La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

venerdì 27 aprile 2018

LA RIFLESSIONE SULLA DOMENICA V DI PASQUA. Don Pietro

1. "La Chiesa  era dunque è in pace... Cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito."

Stupisce l'affermazione sulla "pace" nella Chiesa delle origini cristiane, appena dopo la descrizione dei grandi problemi e delle difficoltà che essa pure incontrava: la paura di Paolo, ex nemico e persecutore, le minacce di morte a Paolo…
La spiegazione è "nel timore del Signore" che la Chiesa aveva e nel conforto dello Spirito che la colmava.
Anche nei conflitti e nelle anguste la Chiesa è serena se è animata dalla preoccupazione di piacere solo al suo Signore e se si lascia colmare dallo Spirito di Dio.
Come è stata la vita di Gesù: sofferenze e prove sempre vissute nella fedeltà al Padre e con la serenità e la forza dello Spirito. Così deve essere anche la vita della Chiesa.
Ed anche la nostra vita personale è immersa nella stessa logica.
Pace è fidarsi della fedeltà di Dio, nonostante le apparenze contrarie.

2. Ma perché le prove?
"... ogni tralcio che porta frutto (il Padre) lo pota, perché porti  più frutto…".

La potatura è dolorosa. Può apparirci una crudeltà, ma Dio la fa per amore: perché il tralcio porti più frutto. E’ qui il senso dalla sofferenza: la vite piange perché potata, ma proprio perché potata porta frutto e  più è potata e più porta frutto. La nostra cultura aborrisce il dolore, la sofferenza, il sacrificio. Perché non sa che il dolore è il prezzo delle cose.
Eppure sappiamo tutti che ciò che vale molto costa anche molto...
Pensiamo al grande valore, per esempio, dell'amore materno: è grande se costa molto.
Inoltre il dolore e la sofferenza presenti nella nostra vita sono il segno che qualche cosa non funziona, a livello biologico, psicologico e relazionale.

3 "Rimanete in me".

Questa esortazione è ripetuta per ben tre volte.
La condizione per portare  frutto non è nel nostro industriarci  e nel darci da fare. No! È nel rimanere in Cristo. È l'essere uniti alla vite che ci consente di portar frutto.
In cosa consista questo "rimanere in lui" è detto subito dopo: "se le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato"..
"Chiedete quel che volete...": la domanda vera di ogni uomo, quella  che corre dentro le sue domande contingenti, è la domanda prima e ultima:  "Perché ci sono, mentre potrei non esserci?” La ragione, a questa domanda,  può fornire poche risposte e comunque non in grado di trovare il senso complessivo della vita.
Ma la fede, che certo non è supplenza alla oscurità della stagione, una fede nutrita e generata dalla Parola di Dio ci dà una risposta grande nel contenuto, ma povera nella forma.
E il luogo in cui la Parola di Dio incontra l'uomo è la vita stessa dell'uomo, il luogo cioè della libertà e della imprevedibilità.
Il luogo, cioè, della contraddizione: l'essere progetto, il suo tendere costantemente ad andare oltre e scoprirsi contemporaneamente avviato inesorabilmente al nulla e alla more.
È la contraddizione perenne del vivere: l'inconciliabilità tra l'esigenza di felicità, di completezza, di pace e il vivere costantemente nella provvisorietà dell'esistenza, nella lotta quotidiana per sopravvivere.
In questo tormento del quotidiano la fede dà risposta alla insaziabile domanda dell'uomo. Una risposta sempre problematica, legata come è da una parte alla roccia della Parola di Dio e dall'altra esposta al fluire e al variare del tempo in cui quella Parola diviene udibile.
Questo discorso vale anche per la Chiesa.
Al di fuori della fede essa diventa istituzione ingombrante e inutile, mera sovrastruttura che la storia si incarica di spazzare via.
È il vuoto della fede, la "non-opera" del credere che rende la Chiesa giustificata di fronte a Dio e agli uomini.
E il frutto che la Chiesa deve portare al mondo è solo questo: annunciare l’evangelo che è Gesù Cristo.
Solo annunciare, non costringere con argomenti umani, non fondare società o sistemi.
E l'annuncio della Chiesa non può che essere profezia, testimonianza della Parola di Dio e progetto di un futuro sempre più umano per ogni creatura. Anche la Chiesa ha il compito di vivere in una perenne contraddizione: da una parte deve predicare la perenne Parola di Dio come profezia, dall'altra deve vivere in attento ascolto dell'uomo per sapere ove indicare a Dio l'esercizio della misericordia.
Se non ascolta Dio, la Chiesa rischia di parlare di sé.
Se non ascolta l'uomo, rischia di parlare sopra le teste, di parlare al vento e non alle coscienze.

4. Dio è fedele?

L'altra domanda -questa volta del credente- riguarda la veracità della  promessa di Dio, in un tempo di ritardo e di silenzio di Dio.
Se il Regno tarda venire, possiamo ancora credere che Dio mantiene la sua promessa? Una  risposta è possibile solo a partire dalla memoria e dall'esperienza passata della fedeltà di Dio al di là delle apparenze contrarie.
Israele spera nel futuro promesso sulla base della memoria di quanto il Dio fedele  ha già operato.
Per la Chiesa è Gesù il contenuto fondamentale di quanto Dio ha già operato.
Questa fede, fondata sulla fedeltà passata di Dio, non elimina la logica propria dell'incredulità: il dubbio che Dio continui nella sua fedeltà alla promessa oppure no.
È questa la crisi della fede, questa lotta quotidiana tra fede nutrita dalla memoria della fedeltà Dio e il dubbio nutrito dalle ragioni dell'incredulità.
Questa crisi non è eliminabile. Però la Scrittura mette in guardia dal compiacersi in essa civettando con l'incredulità.
Se non vogliamo restarne ipnotizzati non dobbiamo concentrare il nostro sguardo sulle ragioni della non fede.
Gesù ci indica la strada della preghiera costante e incessante perché il Dio fedele ci faccia vedere almeno un barlume del Regno promesso.

venerdì 20 aprile 2018

Lettura del Vangelo di questa DOMENICA IV DI PASQUA. Don Pietro

1. “Io sono il Buon Pastore” (Gv 10, 11-18)

Gesù non dice “Io sono il buon Re”, pur avendone il diritto, essendo il Figlio di Dio.
Quella del pastore era una condizione sociale molto umile.
Il pastore ricopriva una grandissima responsabilità rispetto al gregge: doveva radunare le pecore, accudire a quelle malate, curare quelle ferite, cercare le smarrite, difendere tutte da predatori e animali selvatici, condurle all’erba fresca e, a sera, all’ovile…
Il pastore viveva con, per, in mezzo al suo gregge.
I suoi requisiti dovevano esser l’umiltà, la forza, l’autorità, il coraggio e la tenerezza.
Gesù non si proclama solo pastore, ma dice di essere un pastore buono. In greco Kalòs significa non solo buone, ma anche bello, nobile, idoneo.
“Il buon pastore è pronto a dare la vita per le pecore”.
Gesù afferma qui un principio di carattere generale.
E la vita ( psyché, in greco) cui egli allude è la vita in pienezza, tutto se stesso.

2. Il  mercenario

Questi fa il lavoro solo per denaro. Non difende le pecore dai pericoli e non ha amore per il gregge.
E’ nella parola di Gesù l’esatto contrario del pastore buono e bello.
Alla bontà, alla bellezza, alla dolcezza, il mercenario contrappone la viltà, la cattiveria, la malvagità.
Egli non è pastore, perciò scappa e il gregge si disperde.
Anche Platone, nel 400 circa prima di Cristo, né “La Repubblica”, in un serrato dialogo con Trasimaco descrive il buono e il cattivo pastore. Il buono è capace di sapiente guida politica per lo Stato perché, a differenza del cattivo, persegue il bene comune.

3. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me e per esse io dò la vita”

Nessuna pecora è esclusa dall’amore del pastore buono e bello.
La sua conoscenza delle pecore non è fredda, teorica, ma è esperienza profonda, come quella cha egli ha con il Padre. Una conoscenza che equivale ad intimità e unità. Una conoscenza  che arriva al dono totale di sé

4. “Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile. Anche di queste io devo diventare pastore”

Per Gesù tutti i recinti in cui sono rinchiuse le altre pecore perdono di importanza: quello cattolico, protestante, ortodosso, islamico, buddista…
L’importante è che ascoltino la sua voce e diventino un unico gregge, pur in recinti diversi. Sotto l’unico pastore che è Gesù e nessun altro.

5. “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita e poi la riprendo. Nessuno me la toglie: sono io che la offro di mia volontà. Io ho il potere di offrirla e di riprenderla: questo è il comando che il Padre mi ha dato”.

Dal tema del pastore Gesù passa a quell0o della morte e risurrezione.
Il pastore, al  massimo, può dare la vita per le pecore. Gesù ha il potere  /exousian echo) di riprendersi la vita dopo averla liberamente offerta.
Gesù non muore perché ucciso dagli uomini o sacrificato dal Padre: muore liberamente, per amore.

6. “Buon Pastore”, fede e vita cristiana

a. Il “buon pastore” è tra i simboli più amati dalla cristianità e questo fin dalle origini come testimoniano i reperti archeologici delle Catacombe.
E’ un’immagine molto presente nella Bibbia, cia nel Nuovo che nell’Antico Testamento.
E’ molto consolante e bello sapere che Gesù ci conosce,conosce la nostra storia con i suoi problemi, le sue gioie, i suoi dolori, i suoi dubbi.
               b. Ma, ugualmente, l’immagine del pastore evoca non solo tranquillità e
              pace, bensì anche violenza, divisione e morte.
              Il pastore Gesù è presente anche in momenti di crisi.
Prima del discorso sul “buon pastore” c’è il racconto della guarigione del cieco nato e della tumultuosa discussione che ne segue.
Dopo tale discorso Giovanni nota che “la folla si divise di nuovo” e più avanti che alcuni raccolgono di nuovo pietre per scagliarle contro Gesù e cercano di nuovo di catturarlo.
Si parla dunque del buon pastore in un contesto di violenza, di attentati, di divisioni e contestazioni. Eppure in tale clima si può credere al buon  pastore. Infatti al v. 42 Giovanni nota “E da quelle parti molti cedettero in Lui”.
c. Buon Pastore, morte e risurrezione
    Gesù è buon pastore non solo perché acquieta ansie, infonde coraggio         
e fiducia, perché solleva il cuore.
Ma lo è soprattutto per spezzare il cerchio della necessità in cui siamo stretti e intrappolati, nel peccato, la nostra condanna a morte.
                d. Gregge non ovile
Gesù si interessa del gregge delle persone, non dell’ovile, cioè della struttura ecclesiastica. E Gesù cerca ogni persona perché il gregge sia completo.

venerdì 13 aprile 2018

Riflessione sulla Domenica III DI Pasqua. Don Pietro

La nostra esperienza del Risorto

1. Conoscenza non ”carnale” del Cristo.

Nel tempo della Chiesa la conoscenza e l’esperienza del Signore Gesù è nuova rispetto a quelle vissute dai discepoli prima della Risurrezione.
Paolo scrive (2 Cor 5,16-17): “… ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne. E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Cosicché, se uno è in Cristo, è una creatura nuova. Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”.
La conoscenza del Cristo, dopo la Risurrezione, non avviene più “secondo la carne” ma è “nuova” perché in noi è avvenuta una trasformazione: “in Cristo siamo creature nuove”. Se Gesù è entrato in una condizione nuova (gloriosa, spirituale, sciolta dal tempo e dallo spazio), anche i nostri occhi che lo guardano sono nuovi. Naturalmente il Gesù storico non è dimenticato e cancellato, è solo compreso diversamente, non più “secondo la carne”.
E’ “conoscenza secondo la carne” quella che non sa cogliere la presenza di Dio nella vicenda di un uomo crocifisso.
- La “conoscenza secondo la carne” è la conoscenza senza fede e, come aggiunge Paolo, quella di “chi vive per se stesso”. Una tale persona (chiusa nel suo io) non potrà mai comprendere la vicenda di Gesù che, proprio nel dono di sé, ha svelato all’uomo il volto di Dio.
- E’ ancora “conoscenza secondo la carne” quella che non sa cogliere l’universalità dell’evento Gesù ma lo chiude nelle circostanze storiche e culturali che l’hanno accompagnato.
- E’, infine, “conoscenza secondo la carne” una lettura entusiastica, emotiva, della figura di Gesù, come facevano i carismatici di Corinto, staccando il Cristo dalla vicenda di Gesù.
La conoscenza “nuova” di Gesù, Cristo, è quella resa possibile dallo Spirito e nello Spirito nel quale il Signore ora, solo, può farsi presente.
E’ lo Spirito che permette ai discepoli di cogliere sia l’identità tra Gesù e il Cristo, sia i tratti di novità e differenza del Signore risorto. I discepoli non sono in grado di riconoscerlo da soli, né subito. Tocca a Gesù stesso farsi riconoscere negli stessi tratti che Egli ha manifestato nella sua vita terrena: la carità, il dono di sé, la Croce.
Nei vangeli sono indicati con chiarezza “i luoghi” in cui, nel tempo della Chiesa, è possibile incontrare il Signore:
- nel pane spezzato e donato e nel vino distribuito ( Mc 14,22-23).
- nell’accoglienza dei piccoli (Mc 9,37).
- nella comunità radunata nel suo nome (Mt, 18,20).
- nell’ascolto della parola degli Apostoli.
- nel servizio concreto “ai suoi fratelli più piccoli” (Mt 25,31ss.).
- nell’attività missionaria (Mt 28,20).
Sono tutti luoghi che indirizzano verso la Parola, il Sacramento, la trama delle rivelazioni. E non pare ci siano inviti a cercare il Signore nella profondità di se stessi, nella speculazione, o nell’ascesi.
- L’evangelista Giovanni, presentando la Croce come la più alta epifania di Dio, sottolineando il sangue e l’acqua (= Spirito e Sacramento) che escono dal costato del Crocifisso e ricordando le Scritture, ci indica la coordinate necessarie per una “nuova” conoscenza del Signore: la memoria (attraverso le Scritture), il Sacramento e lo Spirito.
E Giovanni aggiunge però che la memoria diventa vero luogo di conoscenza solo se è accompagnata dalla sequela: “Da questo conosciamo di essere in Lui: chi dice di dimorare in Cristo deve camminare come Lui ha camminato” (1 Gv 1,56-6).
Tutto questo rende “trasparente” agli occhi del discepolo la vicenda storica di Gesù, la rende cioè luogo in cui scorgere la presenza della “gloria” di Dio.
Questo, però, a condizioni:
- la continuità e il collegamento con chi ha incontrato materialmente Gesù.
- lo Spirito che fa comprendere in pienezza le parole di Gesù.
- l’appartenenza ad una comunità di credenti che amano il Signore e praticano la sequela riattualizzando nella propria vita la logica dell’esistenza di Gesù.

2. L’esperienza del Risorto.

Nella Pasqua avviene sia il darsi definitivo di Dio alla sua creatura, sia la trasfigurazione definitiva della condizione di morte e di peccato dell’uomo nella condizione di riconciliazione e di piena partecipazione alla vita divina.
In Cristo, morto e risorto, si realizza l’incontro pieno tra Dio e l’umanità. Nel Risorto Dio porta a compimento il suo piano d’amore per la creatura, anticipando in Lui il destino di ogni creatura.
E questa estensione ad ogni creatura di quanto è già avvenuto nel Risorto si compie ogni volta nelle celebrazioni sacramentali.
Nella celebrazione sacramentale Gesù assimila al suo destino la vita di ogni uomo, la incontra nelle diverse situazioni di gioia e di dolore, di fatica e di speranza, di grazia e di peccato.
L’uomo da parte sua condivide le situazioni di morte e risurrezione del Signore.
E così si celebra quell’unico mistero con cui Dio ha voluto intrecciare la sua vita divina con la vita e la morte di ogni uomo limitato e finito.
L’uomo offre a Dio il suo vivere quotidiano segnato dalla morte; Dio fa sua l’oscurità di ogni morte e di ogni morire dell’uomo e fa risplendere in essa la sua stessa vita trasfigurando la creatura. Nei sacramenti allora: c’è la kenosi (l’abbassamento-annullamento) di Dio e la divinizzazione dell’uomo.

3. Presenza del Risorto nel mondo attraverso i suoi discepoli.

Dio ama infinitamente il Figlio suo ed il suo desiderio è quello di amare tutti gli uomini e l’intero universo dentro l’amore che rivolge al Figlio suo. Questo può avvenire solo se il Padre vede in ogni uomo ed in ogni cosa l’impronta del Figlio suo, perché fuori del Figlio nulla è per lui amabile.
- Proprio perché tutti e tutto portassero i tratti del Figlio, il Padre lo ha inviato nel mondo ed ha inviato anche lo Spirito: per rendere tutto simile al Figlio suo e, dunque, amabile divinamente.
Questa somiglianza col Figlio si realizza facendosi trasformare dallo Spirito in immagine del Figlio, acconsentendo, cioè, ad essere immersi nel mistero pasquale del Figlio, morendo e risorgendo con Lui.
Tutto questo avviene se ci poniamo alla sequela di Cristo di modo ché Egli si mostri vivente nei suoi discepoli e così il Padre continua ad amare in essi il volto del Figlio.
Lo Spirito dal canto suo opera perché nei discepoli emerga il volto di Cristo.
Avviene così – attraverso i discepoli – che Gesù riunisce in sé l’umanità di ogni epoca, la rende “filiale” e la fa apparire presso il Padre come il suo grande Corpo mistico.
I discepoli, dal canto loro, sono chiamati ad assecondare e perpetuare nel tempo l’amore che il Figlio ha verso il Padre.
- Così il divino disegno dell’amore di Dio Padre è pienamente realizzato dentro la storia dell’umanità.

domenica 8 aprile 2018

Vangelo della Domenica II di Pasqua. Riflessione di Don Pietro

1. “La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana”. 

- Gesù non frappone indugi ad incontrare i discepoli. Sembra avere premura di farsi vedere.
- Perché, senza Risurrezione, la vita è insopportabile.
- Un’urgenza – quella di annunciare la Risurrezione – che dobbiamo fare nostra, pena la disperazione dell’uomo.
- La Risurrezione è il primo dei giorni, il giorno dei giorni, il nuovo inizio del mondo, il vero inizio, la nuova Creazione attesa.

2. “mentre erano chiuse le porte, venne Gesù e si presentò in mezzo a loro”.

- sono, sempre, le porte della paura, del fallimento, della morte, del non senso e dell’angoscia, dell’uomo e del mondo ripiegati e prigionieri di se stessi. Le porte delle ideologie…
- Dall’interno l’uomo non sa, non può, forse non vuole aprire quelle porte. Solo il Signore può irrompere dall’esterno e abbattere tutti i muri per snidare l’uomo e incontrarlo liberandolo.
- Cristo continua ad abbattere muri e porte anche oggi. Quanti muri sono stati abbattuti e quante porte sfondate! Altre lo saranno a tempo debito.

3. “Pace a voi!”

- Ripetuto più volte, non è un saluto convenzionale. E’ il dono del Risorto che fa passare i discepoli dalla paura e angoscia alla serenità e gioia. Un cambiamento che può avvenire solo perché è stata vinta la morte da cui ha origine ogni paura.
- Questo saluto riassume tutte le speranze messianiche. “Pace a voi”… La pace è cominciata. Con questo saluto si apre uno spazio nuovo alla comunione degli uomini con Dio e degli uomini fra loro.
- Questo spazio profetico, ultimo, è il Regno di Dio di cui la Chiesa è il segno anticipatore e la prova di “fattibilità”. A condizione che viva la Pace.

4. “mostrò loro le mani e il costato…e i discepoli si rallegrarono…”

- Fonte e ragione della nostra gioia, speranza e vita sono solo quelle mani trafitte e quel petto squarciato, scudo tra il nostro peccato e Dio.
- Quelle mani crocifisse e quel costato aperto ci parlano di un Amore infinito, di un Amore capace di vincere la morte e di dare vita, di un amore che abbatte e supera ogni barriera.
- Essi (mani e costato) hanno fatto e fanno per noi molto più di quanto non abbiano fatto comandando ai venti, placando le onde e operando prodigi.
- Liberata da pietismi devozionali è la vera, unica nostra devozione!

5. “soffiò su do loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.

- questo soffio evoca il primo soffio, quello che evoca dal nulla le cose e le fa essere.
- Ora, la nuova creazione, è far emergere ogni essere dalla morte. Non più essere-per- la morte, ma essere-per-la vita, è il destino della creazione.
- E la vita nuova offerta è la comunione con Dio di ogni essere, da realizzare, incoativamente, già nella storia.
- Questa comunione con Dio è la verità nascosta nel mondo, la sua vocazione, destino e piena realizzazione; la Chiesa la anticipa, la celebra e la testimonia al mondo. E’ la sua missione unica.

6. “Tommaso”.

- Tommaso – dice il testo – non era con gli altri quando Gesù era venuto la prima volta. E dov’era? Forse cercava nella solitudine un conforto al suo immenso dolore per aver perso il suo Maestro tanto amato…
- Tommaso non crede alla testimonianza netta, chiara, semplice degli altri che affermano di aver visto il Signore.
- Tommaso non crede ma resta con gli altri discepoli e otto giorni dopo (allusione di Giovanni all’incontro eucaristico domenicale?) di nuovo miracolo e mistero: Gesù venne di nuovo e dice a Tommaso di toccarlo.
- Ma Tommaso rinuncia alle prove che pur aveva preteso, si prostra ed esclama: “mio Signore e mio Dio!”.
- Una confessione stupenda di fede. A Pietro, a Cesarea, Gesù dice che gli è suggerita dal Padre suo che è in Cielo. E a Tommaso da chi? Da uno stato di estasi?
Certo che Tommaso va oltre il “mio Signore” e riconosce in Gesù, , il “mio Dio”, cosa inconcepibile per quei tempi e, forse incomprensibile anche per noi moderni.
L’incontro termina con l’ultima beatitudine del Vangelo: beati quelli che credono senza aver visto.
Termina anche il Vangelo di Giovanni con questa confessione: Gesù Risorto, Signore e Dio.
- Povero Tommaso! Emblema, nei secoli, dell’incredulità, miscredenza e dubbio. Probabilmente anche noi avremmo reagito come lui.
Perché Tommaso, in ogni tempo, rappresenta la fragilità umana dinanzi alla divina perfezione di Gesù.
Uomo facile allo scoraggiamento, Tommaso è, però, uomo di grande lealtà nei confronti di Gesù. Più degli altri, forse.
Ed anche uomo di coraggio, come emerge dalla decisione rischiosa di seguire Gesù a Gerusalemme dopo la notizia della morte di Lazzaro (“Andiamo anche noi a morire con Lui…) mentre gli altri cercavano di dissuadere Gesù; e poi quando ha il coraggio di dire a Gesù che parlava della sua strada verso la morte-vita; “Signore, noi non sappiamo dove vai, come facciamo a sapere la strada?”, il coraggio,cioè, di voler vedere le cose chiaramente.
- Tommaso dopo aver visto la fine dolorosa e ingloriosa di Gesù, era un uomo in crisi, prima ancora che un uomo “scientifico” ante litteram, un uomo oscillante tra scetticismo e incredulità. (E’ l’esperienza di tutti…).
Ma nel buio profondo della crisi di Tommaso viene Gesù: “metti qui il dito e non essere incredulo ma credente”.
La risposta di Tommaso non è una conclusione filosofica, ma una confessione di fede profonda: “Mio Signore e Mio Dio”.
- Mio Signore, confessione: della sovranità di Gesù, della volontaria sottomissione del credente.
- Mio Dio, confessione della divinità di Gesù e dell’obbligo di adorazione che il credente adempiee volontariamente.
- Gesù, per Tommaso, non è più un problema razionale, ma una realtà spirituale davanti alla quale può solo inchinarsi in sottomissione e adorazione.

Due conclusioni:
a) la confessione di fede collettiva (folla, dodici) deve divenire personale, come per Tommaso.
b) La confessione di fede impegna personalmente ma va vissuta in compagnia degli altri credenti la cui lista, compilata da Dio, non coincide sempre con quella fatta da noi. Con Tommaso c’eravamo anche noi, persone che non hanno visto e credono.