali della società: la scuola, il sistema penale, la cultura, persino nella Chiesa.
Attenzione: "Tolleranza" non è sinonimo di indifferenza. Al contrario è segno di amore e di speranza, a imitazione di Gesù.
Qualche annotazione conclusiva
La zizzania può essere anche in ognuno di noi: dobbiamo accettare di farla convivere in noi perché è difficile distinguerla dal buon grano che anche nasce, per grazia di Dio, in noi.
La zizzania che vediamo nella vita di alcune persone non è imputabile solo alla  loro responsabilità.
Dio ci esorta ad essere pazienti con gli altri, saperli aspettare, come lui fa.
Infine il nemico può seminare la zizzania in noi e negli altri perché abbassiamo la guardia, cioè non vigiliamo e viviamo dissipati e distratti..

venerdì 26 giugno 2020

XIII domenica: riflessione sul Vangelo di don Pietro.



1. Amare Gesù più dei familiari più stretti

È questo un bell'esempio di quella radicalità evangelica richiesta ai discepoli del Signore. Ma è praticabile? Sì se si ritiene che l'amore esclusivo per  Gesù non è un sentire più affetto per lui, ma è porre la propria volontà di legarsi a Gesù prima dei vincoli familiari, al vertice dei valori da scegliere.
E questo non è far torto ai propri cari, tutt'altro!

2. Prendere la propria croce e seguire Gesù, per esserne degni

Questo è possibile con l’aiuto della grazia, solo se l'amore per  Gesù è sconfinato. La croce va compresa come il dono totale della propria vita al Signore.
Solo così non si vive per cose vane (facile benessere, il successo ad ogni costo, piacere sempre...), ma si vive in pienezza. 

3. I doveri verso i discepoli di Gesù

Bisogna accogliere i discepoli di Gesù come se si accogliesse Gesù stesso.
Ci sarà ricompensa anche per un solo bicchiere d'acqua loro offerto!  
Nella prima lettura addirittura Dio dona un figlio in cambio dell'ospitalità ad Eliseo.
È bella una interpretazione spirituale di questo aneddoto: l'amore feconda un cuore  sterile, ma deve essere amore gratuito!
Nella seconda lettura ci viene detto che un amore con queste caratteristiche significa la vittoria piena del proprio Dio e, dunque, sulla morte.

sabato 20 giugno 2020

Riflessione al Vangelo. Don Pietro


1. La missione dei discepoli

È quella di continuare l'opera di Gesù e cioè annunciare la buona notizia e compiere gesti di salvezza come guarigioni ed esorcismi.
I discepoli avranno lo stesso potere e autorità di Gesù, ma incontreranno anche la stessa opposizione sperimentata da lui. Il mondo posto tutto sotto il maligno, non potrà sopportare la luce, la giustizia, l'amore disinteressato.
L'opposizione del mondo può e sa essere anche violentissima. Ma non bisogna per questo lasciarsi intimidire e alterare il messaggio o addolcirne le esigenti richieste.
Infatti l'annuncio corrisponde alla volontà di Dio. L'annunciatore deve solo obbedire, non  ne può disporre né vi si può opporre.
L'annunciatore, minacciato dalle potenze ostili, può contare sulla protezione di Dio che guida il cammino della storia.
Gli uomini possono uccidere il corpo, ma non possono far fallire il senso della vita di un uomo.
Solo Dio deve essere temuto e il timore di Dio libera da qualsiasi altro timore. Allora all'annunciatore non capiterà nulla di male che Dio non sappia o non voglia. E sarà, per questo, una male limitato e provvisorio che apre la strada ad un bene completo e definitivo.

2. Il legame fra Gesù e il discepolo

In virtù del legame esistente tra il Maestro ed i suoi discepoli, questi sono suoi testimoni. In virtù ancora di questo legame Gesù è solidale con i discepoli dinanzi al Padre.
Naturalmente non siamo dinanzi ad uno scambio mercantile, ma ad una coerenza con le libere scelte dei discepoli.

3. Da chi viene la forza

Il profeta (ad esempio Geremia nella prima lettura di oggi) è fiducioso. Al suo fianco c'è Dio stesso. I nemici proveranno solo confusione e vergogna.
Il profeta, beninteso, non invoca la sua personale vendetta, ma la vittoria di Dio contro i suoi avversari.

domenica 14 giugno 2020

Corpus Domini. La riflessione di don Pietro


1. L’Eucaristia e la Chiesa

Tra Eucaristia e Chiesa c'è un  legame ineludibile: l'una realtà e l'altra sono, senza differenza alcuna, "Corpo di Cristo"
Come lo Spirito fa vivere e  ripresenta il Cristo agli uomini, così è lo stesso Spirito a far vivere la Chiesa rendendola luogo che riflette nel tempo la comunione trinitaria, luogo di incontro tra la storia trinitaria e la  storia umana.
I luoghi più privilegiati delle strutture dello spirito nella Chiesa sono la parola e i sacramenti dell'alleanza.
Ma il luogo che tutti li riassume divenendo culmine e fonte di tutta la vita ecclesiale è la celebrazione dell'eucaristia.
In essa si compie il memoriale della Pasqua del Signore e, attraverso la parola dello Spirito, il Cristo morto e risuscitato dal Padre, è reso presente per riconciliare gli uomini con Dio e tra di loro.
L’eucaristia è la grande azione di grazie al Padre per tutto ciò che egli ha compiuto, copie e compirà per la famiglia umana.
L’ eucaristia è il sacrificio  in cui l'intero creato è offerto per divenire regno di giustizia, di amore e di pace.
Essa è invocazione dello Spirito: in essa sale al Padre la lode e da esso discende dal Padre il dono della presenza vivificante del risorto.
Nell'eucaristia avviene e si celebra un incontro e una nascita: l'incontro tra Dio e l'uomo per stringere un'alleanza d’amore. La nascita è quella della Chiesa ed avviene, per il dono dello Spirito nel Cristo,  come Chiesa visibile e attuale insieme.
A partire dallo Spirito e a partire dal Cristo sono vere entrambe le affermazioni: l'eucaristia fa Chiesa e la Chiesa fa l'eucaristia.
L’eucaristia fa la Chiesa perché nell'eucaristia irrompe lo Spirito, ripresenta la Pasqua del Signore e raduna gli uomini nella forza della riconciliazione che la Pasqua opera.
La Chiesa fa l'eucaristia perché è la comunità celebrante il soggetto che, in obbedienza al suo unico Signore, si raccoglie per celebrare, secondo i diversi ministeri, il sacrificio della Nuova Alleanza.

2. Eucaristia e comunione

L'eucaristia, dunque, è il luogo in cui la Chiesa riscopre e vive il suo profondo mistero. Il suo essere cioè esperienza concreta di una comunione con Dio e fra uomini e donne, una comunione che ha origine in cielo, nel cuore più intimo della Trinità e che ha come meta e patria la gloria di Dio.
Di questa origine e meta la Chiesa in ogni eucaristia fa memoria. Una memoria che non è una sorta di estensione dello spirito dal presente al passato, ma biblicamente un movimento che dal passato raggiunge il presente e, in forza sullo Spirito, rende contemporaneo, vivo ed efficace per la comunità celebrante l'unico e definitivo evento salvifico e cioè la morte-risurrezione-dono dello Spirito.  
Questa memoria, inoltre, è ricca anche della promessa di un dono ancora più grande che Dio ha in serbo per i suoi  figli e che l'eucaristia in qualche modo anticipa. 
Questo memoriale eucaristico costituisce, fonda, la Chiesa nella sua realtà di mistero. Essa-Chiesa non è frutto di carne e sangue. Non è fiore spuntato dalla terra. Non è il risultato di accordi umani.  
Essa invece è un dono dall'alto, un frutto dell'iniziativa divina.
Per questa sua dimensione  misterica, la Chiesa è indisponibile ad una presa o comprensorio puramente umana. Essa è il luogo di una presenza altra tra le presenze terrene. Essa viene da altrove, è la tenda di Dio fra gli uomini e in questo frammento di carne e tempo lo Spirito prende  dimora.
Nella memoria  eucaristica la Chiesa si comprende anche come dono. La Chiesa non si inventa o si produce: la Chiesa si riceve. Essa non è il frutto della fatica dell’uomo, ma una grazia non meritata e non meritabile:  gratuita.
Ebbene, quando celebriamo il rendimento di grazie che rende presente il Crocifisso-Risorto fra noi, là irrompe lo Spirito e suscita come dono la Chiesa, la famiglia dei figli di Dio.   
L’eucaristia fonda e costituisce anche la missione della Chiesa. Come infatti  nell'eucaristia il Cristo morto e risorto si fa presente a tutte le situazioni umane contagiandole con la sua forza di riconciliazione e di vita, così la Chiesa che nasce dall'eucaristia deve farsi presente ad ogni dolore umano, ad ogni fame di giustizia e di liberazione per estendere a tutta la realtà la forza rinnovatrice del Cristo.
Se il  Dio che la Chiesa celebra nell'eucaristia si è fatto frammento totalmente dentro alla vicenda umana, anche la Chiesa non può rimanere spettatrice della vicenda umana. Non c'è situazione umana, specialmente di sofferenza e  di miseria, che non possa entrare nella celebrazione eucaristica e verso cui la Chiesa possa sentirsi estranea.
La convivialità eucaristica è segno e sorgente di presenza e condivisione da parte della Chiesa di tutto ciò che è umano.
La Chiesa eucaristica è Chiesa compagna di vita degli uomini cui annuncia il Regno che viene e la conseguente relativizzazione di sé e delle grandezze di questo mondo. Una Chiesa insieme libera  e sovversiva verso i compromessi della logica di potere di questo mondo.  
La Chiesa eucaristica è la testimone del SI che Dio ha detto agli uomini in  Cristo e insieme del NO con cui Dio ha giudicato nella croce di Cristo tutti i crocifissori della storia.
Povera e serva, voce degli uomini a Dio e voce di Dio agli uomini nel vivo della loro vicenda: questa è la Chiesa eucaristica, nata dalla Pasqua e sempre nuovamente suscitata dallo Spirito nella carne del mondo.

sabato 6 giugno 2020

S. Trinità, la riflessione di don Pietro

1. Dio è Trinità, perché è Amore
Nella prima lettura, tratta dalla Genesi, Dio proclama il suo nome di fronte a Israele: JHWH. Dio non è una forza anonima della natura, non è una potenza tenebrosa ultraterrena.
Dio ha un nome: dunque ha un volto, ha un cuore. Cioè è un Dio personale. I suoi attributi sono hesed ed hemet 
Hesed può tradursi con grazia, misericordia. JHWH  è cioè un Dio sensibile al dolore, non indifferente e freddo. Hemet  può tradursi con fedeltà. Dio colma il bisogno di vita dell'uomo con i suoi doni.
L’ira è solo una reazione breve e passeggera per il peccato dell'uomo.

2. Il Padre nel Figlio
Compassione, grazia e fedeltà Dio le manifesta soprattutto in Gesù Cristo, suo Figlio. In Cristo si conosce l'amore di Dio come amore solidale con l'uomo. L'amore di Dio in Cristo è dono totale,  "sino alla fine".
Perciò Gesù è immagine perfetta dell'amore del Padre.
Con Gesù Dio non dona solo cose preziose all'uomo (la vita, la libertà, la terra, la Legge...), ma dona se stesso. Per cui è annullata ogni distanza, è colmata dal dono di sé nel Figlio. Tra il Creatore e le creature, tra  il mondo e il suo fattore, tra il Santo e i peccatori nasce crolla il muro di divisione eretto dal peccato. Conseguentemente il nostro rapporto con Dio si decide nel nostro rapporto con Gesù suo Figlio. Chi crede in Gesù Cristo, cioè chi si lascia amare da Dio attraverso Gesù Cristo, non è condannato: il suo peccato è bruciato dall'amore di Dio.
Chi non crede in Gesù Cristo, cioè non si lascia amare e perdonare da Dio in Gesù Cristo, è già stato condannato: rimane nel suo peccato e nella condanna di Dio

3. Lo Spirito
L'amore del Padre e la grazia-Gesù ci sono comunicati attraverso il dono dello Spirito.
Lo Spirito è la comunione d'amore tra Padre e Figlio.
Lo Spirito apre i nostri cuori a questa comunione.
La Trinità è con noi" (II Cor): la Trinità è il mistero della nostra vita. La comunione che stabiliamo tra noi è il prolungamento della comunione trinitaria.
L'amore tra noi non è un ideale umano (etico)  ma è un riflesso in noi dell'amore divino.

4. Una vita trinitaria
Essa si realizza se viviamo con gli altri e per gli altri. 
Si realizza se doniamo tutto a Dio. 
Si compie se sappiamo uscire dal nostro io per andare incontro agli altri. E’ viva e reale se viviamo la comunione e il dono di noi stessi a Dio e ai fratelli

venerdì 29 maggio 2020

Pentecoste: riflessioni di don Pietro.

1. Il Grande Dimenticato 

Sorprendente è l'operazione culturale condotta felicemente dalla Chiesa nel corso dei secoli relativamente alle Solennità di Natale e di Pasqua che si sono così profondamente radicate nell'animo dei credenti praticanti e non solo. Perché ciò non è avvenuto anche per la festa di Pentecoste, per l'evento da cui nasce la Chiesa e cioè la discesa dello Spirito santo? Eppure lo Spirito santo è il protagonista sia del Natale che della Pasqua.

2. Qualche ipotesi

La dimenticanza, l'oblio dello Spirito santo probabilmente è dovuto alla sua natura misteriosa.
Lo Spirito è comunione invece la modernità presenta un carattere ed un volto egocentrico, che contrasta con il significato centrale dello Spirito.
Forse c'è anche un peccato di omissione della riflessione di fede che e stata una riflessione fortemente intellettuale, e stata poco teologia in ginocchio. La teologia si è limitata quasi esclusivamente a parlare di  Dio, non a Dio, né si è messa in ascolto di Dio

3. Consequenze nefaste 

La più grave conseguenza è l’erramento e lo smarrimento dell'uomo,il suo sprofondamento nella prigione della solitudine, paralizzato dalla paura, a volte preda di vera e propria angoscia e disperazione. Su di lui  incombe il nichilismo, dinanzi a lui si spalanca un vuoto terribile e insopportabile.
L'ostracismo dello Spirito di Dio consegue alla  rivincita del razionalismo. Cioè l’ incapacità da parte dell’uomo di pensare il mistero e, quindi, l'assenza e la mortificazione nella sua esistenza di valori immateriali e spirituali. La marginalità, a volte una vera e propria assenza, dello Spirito ha condotto alla sovrastima dell'aspetto istituzionale della Chiesa e questo ha significato la mortificazione dei carismi,  l’ incapacità  di vivere al suo interno rapporti di comunione e  la sterilità all’esterno del suo compito missionario.
La mancanza dello Spirito ha anche determinato un regresso dell'umanità alla situazione babelica. Domina sovrana  l’incomunicabilità tra le persone, tra i gruppi umani, tra i popoli, tra le religioni. Spesso nei rapporti prevale l'impulso al dominio violento, c'è chiusura e mortificazione delle diversità.

4. Lo Spirito santo

Con la discesa dello Spirito santo  c'è come un nuovo inizio della creazione, dopo il fallimento del primo inizio.
Come il Soffio creatore di Dio evoca le cose dal nulla, trasforma in cosmos il caos, infonde un alito di vita nell'uomo, così il dono dello Spirito è nuova creazione per la terra e per l'uomo.
Il dono dello Spirito, cui segue l'invio dei discepoli nel mondo, pone un elemento di continuità tra la missione di Gesù da parte del Padre e quella della Chiesa nel mondo, perché tutti gli uomini ricevano la pienezza della vita.
Lo Spirito è strettamente necessario, indispensabile, per chi vuole agire come Gesù e in nome di Gesù. Come Gesù fu concepito per opera dello Spirito santo così i discepoli dovranno essere generati dallo Spirito. Senza lo Spirito i discepoli non possono rimettere i peccati. Cioè per combattere e sconfiggere la forza negativa del peccato, della sua nefasta influenza nel mondo, occorre la forza dello Spirito. Come Gesù venne indicato dal Battista come l'Agnello che toglie il peccato del mondo, così la Chiesa va concepita come la casa in cui si rimettono i peccati.
Con lo Spirito santo l'annuncio di Cristo tocca e cambia il cuore dell'uomo. Senza lo Spirito la parola di Dio è morta.
Con lo Spirito i discepoli diventano capaci di parlare le lingue degli ascoltatori. Cioè la parola di Dio detta nello Spirito diventa forza unificatrice che si contrappone vittoriosamente alla logica di divisione, quella di Babele.
Le particolarità non vengono mortificate, ma trascese in una superiore comunione sul modello del mistero trinitario: un solo Dio in tre persone uguali e distinte.
Questo processo di unificazione del mondo inizia dalla Chiesa: in essa deve esserci  diversità di carismi, a uno solo è lo Spirito.; c'è diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore come ci ricorda Paolo nella prima lettera ai Corinzi.

5. Promessa mantenuta

Alla Samaritana Gesù aveva promesso un'acqua dissetante e ristoratrice. Ebbene, quest'acqua è lo Spirito santo con i suoi doni: "a ciascuno è stata data una manifestazione dello Spirito, per l'utilità comune".
I doni non sono concessi per l'affermazione di sé, ma per l’edificazione della Chiesa.
Il bene della comunità è più importante della propria affermazione.
6. Porte aperte
 Le porte chiuse che lo Spirito apre sono: 
la consolazione contenuta nelle Scritture che scende con lo Spirito nel cuore di chi soffre. 
La forza dei sacramenti e della carità che si incarna nei cuori. 
La grazia dell'ascolto profondo  concessa a chi legge la Scrittura. 
La via dell'annuncio  che viene aperta dinanzi ai passi degli apostoli.

sabato 23 maggio 2020

Ascensione, la riflessione di don Pietro

PER CHI LA DESIDERA ECCO LA MIA MEDITAZIONE PER LA SOLENNITA’ DELL’ASCENSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO. VI SALUTO FRATERNAMENTE

A. Premessa

1. L'evento non va inteso in senso spaziale, topologico: quasi si trattasse di un trasferimento materiale del corpo del Cristo dalla terra al cielo con un volo oltre le nubi e l'atmosfera, con gli angeli che pilotano il corteo. Non si tratta di una cerimonia di intronizzazione del Cristo alla destra del Padre
2. Più che il fatto, interessa il suo senso profondo e il suo messaggio.
Questo mistero è sviluppo e parte integrante del mistero di Cristo, della sua incarnazione della sua morte e risurrezione.

B. Il significato per il Cristo 

1. Cristo è innalzato perché si è umiliato. Aveva detto: "Chi si umilia, sarà esaltato".
Cristo è costituito Signore perché si è fatto servo. Aveva detto: "Chi perde la sua vita la ritrova".
Cristo ritorna al Padre, ritorna cioè Colui che dal Padre era stato inviato. Egli aveva detto: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" (Giovanni 16,28)
Adempiuta finalmente della sua missione, Cristo ora vive nel mondo di Dio ed è assente dalla scena della storia umana.
Ma non è abbandono il suo: manderà il suo Spirito, guida e sostegno della Chiesa sino alla  Parusia 
2. Il racconto dell'ascensione è molto semplice: niente pomposa apoteosi come nei miti pagani e nelle rappresentazioni teatrali. Solo un sobrio accenno a dove è diretto: "Vado al padre".
Gesù salì un po' più in alto, finché una nube non lo rese invisibile.
La nube significa la Presenza di Dio. Il cielo con la sua luce, con la sua immensità e trasparenza è simbolo stupendo della dimora di Dio. Ma Dio, il Padre, non è legato ad un determinato luogo.

C. Il messaggio per l'uomo credente

1. Come Gesù anche il credente è chiamato alla vita divina, a partecipare alla gloria. 
2. Ecco alcune conseguenze indicate dal teologo B. Forte:
Il futuro dell'uomo è l'origine stessa da cui è venuto.
Egli è pellegrino verso la patria e cioè il Padre verso cui andare nello Spirito santo.
Ora questa attesa della patria, cioè di Dio, deve diventare rifiuto di ogni idolatria del presente, per aprirsi alle cose nuove, allo Spirito, dono già ricevuto ma anche promessa e anticipo di un dono più grande da attendere: la gloria di Dio, nostra piena realizzazione quando saremo liberati dalla schiavitù del peccato e della morte. 
La provvisorietà della sofferenza: passerà la notte e spunterà la luce che c'illuminerà per sempre.
Non possiamo identificare le nostra speranza con le speranze di questo mondo. Le assumiamo, le verifichiamo al vaglio della risurrezione che ci indica Dio come meta ultima e definitiva. Il richiamo della patria-Dio ci riempie di gioia.
L'ultima parola della nostra esistenza, sarà parola di gioia e non di dolore, di grazia e non di peccato, di vita e non di morte.
Camminiamo come Israele ripetendo:  "Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore" (Salmo 122,1).

D. Indicazioni per la Chiesa

La figura umana di Gesù viene sostituita dalla presenza dello Spirito e ciò, dice Gesù, è bene per noi.
Lo Spirito ci mette in contatto con Gesù più intimamente che con la sua figura umana. Non più con o tra i discepoli, ora Gesù è in noi!
Non è il facile guardare con gli occhi che conduce a Gesù, ma l'attenzione del cuore: "Beati i puri  di cuore,  perché  vedranno Dio"...
Partendo Gesù ci assegna anche un compito e ci affida una missione: ora tocca a noi glorificare Dio con la nostra vita.
Il compito nostro è annunciare Gesù Cristo. La nostra missione è essere sacramento di vita nuova. La nostra forza unica è lo Spirito.
Niente di più, niente di meno.

venerdì 15 maggio 2020

Lettura, curata da Don Pietro, del Vangelo della VI domenica di Pasqua


1. "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti"


Amare Gesù comporta l'accettarlo nella realtà sconcertante della sua venuta e della sua "ora ".
I Giudei hanno rifiutato di accoglierlo e anche i discepoli stentano ad accettarlo pienamente: vedi Pietro ad esempio che tenta di opporsi a Gesù che vuole lavargli i piedi. Non ritrova in Gesù chinato ai suoi piedi l'immagine che egli si è fatto del Messia. Non riconosce nel servo e schiavo il suo Signore.
Amare Gesù significa riconoscerlo come maestro e Signore, ma nel modo in cui il Padre e lui stesso hanno voluto che fosse: come servo umiliato e rigettato.

2. Amore come fede e obbedienza ai comandamenti

L'amore verso il Gesù, allora, non è altra cosa che la fede nella sua origine divina. E la vera fede in Gesù implica l'amore per lui.
La prova d'amore verso  Gesù consiste, poi, nell'osservanza del suo comandamento. Non in una semplice osservanza esteriore, ma nell'accordo profondo della volontà, nell'adesione convinta dello spirito e del cuore, insomma in una fedeltà amante. Tradurre l’entolé  greca con comandamento significa impoverirne la ricchezza teologica. Il comandamento che Gesù chiede di osservare implica l'idea di una rivelazione che costituisce il fondamento della vita religiosa e morale.
Più che comandamento allora, si dovrebbe tradurre con insegnamento, mandato, via. Gesù, cioè, apre ai suoi discepoli una via nuova per entrare in comunione con lui e con il Padre.
Gesù rivela un mondo nuovo, comunica una vita, indica un'opera, confida un progetto.
Il comandamento di Gesù comporta tutta la rivelazione che egli ha fatto ai discepoli della volontà divina.
E l'amore per Gesù si può esprimere solo con e nella sullecitudine a conservare il suo insegnamento e a camminare nella sua via.
E il comandamento  che ricapitola la rivelazione che Gesù è venuto a portare e la via nuova che è venuto ad aprire è il comandamento dell'amore fraterno che trova nella lavanda dei piedi, oltre al suo significato salvifico, il suo valore di esempio per i discepoli.
La legge della comunità dei suoi discepoli è il servizio fraterno.
Questo comandamento Gesù lo ha promulgato insieme all'annuncio della sua dipartita.
Quasi ad ammonire i discepoli che nel tempo della sua assenza fino al suo ritorno, essi dovranno renderlo presente amandosi e servendosi gli uni gli altri.
Questo amore fraterno deve segnare di sé l'ultima tappa della rivelazione, il tempo dello Spirito, l'anticipo della vita eterna.
Gesù chiede ai suoi discepoli non solo di amarsi reciprocamente , ma di amarsi "come" (“otì”) lui ci ha amati.
L’amore dei discepoli deve, cioè, essere la continuazione dell'amore di Gesù, il frutto dell'amore di Gesù, la risposta al suo amore.
Conseguentemente la Chiesa di Gesù dovrà essere una comunione, uno scambio reciproco di servizi, un vivere insieme, nel suo amore, uniti dall'amore per Gesù.
Ancor una volta l'amore fraterno è collegato alla fede in Gesù.

3. La promessa del Consolatore

Nella rivelazione vi sono come due tappe: Gesù ha rivelato il Padre, si è manifestato come l'Inviato, il Figlio, ma i discepoli non hanno riconosciuto realmente in lui la presenza del Padre.
Occorre il dono dello Spirito perché i discepoli credano che Gesù è nel Padre, essi in lui e lui in essi.  Allora ogni velo cadrà e la rivelazione si compirà pienamente. Il dono dello Spirito nulla aggiunge alla rivelazione, ma la compie perché la trasforma in luce e vita nel cuore di discepoli.
Ecco la novità: prima della Pentecoste lo Spirito era presso i discepoli e in Gesù. Ora è nei discepoli, nel loro cuore, per sempre.
Grazie a questo dono, la rivelazione di Gesù penetra nei loro cuori da cui sgorgheranno quei "fiumi di acqua viva" annunciati da Gesù.
E così la rivelazione di Gesù diventa sapienza di vita nei discepoli.
Senza lo Spirito alla missione del figlio manca il sigillo, alla sua parola manca l'autenticità e al suo stesso sacrificio la fecondità.
È lo Spirito che mantiene vivo l'insegnamento di Gesù, ne mette in luce il vero significato e lo fa penetrare nei cuori.
E’ lo Spirito  che introduce i discepoli alla verità tutta intera, alla conoscenza del loro Maestro svelando la sua persona nella sua sorgente:  il seno del Padre.
È lo Spirito che denuncia la perversione, la menzogna del mondo che condanna Gesù e dimostra la falsità del principe di questo mondo.
L'opera dello Spirito non si limita alla mente. Essa opera nei cuori realizzando in essi la presenza del Padre e del Figlio.
Solo l'invio dello Spirito porta a termine la missione  di Gesù.
Egli è lo Spirito di verità, lo Spirito attraverso cui si scopre la verità, che altri non è se no lo steso il Gesù nella sua verità senza veli.


lunedì 11 maggio 2020

V DOMENICA DI PASQUA. Don Pietro


1. "Io sono la via"

In un itinerario ordinario c'è un inizio e una meta. La via è solo la strada che conduce al traguardo. Raggiunto questa essa non serve più: è solo mezzo al fine.
Invece in un itinerario che si apre all'infinito, il traguardo non è la fine della strada, il traguardo è la stessa strada che conduce sempre più avanti, sempre più in alto. In tal caso  strada e traguardo si identificano.
Così è  Gesù : strada e traguardo insieme.
Egli non è un semplice strumento di salvezza che una volta adoperato può essere messo da parte, egli è uno strumento che si identifica con la salvezza stessa.
L'immagine della via esprime solo il senso di un'esistenza sempre protesa in avanti, fatta non di quieto possesso ma di amore ardente, non di chiusura in se stessi, ma di dono.
Paolo parla dell'amore come di una via

2. Io sono la verità

Gesù è la rivelazione del Padre. In lui la parola che è una sola cosa con il Padre, si è fatta carne, è divenuta visibile, ascoltabile, toccabile.
Attraverso la comunione con Gesù il Cristo, ogni uomo può entrare in comunione col Padre.
Il peccato aveva separato Padre e Figlio. Cristo ha eliminato il muro di divisione. Nelle parole di Gesù, nelle sue opere, possiamo intravedere il volto di Dio.

3. Io sono la vita

Gesù è la vita divina donata agli uomini. Egli è il compimento di ogni desiderio del cuore umano.
Perciò l'annuncio della sua partenza suscita turbamento nel cuore dei discepoli.
Per loro Gesù era tutto: per lui avevano abbandonato tutto; sul lui avevano puntato ogni speranza.
Il loro non è semplice dispiacere psicologico di amici. È il disorientamento del discepolo che vede sparire l'unico punto di riferimento della propria vita.
Ma Gesù non li abbandona. Al contrario, tornando al Padre, completa il percorso rendendolo praticabile anche ai discepoli.
Grazie al suo ritorno al Padre, anche gli uomini possono ritornarvi.
Come per Gesù,  anche per loro il vivere e morire può diventare un ritorno a Dio.
Chi accoglie Gesù con fede e amore è inserito in una corrente infinita di amore che porta verso il Padre. La comunità credente è la grande opera iniziata e continuata dai discepoli nello Spirito.


sabato 25 aprile 2020

III Domenica di Pasqua. Riflessioni di don Pietro


A. Una grande ricchezza di messaggi

La parola di Dio di questa domenica. ci parla delle difficoltà che la comunità credente incontra per scoprire il Risorto nel proprio cammino. Viene registrata anche la delusione per una salvezza che tarda e che è diversa dalle proprie aspettative. Inoltre la fede è presentata come un cammino e l'inserimento nella comunità è uno dei suoi approdi  essenziali. Infine, viene presentato il Risorto mentre cammina con i suoi discepoli, e la sua è una presenza che si manifesta nella familiarità quotidiana della vita.

B. Il cammino del Risorto con i discepoli

Gesù non è un'idea vaga, un personaggio del passato, ma un compagno di strada che viene nascostamente, in incognito, nelle nostre vite, esattamente là dove noi avvertiamo scoramento, delusione e tentazione di desistere.
La sua presenza-compagnia lungo la strada del nostro  esistere non è legata a visioni celesti, a interventi sensazionali e riconoscibili a prima vista. Il Risorto va scoperto nella dimensione spesso oscura del quotidiano ed è sempre, o quasi, una presenza inattesa e quindi sconvolgente. Il Risorto non è una persona da vedere. La sua è una presenza invisibile da percepire come evento che fa vivere.
Questo è il cammino della fede per una comunità credente: arrivare a sperimentare Gesù come il Vivente, donatore di vita, come Colui che ha potere sopra la morte e sopra gli inferi.

C. Le tappe della fede.

1. La parola

Vita, missione, morte e risurrezione di Gesù sono dischiuse e offerte alla nostra fede nel loro unico è vero significato dalla parola di Dio consegnata alle Scritture. Queste  illuminano la vicenda del Cristo e ne sono a loro volta illuminate. La Scrittura è il terzo occhio, come dicevano i Padri.

2. il pane

Accanto alla parola, per scoprire la presenza invisibile del Cristo nel nostro faticoso andare quotidiano, c'è un altro segno, il pane, in un contesto di pranzo conviviale.
Per scoprire il significato dei segno, per renderlo eloquente, decisivo è l'atteggiamento della preghiera: "Resta con noi Signore, perché si fa sera". Nel semibuio che avvolge i nostri cuori nelle frequenti sere del nostro spirito, senza il suo aiuto non riusciremo mai a scorgere il suo volto quando si presenta a noi.
Se ci  soccorre la grazia invocata, allora  ogni volta che spezziamo il pane, cioè condividiamo  vita, gioie e dolori, ansie e speranze, il Signore è presente e vivo in mezzo a noi.
Darsi senza risparmio, amare fino al culmine, è la condizione per poter dire che Dio è con noi, ci visita il Vivente e datore di vita.
Poi il Cristo scompare, perché non ci adagiamo sulla sua presenza, ma viviamo la condizione della fede: vivere nella presenza-assenza del Signore e nel segno della sua presenza e cioè nell'amore-condivisione.

D. Conclusioni

Il viaggio dei due discepoli è il nostro viaggio. Noi siamo in viaggio con loro due.
Essi avevano sperato... sembra proprio che la storia va avanti facendosi beffe di chi spera. Chi osa sperare è chiamato all'angoscia. Sperare è come gettare l'angora della propria vita in Dio, ma Dio, la roccia salda, non si vede. Ciò che si vede è il mare in tempesta  e tale vista ci sconvolge e ci atterrisce...
Come nel viaggio verso la prima Emmaus, così nei viaggi verso le nostre Emmaus, a noi delusi e disincantati si accompagni un terzo viandante che ci fa leggere in profondità la sua e la nostra storia attraverso dei segni e ci chiede di credere alla sua verità oltre ogni evidenza.
La vista che ci dona è la sapienza del cuore in cui conoscenza e amore si fondono. La storia non è un monologo, ma un dialogo con un Altro.
Lo sconosciuto offre loro del pane: la fede è  donata a noi, non nasce da noi.
Come mai non riconoscono il Signore?
Perché non ne erano capaci: solo con la fede Gesù ha il volto di ogni viandante che si accompagna a noi.
Gesù prende sul serio le nostre delusioni e disperazioni e viene a dissolverle.

mercoledì 22 aprile 2020

Giornata mondiale della Terra


Lettera da Madre Terra
Care figliole e cari figlioli, faccio molta fatica a riconoscervi tali e a chiamarvi con questo nome. Il mio non è un appello, è un grido, non per me, ma soprattutto per voi. Che ne è della vita vostra e di tutti gli altri esseri viventi? Da secoli ormai come società avete preferito come fine principale della vostra attività la crescita della ricchezza e non la vita. Io per troppi di voi non sono la placenta della vita, né la rigeneratrice degli
elementi vitali per tutti gli esseri; sono principalmente la grande miniera da sfruttare per le risorse e la grande discarica per tutti i rifiuti. Con lo straordinario sviluppo della tecnologia dalla metà dal secolo scorso avete impresso una “rapidizzazione” senza precedenti allo sfruttamento senza limiti delle risorse, all’aumento della temperatura, al cambiamento climatico, all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, all’avvelenamento dei terreni con i prodotti chimici, alla acidificazione degli oceani, al consumo e degrado del suolo fertile e coltivabile, alla riduzione della fascia di ozono stratosferico, alla perdita della biodiversità con l’estinzione massiccia di specie, alla grande pressione di disequilibrio tra ecosistemi terrestri. Sono nata 4,5 miliardi di anni fa. Ho visto i primi ominidi 160.000 anni fa e da 10.000 anni avevo stabilito con voi una convivenza stabile, anche se sempre con qualche conflitto.
Questo periodo è stato chiamato Olocene. Dopo varie ere geologiche si era giunti a un equilibrio stabile con l’interazione tra foreste, savane, barriere coralline, praterie, pesci, mammiferi, batteri, qualità dell’aria, ghiacci, temperature, disponibilità di acqua dolce e di suoli produttivi. In tutti questi secoli avevo raggiunto una buona resilienza, che mi permetteva di assorbire tutti gli eccessi della vostra attività e riequilibrare la rete della vita del tutto connessa, che unisce tutti gli ecosistemi. In sole due generazioni le vostre attività umane hanno oltrepassato la mia capacità di sostenere il vostro mondo in modo stabile; ogni anno mi vedo anticipare il giorno delle mie possibilità di recupero.
Anch’io ho confini planetari che devo rispettare, pena fenomeni catastrofici e processi irreversibili. Già per i cambiamenti climatici, la perdita della biodiversità, il cambio d’uso dei suoli e l ’inquinamento da azoto e fosforo i processi sono oltre il limite. Che ne sarà di me con voi tutti, quando saranno sciolti i ghiacciai e le calotte polari? Vedo che i vostri contrasti vertono principalmente sui conflitti sociali e politici e si concentrano sulla crescita economica e finanziaria, con il risultato ingiusto e permanente di una minoranza ricchissima e una stragrande maggioranza di persone povera, spesso misera. Non vi suona ironico, oltre che tragico, che l’industria principale dei ricchi per garantirsi il predominio e i privilegi sia l’industria delle armi, strumenti per dare morte e non per aiutare a vivere?
Come reagireste se venisse usata violenza a una mamma incinta della sua creatura? Perché non pensate che a me è legato anche l’utero delle mamme con le loro creature? Perché accettate che nelle mie viscere vengano stipate, custodite e vegliate le bombe atomiche capaci solo di immani distruzioni e di morte per tutti? Ma la vita vostra e di tutti gli esseri dipende dall’accumulo di potere e di ricchezze o non piuttosto dall’aria pulita respirabile, dall’acqua sicura e potabile, dal cibo sano e sufficiente per tutti? Perché vi fate la guerra mentre io, che sono la vostra casa, sto bruciando? Voi continuate a preoccuparvi delle vostre opere, coprendo di cemento e asfalto distese di suolo prezioso; le vostre città dilagano ovunque, riempite di veicoli ogni angolo del pianeta. Continuate ad abbattere alberi nei luoghi densamente abitati, distruggete intere foreste pluviali, beni comuni insostituibili e occupate i suoli non per il cibo, ma con monocolture agricole industriali solo per ottenere vantaggi economici.
Per lo stesso motivo avete ridotto in schiavitù gran parte dei vostri fratelli animali; milioni di bovini, ovini, suini, galline, oche… imprigionati dalla nascita alla morte in tristissimi lager. Da dove viene questo disprezzo per la vita e questa volontà di morte? Vi prego mettetevi davanti ai vostri figli e ai vostri nipoti; quando guardate con responsabilità al loro futuro non potete che pensare alla loro possibilità di vita, non ai vostri interessi. E con la vita offrire tutta la bellezza, la varietà, l’incontro, il godimento, lo stupore e la contemplazione di meraviglie naturali ancora non contaminate, l’impegno alla ricostruzione degli ecosistemi naturali nei territori dove vivete! Molti di voi si dicono credenti in Dio, ma quale? Quello astratto frutto dell’immaginazione di ciascuno, proiettato lontano in un cielo che non esiste, o quello che si fa carne nella realtà di ogni persona, che è materia vivente e che anima con il suo Spirito tutta la vita in una creazione continua? Per voi non può esistere un Dio senza le sue creature. Potrebbero una mamma e un papà sentirsi estranei alla vita di un figlio? Accogliete la profondità e la sorpresa di questa realtà, che vi rende tutti partecipi di una storia nuova nel vostro piccolo quotidiano e nelle vostre scelte politiche per una comune e diversa alleanza tra me e voi e tra di voi! Comprendete ora perché c’è una grande urgenza, sapendo che l’unico vostro linguaggio che riesco a capire è il vostro comportamento non i discorsi, né le prediche. Non sono una cosa. Sono vostra madre per la vita sempre nuova in tutte le sue espressioni. Ascoltate vi prego il mio grido! Don Albino Bizzotto