La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 30 giugno 2018

DOMENICA XIII del TEMPO ORDINARIO. Riflessioni di Don Pietro

L’ EMORROISSA
Nell’episodio di guarigione vediamo all’opera la potenza di liberazione dal male che agiva in e per mezzo di Gesù.
Emerge anche la sovrana libertà di Gesù rispetto alla legge ebraica del puro e dell’impuro e, più in generale, la sua libertà rispetto alla tradizione.
Il “miracolo” sembra quasi automatico e “strappato” a Gesù, prescindendo dalle sue intenzioni.
Di che malattia soffriva questa donna?
Non di emorragie per un tumore uterino. Questo non dura 12 anni! Di mestruazioni irregolari: fatto, allora, vissuto come tragedia sociale e familiare.

IL TABU’ DELLA FEMMINILITA’, SANGUE E SESSO
Per la legge ebraica la donna era impura per tutta la durata del ciclo.
Doveva avvertire del suo stato il marito e tutti gli uomini di casa perché evitassero scrupolosamente di toccare lei o qualsiasi oggetto da lei toccato, pena il contrarre a loro volta impurità.
Tutto è dettagliatamente fissato nel cap.15 del Levitico e in un capitolo della Misnha giudaica.
Il periodo di impurità iniziava due giorni prima delle mestruazioni e finiva due dopo di esse.
Se il ciclo era irregolare e le mestruazioni imprevedibili, la donna si trovava in uno stato di impurità praticamente permanente. Era come lebbrosa, anzi peggio per via della sfera interessata, quella sessuale. Il marito poteva ripudiarla per sempre senza darle niente. L’emorroissa dell’episodio più che malata è una reietta.
Perché un tale comportamento verso questo fatto “naturale” come il mestruo?
In ogni cultura antica il sangue è considerato una realtà carica di potenza sacra e come sede dell’anima, della vita. Ora ogni potenza sacrale è sempre circondata da tabù, da proibizioni. Così un tabù riguarda il sangue e in particolare quello mestruale per la ciclicità (che lo associa alle forze e fenomeni della natura, ciclici appunto) e per la sua possibilità di trasmettere la vita, per questa sua potenza misteriosa e incontrollabile. Per tutto questo nelle culture antiche il sangue mestruale è considerato portatore di gravissimi rischi per gli uomini, gli animali e le piante: si riteneva facesse perdere agli oggetti sacri la loro sacralità, cioè la loro carica di potenza. Di qui le misure relative alla donna mestruata, considerata e trattata da impura.
IL PURO E L’IMPURO NELLA BIBBIA
L’impurità:
è qualcosa di invisibile e fisico insieme;
è una forza misteriosa che ha il potere di contaminare, esclude cioè dalla sfera del sacro e dell’elezione divina;
è, per questo, condizione come di morte;
è “la forma più elementare sotto cui si presenta a Israele tutto ciò che dispiace a Dio”.
Perciò tanta severità nelle leggi che la regolano. I fatti che la determinano sono essenzialmente quelli connessi alla sessualità e alla morte. Come il sacro, così anche l’impuro è intoccabile. Una volta contratta occorre purificarsi con acqua, fuoco e sacrifici. Con i profeti il concetto del Puro evolve in senso meno materialistico.
LA GUARIGIONE DELL’ EMORROISSA
È un miracolo trasgressivo:
da parte della donna che lo riceve: toccare un uomo rendendolo impuro era colpa gravissima contro la Legge, soprattutto se l’uomo era rabbì o leader religioso.
la donna non si limita a invocare l’intervento di Gesù. Vuole assicurarselo, garantirselo. Ha, per questo, un pensiero concreto, umile e mirato: toccarlo. È convinta che come l’impurità anche la potenza si trasmette per contatto.
La fede di questa donna non è, come spesso la nostra, “mentale”. È legata al toccare, come pienezza di un incontro guidato dalla fede. Non è un gesto magico-superstizioso il suo perché suggerito e guidato da una fede assoluta nella potenza di Gesù. La sua fede che ha la forza di una legge; è consapevolezza profonda che in Gesù è salvezza e liberazione e vuole per se questa salvezza. Attraverso il contatto che ha osato la donna viene risanata. Per la sua fede e il suo coraggio viene anche lodata e chiamata “figlia”. È, cioè, miracolata e salvata.
DALLA PURITA’ ALLA PUREZZA
Nei Vangeli Gesù contesta il carattere esteriore  della purità: ciò che conta è ciò che si ha nel cuore. Gesù è il Puro per eccellenza: senza peccato e intimo a Dio. Nella Sua persona avviene il passaggio dal sacro al santo. La vera purezza non si realizza attraverso un lavoro feroce ed eroico di ascesi bensì attraverso l’adesione totale al programma e allo stile di Gesù.

sabato 23 giugno 2018

Solennità di S. Giovanni Battista. Riflessione di Don Pietro

La predicazione del Battista 

L’inizio della vita pubblica di Gesù, il suo ministero in parole e opere potenti, sono fatti precedere, nei Sinottici, dalla figura di Giovanni Battista, l’austero profeta che per città e villaggi annuncia ai capi e al popolo l’imminente instaurazione del Regno di Dio, la venuta dell’atteso Messia e la necessità di una conversione radicale del cuore e della vita attraverso un rito penitenziale di purificazione : il battesimo nelle acque del Giordano, il fiume cui erano legati eventi memorabili della storia di Israele.
Il primo vangelo nel descrivere la personalità e l’opera del Battista si ispira al testo di Marco aggiungendovi espressioni provenienti dalla “raccolta di detti di Gesù,”  la famosa fonte “Q”. Gli studiosi vi hanno individuato anche tracce di ambiente sacerdotale ed esseno da cui probabilmente il Battista proveniva.
La comunità di Matteo lo tiene in grande considerazione per la sua vicinanza a Gesù di cui è precursore, per l’altissima testimonianza offerta alla Verità col suo martirio e per il messaggio in cui già risuonano accenti che saranno propri del Rabbi di Nazareth.
Del suo annuncio, ricco di suggestioni tutte da meditare, cogliamo solo qualche spunto, attuale per ogni epoca.

“comparve Giovanni il Battista” 

Giovanni Battista : Dio non tace più. Nel mondo torna a risuonare la sua voce. Ancora una volta nel registro della profezia, uno dei doni più grandi che l’uomo possa ricevere. Il silenzio di Dio è insopportabile, sebbene sia sempre un silenzio altamente eloquente. Ma solo per chi, teso e aduso all’ascolto, sa decifrarlo e coglierne il senso profondo e misterioso.
Il profeta, come Giovanni, è parola forte, esplicita di Dio all’uomo e al suo popolo. Una parola espressa prevalentemente attraverso la persona stessa del profeta e affidata più a gesti che a messaggi.
La prima, grande, azione simbolica di Giovanni è la sua rottura con la “città”. Da sempre, nella Bibbia, la città è guardata con sospetto, anche se mai demonizzata. Perché assume il senso della stabilità, in antitesi alla condizione peregrinante più congeniale alla verità profonda dell’uomo, viandante verso l’Eterno. Perché, ancora, la città è sinonimo di organizzazione e potenza, luogo della massa manipolata, della violenza e della libertà amministrata. Per il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, esiste soprattutto il singolo volto nella sua irripetibile fisionomia, affidata al “nome” che Egli solo conosce, non la massa anonima.
Perciò Giovanni rompe con la città e, docile, si lascia sedurre (condurre con sé) dallo Spirito nel deserto, altro spazio altamente evocativo per l’uomo della Rivelazione. Non è un luogo geografico, il deserto. È una dimensione dello spirito. Solo lì, nei lunghi silenzi delle dune, l’uomo, spogliato di ogni vanità e orpelli, può incontrare l’Unico Necessario e in Lui ritrovare se stesso come solitudine tesa all’Incontro. Israele sulla sabbia rovente del deserto, con le sue notti gelide e rotte dall’urlo dei venti, ha conosciuto i morsi amari della tentazione e della prova. Ma anche la consolazione dell’Amante-Amato che ha sussurrato al suo cuore parole di struggente tenerezza legandolo per sempre a sé con giuramento. Giovanni, l’uomo che è tornato al deserto, si fa appello ad ogni coscienza a riprendere il sentiero che vi conduce : la nostalgia di un Amore perduto, bello e impossibile nella città. Occorre decidere, tagliare di netto, sciogliere intrecci e complicità col “mondo”.
Strano approdo – ma del tutto prevedibile – quello della vicenda di Giovanni, il solitario : le folle lo cercano, quasi lo stringono d’assedio, vogliono vederlo, toccarlo, ascoltarlo. Succede al santo, la più grande novità fra gli uomini. Più si nasconde e si nega alla vista e più se ne sollecita l’apparizione, sia pure fugace. Il fascino dell’uomo vero, dell’uomo nuovo! In cui l’invisibile si fa visibile. Fa niente la ruvidezza del tratto, capelli e barba incolti, parole come dardi di fuoco… La verità è irresistibile, anche se solo in forma aurorale, come in Giovanni. Che succederà quanto apparirà il Sole che ora la tenue luce dell’alba giovannea appena e solo annuncia? Allora lasceranno barche, mogli, figli, case e negozi. Per giorni e giorni scorderanno di mangiare e dormire. Batteranno tutte le rive dei laghi, da un capo all’altro…
Perciò è a Lui che Giovanni rimanda. Egli non è che una voce per scuotere gli assopiti. Un semplice dito puntato a indicare obliate direzioni. Un battistrada pronto a farsi da parte non appena si udrà sul selciato il passo di sandali di cui neppure il legaccio qualcuno è degno di sciogliere. Lo spaventa anche solo il pensiero di poter fare ombra alla Luce dirottando su di sé ciò che è solo di un Altro. Gigante di umiltà. Servo vero della Verità. Prima di annunciarla presente, l’ha a lungo frequentata in compagnia dell’amica solitudine, offrendo la carne alla macerazione del digiuno. Per meglio provare la fame dello spirito e per placare l’opaca avidità del corpo che reclama solo il pane, non la parola che esce dalla bocca di Dio.

“il regno è vicino”

Scuotere coscienze intorpidite, perché prede di cose vane, è salutare e doveroso anche. Evocare scenari di fuochi inceneritori, mannaie implacabili e venti che disperdono esistenze rinsecchite come foglie d’autunno, è mestiere d’ogni profeta. Purché si indichi una via di uscita, si prospetti una soluzione. Il Battista, profeta di razza, questo lo sa e ai dannati del suo tempo indica la via per sfuggire all’ira ventura. Una via antica, fin allora mille volte invocata, promessa e attesa, ma non ancora aperta e percorribile : il Regno di Dio. E un giorno, mai più dimenticato dal suo cuore, di quel Regno Giovanni ha l’inestimabile grazia di scorgere la prima gemma. Su un uomo, in fila con i peccatori sulle rive del Giordano, egli vede posarsi lo Spirito mentre una Voce lo accredita come depositario di potenza e forza salvifica. Testimone di un evento, indicibile senza il sussidio di cieli squarciati e ali fragili di colomba, il Profeta proclama l’atteso annuncio : il Regno è vicino e ha il volto di un uomo con fattezze di agnello.
Adempiuta la missione, Giovanni dimostra di possedere anche la non comune virtù di lasciare libero il campo perché lo occupi Colui cui solo appartengono regno, potenza e gloria nei secoli. All’amico dello Sposo compete solo di preparare la festa di nozze. Poi deve farsi da parte, per non fare ombra a “Colui che deve venire”. È lui il Regno. È lui il Signore che regna. Chiunque altro non si monti la testa : è solo un “preparatore” del Regno che viene sempre per libera e gratuita iniziativa di Dio. Gli occhi dei destinatari del Regno vanno orientati solo sull’Unico che lo possiede. Ogni altro scompaia, riconoscendo di essere solo un indice puntato, una freccia che indica una “Direzione” che è altrove.

Una vera comunità credente sa riconoscere il limite del proprio servizio : essere semplice strada al Cristo, relativa e mai assoluta. Se non ridimensiona la sua importanza, non aiuterà i suoi membri a incontrare Colui che solo salva.

venerdì 15 giugno 2018

Riflessione al Vangelo della XI Domenica del T.O. Don Pietro

La parabola del seme.

1. Solo Marco riporta questa parabola che è semplice solo all'apparenza. Con essa l'evangelista vuol farci capire qualcosa del mistero del regno di Dio.
Secondo alcuni si sottolinea il processo di crescita. Secondo altri si parla della  mietitura.
Ma il protagonista è il seme e sopratutto la sua forza vitale, la sua intrinseca potenzialità.
Questo seme è una realtà minuscola e debole, eppure diventa la cosa più forte. Dunque in questa parabola l'interesse non è per il contadino, la cui opera è certamente necessaria; né ci si occupa dei vari tipi di terreno che,certo, condizionano il risultato finale della semina.
L’ attenzione è rivolta alla forza insita nel seme, una forza indipendente dall'azione dell'uomo e dal suo sapere.  “come egli stesso, non lo sa ". Questa non è la parabola della pazienza del contadino, della speranza come sedativo contro l'insonnia e gli affanni.  Insomma quì non si parla dell'uomo né si esalta la calma e la fiducia. Si parla del seme con un preciso invito a scoprirne l'azione e la potenza.

Il seme è la parola di Dio. La parabola vuol dirci che questa parola è viva, è efficace e, indipendentemente dall'uomo, possiede una forza interna, irresistibile. La parola di Dio proclamata fa sempre succedere qualcosa.
Anzi è essa stessa avvenimento, fatto.

Quando accade la parola -è questo il fatto decisivo- il regno di Dio si fa presente, avviene. E questo per la potenza di Dio, non per l'azione dell'uomo. Questo regno, come il seme, cresce e lavora anche se pare non succeda niente e tutto sembra rimanere come prima. Allora il messaggio centrale della parabola può riassumersi così:

        il seme possiede da sé, dentro di sé, una potenza vitale che      prescinde dalla pur necessaria attività del contadino e dalla condizione del terreno.

2. Il credente, come il contadino, questo lo sa. Anche se non sa come il tutto accade. Il credente, cioè, sa del regno, conosce la sua presenza, avverte la sua azione, ma ignora come il regno di Dio si va lentamente facendo, matura dentro le zolle della terra.
Stupore i rispetto ci vogliono  dinanzi a questo accadimento. Occorre mettersi in ginocchio, non essere indaffarati, curvi a controllare o, peggio, a manipolare.

3.  La parabola non è molto amata e usata dai predicatori, proprio perché non presenta spunti pratici, non contiene inviti all’azione e all'impegno. E si sa che certa gente se non assegna agli altri dei compiti si stende disoccupata. Se non dice agli altri cosa devono fare e cosa non devono fare, si sente inutile. Questa parabola non dice cosa dobbiamo fare o non fare: dice solo cosa sta facendo il seme.
Il contadino, dopo aver fatto tutto quello che era necessario, adesso deve lasciar fare al seme ed è l'azione più difficile da compiere.

4. Ne segue che il cristiano non è colui che costruisce il regno, lo programma, o ne dirige i lavori. E solo uno che offre delle possibilità al regno di accadere. E non c'è dubbio che la possibilità più apprezzata da Dio è quella di non intralciare l'opera del seme.
La preoccupazione principale dei credenti non dovrebbe riguardare la propria azione, ma dovrebbe essere quella di consentire al seme di sviluppare le sue infinite potenzialità, nel rispetto delle sue modalità e dei suoi tempi di crescita. Senza forzature o interventi inopportuni.

5. Del seme potente si sottolinea la piccolezza, contro ogni tentazione di  grandiosità, di numero, di efficienza. Come pure si sottolinea la forza autonoma contro la tendenza a procurargli garanzie, alleanze, privilegi.
Allora per il Signore i valori autentici, contro ogni logica umana, sono quelli della piccolezza, dell'oscurità, della debolezza, della povertà, della mancanza di appoggi umani.
Dio sceglie le realtà più umili per realizzare i suoi grandi disegni. Egli non ha bisogno dell'albero alto e vuole invece innalzare l'albero basso. È il gioco preferito di Dio

6. “Come egli stesso non lo sa”.
Il contadino non ci capisce niente. È il grande sorriso di Dio sulla Chiesa. Dovrebbe essere anche il nostro. Anche noi non ci capiamo niente. Una semente doveva germogliare e non è germogliata e viceversa;in  un cattivo terreno un seme gettato male produce ottimi frutti e viceversa. La semente ha una sua storia indipendente da noi. Può germinare laddove niente dovrebbe crescere. La ragione della debolezza e della potenza del seme è l'amore infinito Dio. Se per amore  Dio diventa debole, questo amore è anche ciò che c'è di più forte. L'amore può cambiare il deserto in un giardino. L'amore rende possibile l'impossibile. La scienza si occupa solo del possibile. Ma deve fermarsi dinanzi all'amore di Dio. Di esso non capiremo mai niente, né mai sapremo come agisce

sabato 9 giugno 2018

Riflessione al Vangelo della X domenica del Tempo Ordinario. Don Pietro

Gesù è ritenuto pazzo dai suoi parenti ed è ritenuto indemoniato dagli scribi.
In effetti Gesù è fuori dalla norma comune e dalla norma religiosa. Egli infatti si dedica a chi non è suo parente, e non ha nemmeno il tempo per mangiare.

A. L'atteggiamento dei parenti

Sono interessati per la persona fisica di Gesù ma rifiutano totalmente il suo progetto. Gesù è oggetto della loro sollecitudine ma non è riconosciuto come soggetto autonomo di decisioni.
Al buon nome della famiglia essi sacrificano le esigenze della persona di Gesù.
Dicono di Gesù: è fuori di sé e  invece dovrebbero dire: è fuori di noi, cioè fuori dai nostri modelli, dalle nostre visioni, dai nostri criteri.
Sovente, riconosciamolo, anche noi amiamo le persone alla maniera dei parenti di Gesù. Cioè li ricattiamo con l'affetto e imponiamo loro i nostri schemi.

B. Gli scribi

Sono allarmati per la fama che si sta creando intorno a Gesù. Sono preoccupati per l'ortodossia che Gesù sembra violare. I fatti eccezionali che accompagnano la sua predicazione  possono provenire dal Maligno.  Ma come è possibile  che Gesù sia nello stesso tempo indemoniato ed esorcista?
L'insinuazione contro Gesù è comunque tale da far presa  sul popolino
Gesù replica: Il regno del maligno  traballa non perché Satana si è messo contro se stesso, ma perché è giunto Uno che è più forte di Satana.
L'amore disinteressato di Cristo verso Dio e verso gli uomini è più forte dello spirito di egoismo del maligno, lo vince e gli strappa il mondo di cui abusa
Sulla croce quell'amore raggiunge la pienezza e sulla croce Cristo lega il maligno, lo tiene in proprio potere e gli sottrae la sua roba, cioè gli uomini.
Ancora qualche parola sul comportamento degli scribi
Scendono da Gerusalemme con in mano i testi della verità codificata. Tutto ciò che non è contemplato nei loro codici è squalificato come erroneo e/o diabolico.
Certo tutto ciò che è nuovo, non è amato dai sacerdoti dell'ordine, della sicurezza, della regolarità e va etichettato come sospetto e pericoloso.
Succede anche oggi.   Un accenno alla giustizia e ti accusano di marxismo. Avanzi una critica sofferta alla Chiesa e ti accusano  di infedeltà. Pronunci una dolorosa denuncia e ti accusano di fare il gioco del nemico. Insomma basta pensare per essere considerato e tacciato come una testa calda.

2. “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, dice Gesù

Questa è una parola scandalosa che mette in crisi la nostra immagine di famiglia. Secondo la logica nostra bisogna amare solo i propri,  non amare tutti e in particolare non bisogna amare i  nemici. Ma nel Samaritano Gesù elogia l'amore proprio verso uno straniero-nemico non l'amore verso il proprio familiare.
L'amore va misurato e dato sul grado di necessità del prossimo non della  parentela. C'è una concezione della famiglia che non è affatto cristiana, se esclude gli altri. Ricordiamo che Gesù non aveva una pietra su cui poggiare il capo, non celebrava ricorrenze familiari, non diramava inviti e non voleva regali.

3. L'avverbio fuori

Di Gesù si diceva che era fuori di sé. In effetti tutta la vita di Gesù si svolge sempre fuori: nasce fuori paese e fuori casa; si lascia trovare dai Magi che vengono da fuori; va in esilio, fuori della sua patria; morirà fuori della città e se qualcuno lo  cerca   nel sepolcro, è già fuori.
È più facile dire dove non lo troviamo che dove possiamo trovarlo.
Non lo troviamo dove ce lo  aspettiamo che sia, e viceversa.
Non lo troviamo dove pretendiamo metterlo noi. Perciò: occorre non decidere frettolosamente chi è dentro e chi è fuori. Dentro e fuori sono categorie che fissiamo in base a luoghi che abbiamo costruito noi. Solo dopo aver accertato dove è  lui possiamo stabilire chi è dentro e chi è fuori.

4.  Il cristiano è un fuori di sé.

Purtroppo sono pochi i cristiani devianti, irregolari, esagerati.
Pochi  cristiani sono disposti a rimanere fuori da mode, da ideologie, da competizioni, da vanità, da protagonismi, dal buon senso. Molti cristiani, purtroppo,bussano per entrare nelle porte del potere, degli affari, della carriera, della popolarità, dello spettacolo.
Eppure la follia di Cristo dovrebbe essere la malattia ereditaria della famiglia cristiana.
Accettare lo Spirito significa essere fuori di sé, fuori dai calcoli, fuori dalle prudenze carnali, fuori dalle paure, dalle diplomazie, dalle ipocrisie, dai tatticismi.
La bestemmia contro lo Spirito Santo è il rifiuto della luce e il rifiuto della follia che sono componenti essenziali della sequela di Cristo.
Non si può seguire Cristo senza perdere la testa.
Non si può incidere sulla realtà con la ragionevolezza: bisogna essere segno di contraddizione, un po' folli cioè.
Sono tanti i Santi che sono stati riconosciuti tali propria motivo della loro follia.
Senza follia il cristianesimo diventa un trattato di belle maniere, di bon ton, diventa comportamento morale anzi moralismo, ritualismo o arte della politica e della diplomazia. Solo i folli si salveranno,  i diversi, gli insolenti, i non programmabili.

venerdì 8 giugno 2018

Per non restare indifferenti alla morte di un essere indifeso: Soumayla Sacko

Fra tutte le drammatiche voci che si sono levate nella piana di Gioia Tauro dopo la morte di Soumàyla Sacko, una più di tutte mi ha colpito. Diceva: «Ci trattano come animali». Qualche sinonimo? Dice il dizionario: bestie, belve. E il contrario? Esseri umani. Tutto torna: noi uomini siamo contrapposti a loro, per statuto naturale, siamo drasticamente diversi. Animali loro, uomini noi. Ebbene, è di questa parola che dovremo allora occuparci, non fosse altro per capire i termini elementari della questione. Che cosa diamine significa essere animali? L'animale è quella creatura che, pur vivendo, è sprovvista costituzionalmente di anima, per cui si differenzia da te che stai leggendo, definito invece come entità spirituale, dotata cioè di un principio trascendente e mistico, tale da elevarti dalla caducità del corpo. In sintesi: l'animale muore davvero e totalmente, mentre tu no, tu in o qualche modo sopravvivi sempre. Insomma, in linea teorica, l'animale Soumayla Sacko sarebbe del tutto morto con il proprio cadavere, laddove invece la componente eterea di Pol Pot o del dottor Mengele aleggerebbe da qualche parte più o meno sprovvista di ali. Sembra una disquisizione dottrinaria, ma è il principio basilare su cui si fonda lo schiavismo. Dubbi? Pensate a quello che accadde quasi cinque secoli fa in una località della Spagna di nome Valladolid, dove fu convocato dall'imperatore Carlo V un congresso di eminenze grigie, proprio per risolvere un dilemma: gli indigeni schiavizzati nelle Americhe avevano o non avevano l’anima?
Altro che  disputa teologica: il punto sostanziale era che un essere dotato di anima apparteneva alla famiglia di Dio, e manco per nulla si poteva frustarlo, marchiarlo, sfruttarlo, affamarlo né tantomeno ucciderlo senza ricadere nel quinto comandamento. Animali o uomini? Sarà che per legittimare la sottomissione era necessario un alibi di ferro, che stesse al di là delle opinioni e riguardasse  la  natura stessa del padrone e del servo, ponendo fra i due una differenza sostanziale e invalicabile, contro la quale - non per caso - l'unica reazione possibile furono i bagni di sangue come quello capeggiato da Nat Turner nella Virginia del 1831. Ovviamente, all'indomani del massacro, gli schiavi insorti furono accusati di violenze bestiali, ma verrebbe da chiedere dove stesse la sorpresa, dal momento che per secoli si era goduto dell'equazione fra schiavo e bestia. Già, perché sapete come era andata a finire la disputa a Valladolid? Con un niente di fatto: verdetto sospeso, meglio lasciar perdere per evitare il tracollo economico delle colonie. Si preferì la nebbia, dentro cui tutto si confonde. E allora cerchiamo una buona volta di diradarla questa coltre di opportunismo vigliacco, cominciamo emettendo noi - forte e chiaro - il verdetto che a Valladolid non si ebbe il coraggio di pronunciare, e che da cinquecento anni sprofonda nell'omertà milioni di morti. Basta con le perifrasi, basta con i distinguo: a Gioia Tauro i Soumayla Sacko possiedono un'anima, sono esseri umani perfettamente identici a chi ne predica la bestialità per tradurla in banconota o per incassare fola dei nipotini social del Ku Klux Klan. Sarà bene che chiunque si ritenga democratico o liberale faccia risuonare queste parole n ogni sede, ivi compresi i bar, le edicole e le fermate del bus dove più spesso si annida il germe patogeno che stermina poi le masse. Il silenzio non possiamo più permettercelo: non è un'astensione, ma il tacito avvallo a una sentenza di morte.
Articolo di Stefano Massini

sabato 2 giugno 2018

Riflessione sulla Solennità del CORPO E SANGUE DI CRISTO. Don Pietro

1. “Prendete, questo è il mio corpo…”
Con queste parole Gesù assegna al pane che spezza con i suoi amici una funzione che non è più quella di semplice nutrimento fisico, ma quella di rendere presente la sua persona in mezzo alla comunità dei credenti. Il gesto che Gesù compie nell’ultima Cena è anticipazione dell’evento salvifico che si compirà da lì a poco sulla Croce. La Cena di Gesù è, cioè, proiettata sul futuro, sulla nuova Pasqua, a differenza di quella ebraica che è volta al passato. Le parole di Gesù potrebbero parafrasarsi così: questo pane spezzato rappresenta la mia vita donata, offerta in sacrificio. Sono io che mi dono nel segno del pane e del vino.
SPIEGAZIONE
La Cena, dunque, contiene nei gesti di Gesù la spiegazione del significato della sua esistenza: una vita, cioè, messa a disposizione del Padre e espropriata liberamente a vantaggio di tutti gli uomini.
2. La meta cui Dio tende fin dalla creazione e che in Cristo finalmente raggiunge è stabilire un rapporto di intimità con la sua creatura, l’uomo, fare comunione con lui. Ebbene, tutto questo si realizza pienamente nella Cena eucaristica: Dio fa comunione con noi e ci invita a fare comunione tra noi. Perciò si parla di pane condiviso, di vino bevuto insieme.

COMUNIONE TRA NOI

Quando noi prendiamo e mangiamo il pane eucaristico, non solo entriamo in una comunione profonda con Gesù, ma ci impegniamo anche a realizzare la comunione tra di noi, cioè a trasformare la nostra vita da possesso in “dono”.
3. Quando Gesù benedice il calice fa un chiaro riferimento al rito compiuto sul Sinai (Mosè che prende metà del sangue e con esso asperge l’altare, mentre con quello rimasto viene spruzzato il popolo); ma annuncia anche che con la sua morte in croce si inaugura, grazie al sangue versato per “molti”, cioè per una moltitudine, una nuova alleanza e quindi nasce una nuova comunità. Gesù, cioè, proclama che l’evento antico giunge alla sua pienezza, al suo compimento. Noi diventiamo, nel sangue di Cristo, il popolo dell’alleanza. Un’alleanza che, ancora una volta, nasce dalla libera e gratuita iniziativa divina. Noi, anche se ci impegniamo a rispettare i patti, non siamo contraenti a pieno titolo ma beneficiari. L’alleanza non si colloca sul piano dello scambio, ma su quello del dono, del ricevere. È un patto stretto nel sangue del Figlio sparso, cioè dell’amore fedele fino alla morte.
4. La celebrazione del Corpo e Sangue del Signore deve aiutarci a cogliere la distanza colpevole esistente tra i significati dell’Eucarestia e la nostra vita cristiana.

RESO INNOCUO

Innanzitutto dobbiamo chiedere perdono non solo del cattivo uso che facciamo del dono ricevuto dal Signore, ma anche per averlo reso troppo spesso innocuo, irrilevante a livello esistenziale. Troppe Eucaristie cui partecipiamo lasciano le cose come prima: dentro e fuori di noi. Se c’è una profanazione del Sacramento, c’è anche, altrettanto grave, una sua non utilizzazione. Un’eucarestia ridotta a semplice rito, a pratica, che non cambia nulla, non trasforma la realtà, anzi legittima lo stato di cose esistenti (uno che ha fame, e l’altro è ubriaco, 1 Cor. 11, 21) è un’Eucarestia dissacrata, depotenziata. Altre volte cerchiamo disinvoltamente di conciliare la partecipazione al banchetto eucaristico con le divisioni e le beghe astiose tra noi, l’ortodossia delle formule con l’eresia dei comportamenti, la difesa della verità con l’offesa alle persone. succede anche che nell’Eucarestia inneggiamo alla “vittima pasquale”, epoi nella vita ci schieriamo, magari solo con un silenzio complice, dalla parte dei torturatori e ci mettiamo in compagnia dei carnefici. Non vogliamo, cioè, capire che la Pasqua del Signore cui prendiamo parte ci impegna come Cristo a far dono della nostra vita, non a minacciare o spegnere quella degli altri. Soprattutto dobbiamo confessare una nostra colpa fondamentale: come il popolo dell’Esodo ci affrettiamo a dichiarare solennemente “Tutti i comandi ci ha dato il Signore, noi li eseguiremo” e poi dimentichiamo regolarmente che il comandamento unico è quello dell’amore e che le parole da fare sono quelle della pace, della giustizia, della fraternità, del rispetto, della tolleranza. Quando noi partecipiamo alla Cena conviviale del Signore, siamo associati al suo destino, coinvolti nella sua morte. “comunicarsi” in questa prospettiva significa essere condannati, messi a morte con Cristo. Quando si riceve l’Eucarestia dovrebbe diventare impossibile la fuga. Partecipare al banchetto eucaristico rappresenta un preciso dovere a essere presenti ovunque l’Uomo soffre. Non possiamo comunicarci ed essere poi assenti, disertori degli impegni terrestri. Il Maestro non resta sempre seduto a tavola: esce fuori, affronta il buio. Dobbiamo seguirlo, altrimenti comunichiamo con una assenza. L’Eucarestia non è solo stare con Lui al calduccio, ma lasciarsi portare con Lui, nel vento gelido della notte, delle contraddizioni, della lotta. Non è tenere, ma darsi. C’è qualcosa di peggio che non credere alla presenza reale. Ed è credere ad una presenza reale “rassicurante” che non ci porti a “perdere” la nostra vita, a comprometterci per Dio e per i fratelli.