La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

domenica 26 maggio 2019

Lettura del Vangelo della VI Domenica di Pasqua. Don Pietro

1. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

1 a) “Se uno mi ama osserverà la mia parola…”
Il rapporto tra noi e Dio è vero ed autentico, solo se vive e respira nell’amore.
Dio ci ha facilitato il compito di amarlo, abbassandosi, facendosi piccolo, prossimo all’uomo, anzi diventando uomo come noi, debole e povero, e amandoci per primo.
- Dio anzi ha fatto ancora di più: in Cristo ci ha insegnato come si fa ad amarlo.
- Gesù infatti è il modello insuperabile dell’amore verso il Padre: un amore fatto di fiducia, abbandono, di confidenza filiale, di intimità profonda, di comunione totale di pensieri, di sentimenti, di volontà.
- Per amore Gesù è stato sempre obbediente e docile verso il Padre realizzando pienamente la sua Parola, tanto da diventare egli stesso Parola vivente di Dio.
Tutto lo spazio della sua esistenza, ogni istante della sua vita, desideri, scelte, progetti…, tutto in Gesù è stato coperto dalla presenza del Padre.

Ora anche per noi
- In quest’amore totale e in questa obbedienza docile si gioca e si verifica tutta la autenticità della nostra fede e quella dell’intera comunità credente.
- L’Amore verso Dio non può esaurirsi, dunque, in qualche nostro slancio emotivo verso di Lui.
- Non è sul piano del solo sentimento che può vivere il nostro rapporto con Dio, ma su quello dell’adesione fedele e convinta alla sua Parola, cioè al Cristo. “Chi mi ama osserverà la mia parola.
- Non basta allora recitare ogni tanto qualche preghiera, lasciare un’elemosina al povero, adempiere formalmente qualche precetto religioso, farsi circoncidere”…
- Ci è chiesto  molto di più:
- costruire l’intera nostra esistenza sulla parola di Gesù;
- incarnare questa parola nelle nostre scelte di vita: pensare come penserebbe Gesù, amare e desiderare ciò che lui amerebbe e desidererebbe, rapportarci a noi, agli altri, al mondo come farebbe lui.
- Come Paolo anche noi dovremmo almeno tendere a poter dire:
“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”
                                                                   Gal 2,20
Niente di meno è la vita cristiana.

2 b) Allora “… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”
- In quest’amore di Dio verso chi ama Gesù, il figlio diletto, c’è il fondamento della grandezza di un uomo, per quanto piccolo, fragile e povero egli possa essere.
 Afferma S. Leone magno: “Destati, o uomo, e riconosci la dignità della tua natura”.
- L’uomo non è grande e degno di venerazione per quanto riesce a pensare o a produrre, bensì perché in lui Dio è presente con il suo amore, un amore che lo fa essere ed esistere come dimora, come tempio di Dio. Scrive ancora S. Leone:
“Se noi siamo tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi, vale molto di più quello che ciascun credente porta nel suo cuore, di quello che può ammirare nel cielo”.
- “… prenderemo dimora presso di lui”. Dio non ci ama dall’esterno, ovemai ciò fosse possibile, ma, come dice Agostino, “si fa più intimo a noi di noi a noi stessi” “interior intimo meo”.

3) “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.
Il rapporto d’amore dell’uomo con Dio fino all’inabitazione della Trinità nel suo cuore, non è alla portata della creatura.
E’ dono e frutto dello Spirito Santo che, in fedeltà alla promessa del Cristo, il Padre ci ha mandato.
- E’ lo Spirito che “ci insegna ogni cosa”: si intende: ogni cosa che è necessaria per vivere autenticamente come credenti una vita d’amore.
- E’ ancora lo Spirito che “ci fa ricordare tutto ciò che il Cristo ci ha detto. S’intende: ci fa cogliere il senso profondo delle parole di Gesù, facendocene percepire e gustare con gioia il valore.
- E’ lo Spirito Santo a fare del credente un innamorato a farlo vivere cioè in uno stato di amore che anima ogni suo pensiero, ogni sua attività, ogni sua scelta.
Quando questo avviene non solo si compiono alcuni atti di amore, ma l’amore diventa un principio, una sorgente costante di attività di comunione.

Pace
- Il dono dello Spirito diventa anche garanzia di una pace che non può essere turbata come quella del mondo fondata precariamente solo sull’equilibrio del terrore, degli interessi e dei poteri.
La pace dell’innamorato, invece, dipende dall’amore dell’amato e dove quest’amore è fedele, anche la pace diventa imperturbabile. Scrive Paolo ai Romani:
“La (nostra) speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
                                                                                                        Rom 5,5

Non rattristarsi
In questa luce si comprende anche perché i discepoli debbono non rattristarsi della Pasqua-partenza di Gesù.
E’ vero che con l’andarsene del Signore inizia una fase di solitudine per i discepoli.
Ma si tratta di un’esperienza provvisoria destinata a lasciar spazio ad un ritorno e a una comunione definitiva.
E’ giusto quindi rallegrarsi del ritorno di Gesù al Padre perché da questo dolore provvisorio nasce “l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”.
                                                                                               (Ef 4,24)

sabato 18 maggio 2019

Riflessione sulla V Domenica di Pasqua. Don Pietro Mari

Due sono i temi principali dell’odierna pagina evangelica:
La morte di Cristo come luogo rivelativo:

A) della gloria del Figlio e del Padre
B) dell’amore fraterno tra i discepoli
Sono temi non disparati e lontani ma legati da intima coerenza.

A) la gloria
Il mistero pasquale si rivela come una duplice glorificazione:
a) Gesù glorifica il Padre, cioè lo manifesta come Dio, rivela che solo il Padre di Gesù Cristo è Dio, portando a perfezione la sua obbedienza e sottomissione fino alla morte.
- cioè non esiste nella storia del mondo un altro momento nel quale la Signoria unica di Dio si sia rivelata così pienamente come nella Croce di Gesù: questa Signoria la fa emergere proprio l’obbedienza di Gesù.
- Gesù nell’ultima Cena afferma:
“Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che egli mi ha comandato”.
- Anche noi: obbedendo a Dio glorifichiamo Dio.

b) Ma anche il Padre glorifica il Figlio nel mistero pasquale, cioè lo manifesta e accredita come Figlio, assumendolo nella gloria:
- la morte di Gesù, infatti, non è una sconfitta, ma in se stessa è già una vittoria: è il passaggio da questo mondo al Padre.
- Noi: nella fedeltà siamo riconosciuti come Figli.
Nel mistero pasquale Gesù manifesta perfettamente l’amore di Dio-Padre per tutti gli uomini e in questo Amore risplende la gloria di Dio.
-   Nello stesso mistero pasquale Gesù manifesta se stesso come il perfetto realizzatore dell’amore di Dio per gli uomini e in questo suo amore fedele risplende la sua gloria.

“Vi do un comandamento nuovo”
- La rivelazione della Gloria di Dio è, dunque, rivelazione di un mistero d’amore:
- è la rivelazione e la realizzazione di un amore gratuito, generoso, creativo.
- Da questo amore di Dio scaturisce il comandamento dell’amore fraterno.
- Esso non è un comandamento “etico” che nasce cioè dalla esigenza di garantire l’ordinata e pacifica convivenza degli uomini sulla terra.
- Esso ha invece un fondamento teologico, scaturisce cioè dalla rivelazione che Dio ha fatto di se stesso in Cristo.
- E’ l’amore di Dio per noi in Cristo che fonda e motiva il nostro amore per i fratelli.
- Come la natura intima di Dio trova nell’amore il suo principio,
- Come il rapporto di Dio col mondo trova ancora nell’amore libero e gratuito il suo fondamento
- Così anche la creatura di Dio, l’uomo, fatto a sua immagine, non può comprendere se stesso, non può vivere autenticamente, non può stabilire con gli altri relazioni di vita al di fuori di un amore capace di farsi dono come è quello di Dio.

“Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”.                                                                                       
                                                                    (1 Gv 3,16)

Nuovo:
- E’ un comandamento “nuovo”
- non nel senso di recente, provvisorio
- ma nel senso di ultimo, definitivo, insuperabile.

3) “Come io vi ho amato, così amatevi voi gli uni gli altri”:
- Non si tratta di un esempio dall’esterno da imitare.
- Si tratta di lasciare operare una forza che è stata messa dentro i nostri cuori cioè:
- attraverso l’amore di Gesù penetra nei nostri cuori l’amore del Padre e li trasforma, li riempie di una forza d’amore, lo Spirito Santo che segna tutta la nostra esistenza.
- Dove si manifesta quest’amore lì si può riconoscere l’amore stesso di Dio e di Cristo in azione.

Tenere il posto di Dio:
- Quest’amore fraterno suscitato dall’amore di Dio, dopo la partenza di Gesù, tiene nel mondo il posto che aveva occupato Gesù nel gruppo dei discepoli.
Allora: Gesù tiene il posto a Dio cioè al suo amore.
Noi teniamo il posto a Gesù, cioè al suo amore.
Come per Gesù, anche per noi luogo supremo di rivelazione e realizzazione di quest’amore è la Croce.
- Quest’amore esigente orienta la città terrena verso la Gerusalemme celeste (Apocalisse).
- Fondare una Chiesa significa ogni giorno far vivere in essa, attraverso l’amore fraterno, l’Amore di Dio.

sabato 11 maggio 2019

Riflessione sulla IV DOMENICA DI PASQUA. Don Pietro

1. Il senso della vita.
Un problema che sempre ci tormenta è quello del senso della nostra vita e delle vicende in cui siamo coinvolti o di cui siamo spettatori.
Probabilmente è impresa disperata, perché fallimentare, attendersi soluzioni razionali a questo fondamentale problema dell’uomo.
Tra reale e razionale è impossibile trovare composizioni o identificazioni.
La fede, dal canto suo, non ci dà risposte da ricondurre ad una filosofia della storia né autorizza spiegazioni provvidenzialistiche, tipiche di una religiosità superstiziosa.
La fede rimanda le risposte ad un libro, l’Apocalisse, sigillato da 7 sigilli e che verrà disigillato solo l’ultimo giorno, che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria!
In questo libro sono scritte tutte le ingiustizie  subite, tutte le speranze buone andate deluse: nulla sfugge allo scriba dei cieli.
Quel libro sarà aperto dall’Agnello quando spezzerà, uno dopo l’altro, tutti i 7 sigilli. Allora tutto avrà senso, anche ciò che a noi è apparso e appare privo d’ogni senso.
Nel brano odierno è il sesto sigillo che viene spezzato e al Veggente di Patmas appare una “moltitudine immensa di ogni popolo e di ogni lingua”.
Questa moltitudine rappresenta il genere umano nella sua totalità e universalità, non solo il popolo dei “cristiani”.
Questa visione sconvolgeva la prima comunità dei credenti, la comunità delle origini cristiane, prevalentemente giudaiche, attaccate fortemente al loro mondo particolare, religioso ed etnico e, perciò nonostante la Risurrezione, con un corto respiro universalistico.
L’idea che tutti gli uomini fossero chiamati a salvezza suscitava gelosia nei Giudei, come testimonia la violenta opposizione alla predicazione universalistica di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia da parte di donne di alto rango e dei notabili della città (brave persone – c’è da crederlo! - ), ma che reputavano di essere i padroni della salvezza, gli unici a conoscere le regole e gli itinerari. L’idea che la salvezza è per tutti, non per i giusti, i dotti, li irrita e così organizzano alleanze per estirpare questo errore.
Probabilmente anche noi, credenti della ultima ora, facciamo fatica ad accettare queste ampiezze della salvezza dilatati fini ai confini della terra, e che ha come destinataria la moltitudine.
Abituati dalla nostra tradizione culturale e nonostante tutta la nostra autosorveglianza mentale, noi posiamo la nostra attenzione quando la rivolgiamo all’umanità, quasi sempre solo sugli uomini grandi, importanti, i maestri, i capi politici.
La moltitudine, per noi, è solo un termine generico, spersonalizzato, che non considera affatto i battiti di ogni cuore e le lacrime di ogni occhio.
La moltitudine per noi è solo la massa nella quale non distinguiamo i volti e i nomi.
Così, raccontando di una guerra ricordiamo solo i nomi di chi l’ha vinta o persa e dimentichiamo le montagne di ossa disseminate nelle pianure in cui essa si è combattuta.
Questo sguardo anonimo sulla moltitudine è conseguenza del nostro modo di pensare strutturalmente individualistico ma, davanti a Dio per il quale ogni lacrima è importante, costituisce il nostro peccato. Dio non ha questo nostro sguardo.
Se per Dio ogni lacrima non avesse un senso, che noi invece non riusciamo a trovare, allora l’unica reazione moralmente seria del nostro cuore sarebbe la disperazione.
La fede ci dice che per Dio ognuno ha senso e ogni dolore è importante.

2. Il “buon pastore”.
L’immagine del “buon pastore” propostaci dal vangelo odierno ci aiuta in tal senso.
Questa immagine ci parla di una storia, in cui il Cristo è esemplare, che nasce dall’amore ed è vissuta nell’amore.
Chi la vive non produce tribolazione e angustie per i destinatari del suo amore, ma piuttosto se ne fa carico e se le porta nel cuore facendole proprie.
Chi la vive semina gioia, solidarietà, pace, aiuto per gli altri.
All’interno del mondo dominato dalla sopraffazione e dall’ingiustizia questa, forse, è una storia che passa spesso inosservata ma molto più estesa di quanto non ci si voglia far credere. Abbraccia moltitudini perché gli organi di informazione non dicono che due persone si amano: questo non fa notizia. Dicono, invece, che una ammazza l’altra.
E così l’amore è senza storia, perché i suoi gesti non fanno rumore.
Eppure c’è una storia sotterranea, parallela a quella dell’odio, che è scritta, vissuta e narrata solo dall’amore.
Nella storia dell’amore hanno molto spazio le tribolazioni.
Sappiamo, anche per esperienza personale, che appena ci decidiamo a vivere solo secondo la legge dell’amore, sul modello di Gesù, a vivere cioè per l’altro fino al dono totale di sé, allora noi entriamo in conflitto con la logica del mondo impregnata di potere, non di donazione di sé.
E’ così che l’amore è giudicato stolto dalla cultura dominante e non ha prestigio nella piazza pubblica della società.
Il messaggio dell’evangelo propone senza ambiguità e incertezza questa legge dell’amore e la presenta come vissuta fino all’estremo da Gesù.
In questo senso ci vien detto oggi che Gesù è il pastore che conosce le sue pecorelle e dà la vita per loro.
Gesù, avendo sofferto nell’Amore fino alla morte, ha la vera cognizione dell’uomo, perché senza amore, senza coinvolgimento totale nell’altro, non si conosce veramente niente e nessuno.

3. Noi, chiamati all’amore.
Se anche noi ci dedichiamo a prendere sul serio questa legge dell’amore, se con la grazia riusciamo a non lasciarci corrompere dalla falsa e astuta saggezza di questo mondo, prima o poi dovremo “scuotere anche noi la polvere dai nostri calzari” rispetto al mondo.
L’alternativa tragica è la disperazione ammenocché non accettiamo di essere piatti, banali, integrati nel sistema.
La Parola della fede ci libera dalla disperazione e si fa parola di consolazione, riscattando i momenti bui dell’esistenza e dischiudendoci sorgenti di acqua viva che, invece, non si trovano nelle mappe dei nostri catasti.
La Parola ci consola quando ci dice che nessuno può rapire dalle mani del Padre le pecorelle che Gesù conosce.
Non è un meccanismo di auto-consolazione, è quella gioia inesplicabile di cui parlano oggi gli Atti degli Apostoli e che riempie il cuore dei discepoli perseguitati e soccombenti.
Strana questa gioia: avrebbero dovuto piangere e invece erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
E’ questa la gioia che vince il mondo:
quando vediamo la stoltezza dei potenti che perseguitano i giusti nei quali invece c’è saggezza e verità
quando sentiamo che c’è una forza di Dio che rende stolta l’intelligenza e imbelle la potenza.

4. Un amore che non discrimina.
Il brano degli Atti ci insegna che chi crede nell’amore non discrimina tra chi segue la verità e chi segue l’errore, tra chi è in regola con la Chiesa e chi non lo è.
Senza queste discriminazioni ci sentiremmo nell’insicurezza più profonda.
Da qui la “gelosia” dei Giudei di cui parla il brano.
Per noi diventa disagio dinanzi a chi, fuori dai nostri sacri recinti, non solo dice che il mondo deve basarsi sull’amore, sulla fraternità e sulla pace, ma lotta per realizzare questi ideali, mentre noi continuiamo solo a parlarne nelle nostre “sinagoghe”.
La Parola di Dio invece ci dice di gioire per tutto il bene che nasce nel mondo, in qualunque popolo, razza e nazione.
Soprattutto per il bene che si fa intorno a noi e non dai nostri.
Siamo però avvertiti: se lo facciamo saremo espulsi in nome dei valori costituiti, in nome del dio del gruppo sociale.
Ma se avremo la saggezza dell’amore vero non ci arrabbieremo e non ci dispereremo. Anzi avremo la gioia sapendo che la persecuzione è il sigillo di una scelta giusta.
Questo continuare la strada dell’amore con costanza, senza disperazione, è un dono dello Spirito. Accogliendolo crescerà quell’umanità nuova, quella anonima della grande tribolazione. La sola candidata a regnare con l’Agnello.

domenica 5 maggio 2019

Lettura del Vangelo della III Dom. di PASQUA. Don Pietro

Perché i discepoli tornano a fare i pescatori.
Cristo li aveva chiamati a fare i “pescatori di uomini” (all’apostolato, cioè). Ed essi avevano abbandonato tutto per seguirlo.
Perché ora ritornano all’antico lavoro?
Non perché avevano perso la speranza: avevano infatti visto il Cristo risorto e avevano ricevuto lo Spirito Santo e la missione di rimettere i peccati.
Essi tornano a pescare pesci perché con tale onesto lavoro potevano provvedere alle loro necessità, come farà anche Paolo, pur potendosi mantenere col servizio evangelico.
E il Signore premia il loro servizio al Regno con la pesca miracolosa, giusta la promessa:
“Cercate prima il Regno di Dio e il resto vi sarà dato in sovrappiù”.
La pesca.
Il numero sette dei pescatori, l’alba, la riva del mare rappresentano nell’antico linguaggio allegorico la fine, rispettivamente dell’universo, del giorno, dei tempi.
Anche la rete tirata da Petro a terra simboleggia la Chiesa alla fine del mondo.
Prima di questo evento ultimo la Chiesa si compone di santi e peccatori, secondo la parabola evangelica su di essa.
Alla fine la Chiesa sarà solo la Chiesa dei giusti.
A differenza della prima, in questa seconda pesca la rete è gettata dal lato destro della barca, il lato destinato ai giusti secondo la simbologia biblica.
Nella prima pesca la rete di rompe, immagine degli scismi che divideranno la Chiesa.
Qui invece è detto: “e benché i pesci fossero tanti, la rete non si strappò”. L’unità della Chiesa alla fine, e solo allora, sarà perfetta.
Della prima pesca è detto che per l’abbondanza dei pesci la barca rischiava di affondare: simbolo dei mali che derivano alla Chiesa quando la moltitudine della gente che vi entra ha comportamenti che ne minacciano la tenuta.
Della seconda pesca è, invece, detto che non vennero tirati nella barca ma trascinati a riva attraverso la rete immersa: immagine della moltitudine dei santi immersi nel sonno della pace, come nelle profondità del mare, e che alla fine saranno depositati nel Regno dei Cieli.
Centocinquantatre pesci.
Sant’Agostino vede in questo numero la somma di tutti i numeri che compongono il numero 17, ottenuto questo dalla somma di 10, cioè i comandamenti, e di 7, cioè i doni dello Spirito Santo.
I pesci, poi, rappresentano i santi. Ma non significa che vi saranno solo 153 santi che risorgeranno alla vita eterna. Significa, al contrario, che tutti coloro che vivranno la fedeltà al Signore (legge) nello Spirito Santo, risorgeranno alla vita eterna.
Inoltre 153 deriva anche dalla somma di 3 volte cinquanta più tre.
Ora 50 risulta sia da 7x7 (Spirito Santo) +1 (un unico Dio), sia dai giorni trascorsi dopo la Risurrezione per l’invio dello Spirito.
I 153 pesci, è detto, erano grossi e Gesù aveva detto che chi osserva e insegna ad osservare la legge sarà chiamato “grande” nel Regno dei Cieli.
Gesù mangia con i discepoli.
Il cibo consumato da Gesù e dai discepoli è composto del pesce che già si trovava sulla brace, di quello appena pescato dai 7 discepoli e dal pane.
Ora il pesce sul fuoco raffigura Cristo nella passione, come il pane è anche simbolo di Cristo, “pane disceso dal cielo”. Invece il pesce portato dai discepoli è simbolo della Chiesa.
Allora quel pasto è partecipazione della Chiesa alla beatitudine e gioia, frutti della passione del Signore.
“Pietro, mi ami tu?”.
La storia di Pietro è fatta di elezione, caduta, purificazione e perdono e, infine di martirio.
Solo con la forza dello spirito del Risorto, Pietro può mantenere la sua promessa: “… darò la vita per te…”.
Prima Cristo doveva morire per la salvezza di Pietro e poi Pietro poteva morire per la predicazione di Cristo.
Per tre volte Gesù chiede a Pietro quello che già sapeva: l’amore del discepolo verso il Maestro.
La triplice confessione d’amore deve compensare il triplice rinnegamento.
E se il rinnegamento del Pastore-Gesù fu prova del timore di Pietro, ora, l’affidamento del gregge è prova dell’amore, sia di Pietro, sia di Gesù verso di lui.
Solo l’amore per il Signore e per il suo gregge è titolo che abilita il pastore, non la avidità, il desiderio di potere, di gloria o di denaro, cioè in fondo l’amore per se stessi.