La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

domenica 20 settembre 2020

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

Che la logica di Dio, il suo comportamento, siano altri rispetto alle nostre più ragionevoli aspettative; che lo stile del suo agire risulti sorprendente soprattutto per il comune senso di giustizia, emerge con evidenza solare dalla parabola di operai mandati a lavorare nella vigna a ore diverse e ai quali viene corrisposto lo stesso salario, con tanto di mugugno e  protesta da parte di quelli chiamati fin dal primo mattino.

È che il massimo della giustizia consiste, per noi, nel fare parti eguali nella divisione di un bene, anche se i partecipanti alla distribuzione non si trovano nelle stesse condizioni. Ci sembra lo esiga  l’equità canonizzata nell'antico principio: unicuique suum, a ciascuno ciò che gli spetta in proporzione del suo diritto.

Ma Dio, vuol dirci Gesù, non la pensa affatto così. Intanto Dio fa parti eguali fra diseguali. Egli non segue, cioè, criteri meritocratici, di gelida giustizia distributiva: a ciascuno il dovuto secondo i suoi meriti.

Dio non dà secondo il diritto di ognuno, ma secondo il bisogno di ognuno. Appaia a noi ingiusto o no, il comportamento di Dio verso l'uomo non segue il nostro criterioo di giustizia. Non che Dio non abbia provato a far andare avanti il mondo secondo la nostra giustizia. Ma -narrano antichi racconti rabbinici- Dio dovette prendere atto che non funzionava. Nacque allora la sua giustizia, che non ha più come simbolo i piatti della bilancia in equilibrio, ma che pende piuttosto da una parte: è il piatto della misericordia, della gratuità e dell'amore.

La notizia è di quelle eccellenti anche per noi: meglio affidarsi al buon peso della misericordia divina che ai nostri veri o presunti meriti. E poi, chi ci garantisce di far parte del novero dei chiamati della prima ora? Buon per noi, allora, che Dio distribuisce lo stesso salario a tutti, non in misura delle nostre prestazioni, ma del suo amore e del nostro bisogno di vita e di gioia. È una vera fortuna per noi sapere che il rapporto dare e avere Dio lo ha tutto squilibrato a nostro favore, eccedendo nel dare.

Il salario che l'uomo riceve, qualunque sia l'ora della chiamata, non deve mai essere visto soltanto come il frutto della sua fatica. Esso ha sempre dentro di sé una  preziosità nascosta: quella della grazia, del dono e dell'amore di Dio. Il salario di ogni ora è sempre il salario della bontà e della misericordia del Signore.

Compreso così il rapporto Dio-Uomo, probabilmente non sono più idonei i termini con cui la parabola definisce descrivere i due partner della relazione: padrone-servo. Non è, infatti, in questa prospettiva, offensivo o quantomeno riduttivo considerare Dio come un padrone che dà una paga?

Non è più bello vederlo come un Padre che dà un dono? E può l'uomo comprendersi come un freddo prestatore d'opera, per giunta portatore nei confronti di Dio di rivendicazioni salariali?

Quanto più arricchente è sentirsi come un figlio, gioioso di servire per amore! E non è oltremodo gratificante sapere che Dio, pur potendo prescindere da noi, ci chiama a dargli una mano nella vigna del regno? Come è avvilente appiattire soltanto sull'economico ogni rapporto! Com'è triste avere solamente diritti da rivendicare e non favori per cui essere grati...

Ancora due brevi notazioni a margine della parabola. 

Da essa emerge chiara la cattiveria dei cosiddetti giusti. Non capiscono e non tollerano la bontà. Per loro tutto deve avvenire secondo legge. Che Dio ce ne liberi! Un mondo regolato soltanto dalla legge sarebbe infinitamente triste. A conforto, poi, di chi dovesse ritenere che per lui o per i suoi cari non giunga mai la chiamata di Dio, la parabola parla dell'ultima ora del giorno, quella buona per i non ancora chiamati. Nessuno, dunque, disperi della salvezza. Dio è sempre in orario, anche se in ritardo secondo i nostri orologi. I suoi tempi non sono i nostri…


sabato 12 settembre 2020

VANGELO DELLA XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Il segno, per sé e per il mondo, che si è discepoli del Signore non va cercato (non lo si troverebbe!) nel fatto che fra essi non avvengono mai  screzi, incomprensioni e non siano possibili comportamenti non proprio  esemplari di alcuni verso altri. La prova dell'appartenenza alla famiglia di Gesù è soltanto nella capacità di sapersi perdonare reciprocamente rimettendosi le offese. Questo Pietro lo aveva compreso. Il suo è un problema aritmetico, di quantità: sino a quante volte bisogna accordare il perdono? Dovrà pur esserci un limite!

Ancora una volta Gesù spiazza Pietro e la cerchia dei discepoli: il perdono deve essere illimitato o, nel gergo dell'epoca, deve essere accordato "settanta volte sette", cioè sempre.

L'antica legge di Lamech, "Sette volte sarà vendicato Caiino ma Lamec 'settantasette volte (Gn 4,24), è abrogata. Con Gesù vige il condono illimitato, a imitazione di quello che il Padre celeste offre ai peccatori. È questo e nessun altro il metro del perdono che Gesù indica ai suoi:  esagerato,  eccessivo, smisurato, al rischio di approfittamento come ogni vero amore, com'è l'amore di Dio che i suoi figli devono imitare.

Per esemplificare questo suo  esigente insegnamento e perché lo si tenga bene a mente, Gesù narra la parabola del servo spietato e punito perché restio a offrire agli altri la misericordia che pur aveva personalmente e corposamente sperimentato a proprio vantaggio.

Il messaggio del racconto è trasparente: il dovere di perdonare, non ci fossero altre ragioni (e ci sono!), nasce dal fatto che Dio perdona a noi le colpe, se lo supplichiamo. È un dovere di pura e semplice restituzione. E c'e anche convenienza: chi non ha nulla da farsi perdonare da Dio? La nostra ostinazione nel non perdonare, i nostri odi tenaci, chiudendo il ministero della grazia divina attivano quello della giustizia, e il suo titolare, lo sappiamo, vede ombre anche negli angeli...

La spietatezza del servo verso il subalterno si ritorce a suo danno e diventa la misura con cui il giudice ultimo tratterà chi è inflessibile e spietato verso i fratelli.

Per godere e non abusare della misericordia divina, l'unica strada è quella di usare misericordia verso chi ci offende e ci fa del male. Le cose tristi, spiacevoli e disdicevoli che avvengono fra noi sono segno che siamo e restiamo sempre creature fragili ed esposte al male. Se sappiamo  ricomporle con un perdono generoso, è segno che siamo discepoli del Signore. Allora il nostro amore non è più soltanto umano, è divino. Non siamo più noi ad amare, ma è Dio che ama in noi. Diventiamo un po' come Dio e, noblesse oblige, dobbiamo imitarlo nel suo amore perdonante.