La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 29 dicembre 2018

Riflessione sulla Festa della SANTA FAMIGLIA. Don Pietro

1. Gesù va a Gerusalemme
Il mondo è come l’occhio:
il mare è il bianco
la terra è l’iride
Gerusalemme è la pupilla
l’immagine riflessa nella pupilla è il Tempio
A Gerusalemme le pietre parlano:
per gli ebrei le pietre del Muro del Pianto
per i cristiani la pietra ribaltata del S. Sepolcro
per l’Islam è la Cupola della Roccia al centro Moschea di Omar (rupe sacrificio Isacco e ascensione Maometto)
2. Visita di Gesù al Tempio (la II dopo la circoncisione)
forse è la festa del suo “bar-mitzvah” (figlio della legge)
(il suo ingresso ufficiale nella comunità religiosa ebraica)

La I parola di Gesù è Padre, come l’ultima sul Calvario e l’ultima da Risorto: “Manderò ciò che il Padre ha promesso”. Il suo è il Vangelo del Figlio che rivela il Padre. Gesù tornerà ancora a Gerusalemme per morirvi e risorgere. Gerusalemme è il segno: della vita e della morte, delle lacrime e della bellezza, del sangue e della luce. 10 porzioni di bellezza, gioia, sapienza e dolore.
3. A Gerusalemme la I Rivelazione di Gesù “Maestro” (didàscalos)
il discepolo diventa Maestro e i maestri discepoli
è venuto a liquidare la falsa sapienza sulla cattedra di Mosè
“nessuno si faccia chiamare Maestro…”
Egli è pieno di intelligenza (= penetrazione nel Mistero dell’essere e di Dio)
Egli sa decifrare il senso della vita (“Lavorare a ben pensare, ecco il principio della morale”: Pascal)
se non si pensa bene, si finisce “benpensanti”.
La sapienza di Gesù è fonte di gioia e di stupore (“i dottori restarono stupiti”).
Per comprenderla occorre la grazia, anche per Maria e Giuseppe
“lo trovarono”: forse lo hanno perso per sempre.
4. “Non sapevate che io devo essere nella casa del Padre mio?”
è l’apice della narrazione
La vocazione di Gesù è di essere a disposizione del Padre, non di una pur santa famiglia di creature
Egli appartiene innanzitutto a Suo Padre e a Lui deve servire
solo così servirà anche gli uomini
Se prima non si conosce il Volto di Dio non lo si può vedere nel volto dei fratelli
5. “Tornò a Nazareth e stava loro sottomesso”
pur avendo un rapporto unico con Dio e la Sua Sapienza!
i genitori debbono ritirare sogni e progetti sui figli per quelli di Dio: tutti, genitori e figli, sottoposti soprattutto a Dio! E’ il senso del vero pellegrinaggio: (esodo da se stessi per sottoporre tutto a Dio).

lunedì 24 dicembre 2018

Amici, come vorrei essere l’asino del Natale… Auguri fraterni a tutti, Don Pietro

L'asino del presepe guarda il bambino che si è addormentato. Dire che lo adora è forse troppo: un asino non ha dimestichezza con la contemplazione  e non se ne intende tanto di preghiere. Guarda e basta, come può guardare un asino, che pure un sentimento ce l'ha, ma di sicuro fa fatica a tirarlo fuori e a dirlo come si conviene. Guarda, e chissà cosa pensa, chissà cos'ha in testa mentre soffia un po' di calore sul corpo infreddolito del bambino. Guarda e inciampa nei suoi ragionamenti confusi, che sono forse un po' simili ai nostri, in questo Natale.
Vorrei dare di più a questo bambino - pensa l'asino - ma tutto quello che ho da offrirgli è soltanto il mio fiato. Non posso cullarlo con le mie zampe secche, non posso carezzarlo con i miei zoccoli duri e sporchi, o caricarlo sulla mia groppa così scomoda e così poco sicura per un neonato. Magari le mie orecchie lunghe e ridicole potrebbero venirgli utili come guanciale, ma sua madre l'ha già deposto con cura nella mangiatoia, e credo che stia bene dov'è, avvolto nelle sue fasce, accanto a me e al bue, col padre raccolto in preghiera poco lontano.
Mi sarei dovuto preparare meglio ad un avvenimento così; ma clii se lo poteva immaginare? A noi asini nessuno dice mai niente. Tiriamo avanti nella vita a forza di urla e raramente i nostri padroni ci chiamano per nome. Magari un nome non ce l'abbiamo neppure. Tutto quello che ascoltiamo sono suoni più che parole, monosillabi gridati con rabbia e di malumore da chi ci comanda, che si alternano ai colpi della frusta. Non abbiamo la grazia e la scioltezza dei cavalli, nostri parenti nobili, e tutto quello che sappiamo fare è portare pesi, ripetere ogni giorno gli stessi gesti, ripercorrere le medesime strade, senza una speranza, senza una prospettiva. Per che cosa, alla fine? Un po' di biada, un po' di fieno, qualche zuccherino e una carota se il padrone è di buonumore o se gli sono andati bene gli affari. Vita dura quella degli asini.
Ma forse - pensa l'asino - non è tanto la fatica a farmi sentire triste, non è questa vita da somaro fatta di pesi e di ripetizioni a lasciarmi l'amaro in bocca. In fin dei conti resto soltanto un asino, e non sarei capace di fare molte altre cose. Quello che mi manca è il colpo d'ala. Mi piacerebbe essere come gli angeli, che svolazzano sopra il tetto della stalla. Staccarmi ogni tanto da terra, guardare le cose dall'alto, contemplarle in un'altra prospettiva, cantare con gioia, portare annunci di pace. Mi piacerebbe volare con la loro grazia e la loro bellezza. E non ne sono capace. Se provo a volare scalcio, se penso troppo mi confondo, se cerco di cantare raglio, e tutti si spaventano, o si mettono a ridere. E' vero, un colpo d'ala è quello che ci vuole. O magari soltanto - se proprio non potrò mai volare - un'ala che mi raccolga e mi custodisca, come fa la chioccia coi pulcini, che regali anche a me, povero somaro, un po' di tenerezza e protezione, che mi faccia sentire amato. Anche noi asini abbiamo bisogno di affetto, anche se siamo così poco belli da vedere, così lenti a capire, così incapaci di volare.
Eppure - ragiona il somaro - se è vero quel che ho sentito nella grotta, se tutte queste luci, i pastori, gli angeli, la stella me la raccontano giusta, se questo bambino, come si dice in giro, è il Figlio di Dio, allora vuol dire che anch'io sto facendo una cosa straordinaria. Questo bambino è per terra, con me, e il più vicino a lui sono proprio io, una povera bestia. E non devo fare nulla per lui, non ha bisogno che inventi qualcosa, che gli canti una ninnananna, che gli porti dei regali. A lui basta il mio fiato, a lui basta che io respiri. E' il mio soffio, il mio alito a custodirlo, a dargli il calore di cui ha bisogno. Che strano: non è stato proprio Dio a darci la vita col suo soffio?  Eppure adesso è il mio respiro a tenere in vita Dio, a far sì che non muoia di freddo. Io questa cosa proprio non la capisco: si vede che sono un asino, e ragionare non è proprio il mio mestiere...
L’asino si confonde  nei  suoi pensieri ma ora è davvero felice. Vorrebbe perfino cantare dalla gioia, ma sa che dalla gola uscirebbe un raglio stonato, e ha paura di svegliare il bambino. Riprende semplicemente a guardarlo, e continua con dolcezza a scaldarlo col suo respiro.
BUON NATALE!

sabato 22 dicembre 2018

IV Domenica di Avvento. Riflessioni di Don Pietro

L’uomo cerca Dio nei simboli, nei miti, nei sacrifici, costruendo spazi sacri, caste specializzate.
Questa è la (comprensibile e necessaria) Religione
.Quando “Dio sarà tutto in tutti” non ci sarà più tempio, né ci saranno più mediazioni di sorta tra l’uomo e Dio (Ap.).
L’unico sacrificio che Dio gradisce è l’offerta che il Figlio gli fa del corpo.
Non nel senso che Dio goda della immolazione di suo figlio, ma perché in essa c’è l’adempimento della volontà del Padre fino alla offerta di se stesso. Questo è il vero culto.
Ne segue che – anche per noi – il luogo di incontro con Dio è lo spazio della vita, nostra e altrui.
C’è un “prologo in cielo”: il corpo che il Padre prepara al Figlio, e c’è un tripudio del corpo sulla terra: quello di Maria, di Elisabetta e del bambino in grembo.
Quindi la nostra vita quotidiana non è la materia su cui Dio agisce, ma è essa stessa portatrice di significato e di messaggi negli eventi che la strutturano e accompagnano. La salvezza, allora, non avviene in una zona parallela alla vita, oltre la vita (il giardino fiorito dell’anima nel deserto dell’esistenza) ma nella vita (far fiorire il deserto!). Dovunque l’uomo vive nell’obbedienza al Padre, lì agisce e si opera la salvezza promessa.
Lì, dolore, pane, gioia, fatica… morte pur restando nella loro fisicità diventano segno e luogo di un Incontro altro che salva all’insegna della obbedienza a Dio. Ma, in che consiste questa obbedienza? E’ conformità al suo disegno che è quello della pace fra gli uomini e sulla terra, quello dell’affermazione della vita.
Chi vuole la vita obbedisce a Dio e chi serve la vita, lo sappia o meno, è fedele a Dio.
Ovviamente per vita si intende la “qualità” della vita, cioè condizioni degne per tutto l’uomo e tutti gli uomini.
 Questo modo di leggere l’obbedienza a Dio, non è infedeltà al messaggio            cristiano, un uscir fuori dall’ortodossia, ma liberare il cristianesimo dalle angustie confessionali in cui spesso è stato imprigionato e restituire a Dio la signoria sull’intera creazione e alla fede le sue misure originarie, quelle cioè che coincidono con l’intera esistenza umana.
Il Cristianesimo nella sua essenza è la rivelazione del significato dell’esistenza umana che trova la sua norma e il suo inveramento nel Cristo della Croce che ha offerto se stesso per la salvezza di tutti.
In questa prospettiva – non cultuale ma esistenziale – acquistano nuovo significato gli episodi evangelici, come la visita di Maria a Elisabetta e la nascita di Gesù a Betlemme.
Queste due donne incinte che si incontrano, colme di Spirito Santo, pervase di gioia, stanno appunto a confermarci che la salvezza non è realtà che rinvia ad altezze celesti (anche!) ma attraversa le radici della carne, passa per il ventre delle madri, è dentro la nostra realtà fisica.
Non sono eventi che riguardano solo i cristiani, ma l’intera umanità e ogni singola persona.
Qui dobbiamo farli risuonare e reagire, non solo nel tempio e nel culto. Gesù non ha mai fatto l’elogio degli uomini del Tempio e del culto, o della ortodossia formale. Anzi li ha messi in imbarazzo proponendo come modello di obbedienza a Dio un eretico ed uno scomunicato, il Samaritano.
E l’episodio conferma che nascere è nascere per la salvezza e, nonostante la violenza e la morte, la fede ci dà in Cristo la certezza che, nonostante tutto questo, il disegno del Padre non sarà annullato.
La Parola che risalta nel Vangelo di oggi è la beatitudine di Maria che non ha creduto per l’evidenza delle cose, ma ha creduto alla Parola del Signore suo e al suo adempimento.
Credere all’adempimento della Parola del Signore è cosa molto rara e difficile! Ma è questo che dobbiamo proclamare ai deboli e agli umili, agli impoveriti e umiliati: le promesse si adempiranno e si adempiranno nella vita se gli uomini si immoleranno, non in senso ritualistico (Dio non è Moloch assetato di sangue!) ma nel senso della fedeltà alla Parola e al disegno del Padre.
Proviamo a essere fedeli a questo progetto di vita e saremo immolati. La mia vita non serve per me: va collocata, pur nella cronaca insignificante del mio quotidiano, dentro l’orizzonte della salvezza i cui risultati non sono visibili.
E bisogna crederci. Credere all’adempimento vuol dire vivere senza prove, con una fede nuda come quella di Abramo.
Credere alla vita in un mondo ostile alla vita. Credere alla pace in un mondo non pacifico. Quelli che credono non son quelli che professano la domenica la loro fede, ma quelli che calano la fede nel quotidiano e lì si immolano, incompresi e perseguitati da tutti, perfino i familiari che perseguono altri obiettivi e seguono altre logiche…
La grande speranza cristiana può rimanere congelata nel rito domenicale. La vita non vince perché offriamo sacrifici rituali a Dio, ma solo se ci sacrifichiamo per i fratelli. Questa è la via della salvezza, che passa per un modo di vivere che non sia contro l’uomo.
Chi non si interroga sul senso che ha il dare la vita per i fratelli costui inutilmente prega, inutilmente fa dir Messe in suffragio dei defunti. La sua non è religione vera, ma chiusa nella presunzione del tempio; è ricerca della salvezza per vie magiche, attraverso riti propiziatori che dispensino dall’impegno e dispendio personali. Cristo viene a dirci che la vera religione consiste nell’offrire il nostro corpo all’immolazione per la vita degli uomini.
Così è e così sia.

sabato 15 dicembre 2018

III Domenica di Avvento. La riflessione di Don Pietro

1. Rallegratevi!
Non si può comandare la gioia, un sentimento “spontaneo”: c’è solo in presenza di un certo modo di essere e di una particolare condizione interiore. Eppure la parola di Dio oggi insistentemente ci ordina di essere gioiosi.
Certo, Paolo ci illumina sulla natura particolare della gioia che ci è comandata:
una gioia che possiamo far fuoriuscire da noi, solo se entra in noi una pace, - quella di Dio – che “sorpassa ogni intelligenza e custodisce i cuori e i pensieri in Cristo Gesù.
     Il Vangelo poi, nelle parole del Battista, ci presenta un presupposto della gioia:
la pratica concreta della giustizia e della carità, come premessa di quella pace di Cristo da cui scaturisce la gioia.
     Finché c’è chi naviga nel superfluo e chi si dibatte nella povertà, e forse nella miseria, finché c’è chi vive di un ingiusto profitto e chi vive derubato del frutto del suo lavoro (o del lavoro) è da farisei parlare della gioia cristiana del Natale.
     Forse nasce da qui la sensazione di quel carattere illegittimo delle nostre festività, dei nostri Natali consumistici, delle nostre allegrie familiari, mentre nel mondo si consumano infinite tragedie della miseria e del sottosviluppo.
2. Novità e verità evangelica: il dono dello Spirito. 
Ma il Vangelo non ha la sua novità nell'esigenza morale, semplice presupposto, preliminare della verità evangelica. Tutte le leggi morali Gesù le ha risolte nell'unica legge dell’amore.
Che conti non è la norma, ma il modo in cui, nella diversità delle epoche, si attua l’amore verso il fratello.
Ma neppure l’amore ai fratelli è la novità e verità dell'evangelo.
L’esigenza di amare il prossimo si trova pressoché in tutte le religioni.
La novità dell'evangelo è, intanto, nel fatto che il precetto dell’amore è legato al dono in noi dello Spirito Santo. E’ lo Spirito Santo che apre il nostro cuore alla gioia vera.
3. La “vera” gioia.
C’è un’allegria illegittima che non possiamo e non dobbiamo permetterci:
quella che ignora le tribolazioni del mondo e quella costruita sulle nostre ingiustizie quotidiane. Se è così, non possiamo che essere tristi.
La gioia legittima è quella che si coniuga con la giustizia da cui nasce la pace come ordine che non fa perno su di noi e sui nostri interessi ma con un senso universale. Senza equa distribuzione della ricchezza, senza l’eliminazione dei meccanismi di sfruttamento, non c’è pace. E senza giustizia non possiamo che esser presi da un’indignazione continua verso il mondo presente.
4. La diversità della gioia cristiana.
     Tutto questo è ancora il presupposto della gioia cristiana, dell’evangelo che ci annuncia una gioia “diversa”. Un mondo solo giusto non è ancora capace di gioia.
     Neppure la sola osservanza morale dà gioia per i limiti e il contrasto che essa deve necessariamente porre per arginare la voracità debordante dei nostri istinti e pulsioni. La mortificazione è alla libertà e spontaneità, all'interiorità della persona. I codici, anche quelli morali, non danno gioia. La norma uccide. La legge è morte, anche quando la si attua, ci ricorda Paolo. La novità è lo Spirito Santo che è “fuoco”.
     Il “fuoco” dello Spirito non conduce a un soggettivismo spregiudicato (ognuno fa quel che vuole).
     Il fuoco è l’attesa di un diverso modo di vivere, un modo di vivere cioè
in cui la spontaneità sia quella dei figli di Dio.
in cui si possa esistere come bambini nel mondo, non come censori di sé e degli altri che spiano il peccato per condannarlo.
il Vangelo è l’imprevisto, l’impossibile inserito nel cuore dell’uomo.
Imprevisto e novità per il mondo è Gesù Cristo.
5. Per noi, oggi.
Non bisogna saltare il presupposto della giustizia concreta, per guardare alla libertà dei figli.
Questa libertà è condizione essenziale perché la scelta di vita sia secondo Dio.
Dobbiamo prudentemente diffidare anche della nostra libertà per le insidie della carne, mai definitivamente debellate.
La vera libertà è il miracolo che Dio compie in noi. In questo miracolo sta la novità del Vangelo, il vino della gioia. Questo è il fuoco in cui dobbiamo essere battezzati e non c’è tutore dell’ordine che possa soffocare queste fiamme.

domenica 9 dicembre 2018

Immacolata Concezione e II Domenica di Avvento. Le riflessioni di Don Pietro

                                  II DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C 2018

1. Dio continua a parlarci attraverso profeti
della periferia e dei deserti del mondo
con uno stile di vita alternativo a quello del mondo

2. Com’era G. Battista che
viveva nel deserto
vestiva di pelle di cammello
mangiava miele selvatico e locuste
     Egli ci apre al cammino di e con Gesù.

3. Chi sono i Giovanni Battista di oggi?
i profeti, i sapienti, i santi… uomini e donne che cercano e fanno esperienza di Verità, Giustizia, Pace
sono i contestatori non-violenti che non si lasciano omologare alla logica del mondo
sono i poveri, gli esclusi, i miti, i puri di cuore…

4. Quali sono le sfide di questo terzo Millennio?
i sentieri da spianare, le valli da colmare?
i colli da abbassare, le storture da raddrizzare?

     5. 
l’invito della Parola è la conversione persona
occorre cambiare mentalità e affetti (i pensieri del cuore)
circa la concezione dell’uomo riconoscendone la (miseria, creaturalità  grandezza)
circa gli altri: riconoscendone la dignità e diversità
circa il mondo: rispettandone le leggi che lo regolano
circa i beni: ridistribuendone il possesso
circa Dio: rispettandone il Mistero e adorandolo in spirito e verità

     In una parola: convertirci dagli errori storici, spesso legittimati da una cattiva comprensione della fede, connessi contro la vita, nostra e degli altri esseri viventi.
                                              
                                       IMMACOLATA CONCEZIONE 2018

1. No all’idolatria della creatura.
Il messaggio rivelato ha in abominio qualsiasi forma di esaltazione e glorificazione della creatura-uomo.
L’idolatria della creatura è il peccato più grave che si possa commettere e si configura come reato di appropriazione indebita di quell’onore, gloria e potenza che spettano di diritto solo all’Unico, all’Altissimo.
Eppure nel grande racconto biblico non mancano pagine di ammirazione, di elogio, perfino di vera e propria venerazione nei confronti di creature terrene, uomini e donne.
Accade per Abramo, per Mosè, per Elia, per Debora, per Giuditta, per Davide, e nel N. T. per il Battista, per Giuseppe e soprattutto per Maria.

2. L’esaltazione della Vergine-Madre.

La ragione di tanta ammirazione va individuata nel compiacimento pieno e convinto che Dio, il Creatore, ha nei loro confronti. Dio, come fa per ogni creatura che esce dalle sue mani e dal suo cuore, si offre loro nella totalità del suo essere d’amore.
La grandezza di queste creature privilegiate sta nell’essersi lasciati invadere totalmente dall’amore di Dio, senza opporvi resistenza. E così la loro esistenza si svolge in estrema fedeltà al disegno di Dio.
Creature che non si appartengono, ma che si consegnano al loro Signore.
Creature che cercano la loro realizzazione solo dentro la realizzazione del disegno di amore di Dio per la creazione.
Creature, vere immagini di Dio, nel loro cercare costantemente il bene, la verità e la giustizia di Dio.

3. Così è stato per la creatura-Maria di cui oggi celebriamo una particolare prerogativa: il suo essere stata preservata in vista e per grazia proveniente dal Figlio, dalla colpa originale.
Insieme festeggiamo la piena corrispondenza di Maria nella sua vita terrena a tanto amore e a tanta grazia: concepita senza ombra di macchia ha conservato questo immacolato candore durante tutta la sua esistenza.
Le poche ma significative pagine evangeliche che parlano di lei – perché il Vangelo è l’annuncio lieto di Gesù Cristo – trasudano di fede profonda, di preghiera intensa, di umiltà, di carità generosissima verso il prossimo e, soprattutto, di conformità piena, anche se sofferta, e di adesione alla parola di quel Figlio nel quale, con gli occhi della fede, Maria riconosceva la più sconcertante delle presenze di Dio nel tempio della carne umana.
Sul modello-Cristo Maria si è compresa ed ha costruito il suo essere credente nella forma del suo essere donna, sposa e Madre. Perciò Maria ha i titoli per essere riconosciuta come tipo insuperata di credente e di Chiesa e di creatura umana.

4. Credere, vivere, sperare e amare come Maria.

La umanità che è in noi, ferita dalla colpa ma restituita alla sua innocenza dal sangue del Figlio di Maria, aspetta il suo pieno compimento. Una realizzazione impossibile se ricercata sulla strada della insostenibile autonomia da Dio, peggio ancora se prometeicamente inseguita in opposizione a Lui.
L’uomo è un’opera incompiuta, senza Dio. Solo nell’apertura e nell’accoglienza di Dio in Cristo la creatura umana può ritrovare la grandezza perduta. Possiamo essere fedeli alla nostra umanità, nella differenza della sua specifica modalità maschile e femminile, solo se, come Maria, celebriamo le nozze con lo Sposo, con Cristo-Dio.
Anche la nostra risposta cristiana trova in Maria una fecondissima fonte di ispirazione. Perché Maria è discepola assunta a Maestra di fede, speranza e Amore. Credere come Maria è obbedienza cordiale ad una Parola vivificante ma anche esigente. Sperare come Maria è abbandonarsi fiduciosi solo alla promessa del Dio, fedele anche se l’ora dell’adempimento di essa sembra tardare sulle nostre frettolose scadenze.
Amare come Maria significa vivere la vita come qualcosa che ci appartiene solo come dono destinato agli altri e attraverso gli altri, alla gloria di Dio.
Amare è cercare e trovare Dio sulla strada di uomini e donne riconosciuti come fratelli e sorelle, non più estranei o nemici.
Su questa strada possiamo ritessere i brani lacerati di quella veste candida in cui Dio vuole vederci per riconoscere in noi i tratti del Figlio.
E così è concesso anche a noi di recuperare quella innocenza perduta di cui, anche se inconsapevolmente, abbiamo struggente nostalgia, e che ci permetterà di comparire al cospetto del Padre “santi e immacolati” come Cristo e Maria.