La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 25 agosto 2018

Vangelo della XXI domenica del T. O.: la riflessione di Don Pietro

1. CRISI RELIGIOSA

Le ricerche registrano una diminuzione quantitativa di praticanti e forse di credenti: le chiese  si spopolano, le indicazioni etiche sono disattese, i sacramenti disertati.
Situazione analoga a quella di Gesù in Gv. 6:  viene contestato perché si proclama “Parola” di Dio; viene abbandonato perché si proclama “Pane di vita” (salvezza non trionfalistica ma con offerta vita)
Ai Dodici Gesù dice: “Volete andarvene anche voi?”
Pietro risponde: “E da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Nella risposta di Pietro c’è la motivazione della vera fede che non subisce corrosione nel tempo. Le altre motivazioni si corrompono (non è vera fede personale ma semplice adesione al proprio gruppo).

2. NOI E QUESTA PAROLA DI DIO

Qual è il punto di discriminazione legittima fra coloro che si dicono cristiani e quelli che tali non sono?
Solo coloro che sono in grado di dire a Gesù “tu hai parole di vita eterna”, costoro sono il gruppo dei credenti: eletti, non nel senso aristocratico e sociale, ma nel senso spirituale, carismatico; cioè scelti dal Signore perché siano nel mondo non un impero che si ingrandisce, ma appena una manciata di sale e un pizzico di lievito.
Nella risposta di Pietro c’è la rinuncia alle attese politiche, trionfalistiche del messianismo ebraico e l’accettazione della via umile di Gesù che va verso la crocifissione.
Ora la vera fede ci introduce proprio in questa scelta qualitativa fatta da Gesù. Certo, la vera fede ci impegna anche e severamente nel cammino di liberazione dell’uomo e della terra accanto a tanti altri uomini che si spendono per la giustizia e la libertà, mossi a ciò dall’unico Spirito di Dio che investe la creazione. Ma il nostro specifico di cristiani è l’essere raccolti attorno alla Parola e all’Eucarestia  vale a dire attorno alla CROCE.
La parola di Pietro allora segna un punto essenziale per la vera fede: intesa correttamente essa significa rinuncia ad ogni ambizione, rinuncia ad ogni ricerca di potere, rinuncia ad ogni presunzione di ritrovare dentro di sé o nella storia il significato dell’esistenza.
La parola di Pietro rivela la nostra miseria di fondo, quella che ci porta a Lui, al Signore.  Perché solo Gesù Cristo, morto e risorto, porta luce all’uomo smarrito quando questi si interroga sul suo mistero personale e su quello globale dell’esistere.
Le parole di Gesù sono le uniche cui possiamo aggrapparci. Sono Parole di vita eterna: cioè di vita totale, secondo le promesse di Dio; di vita, già ora  almeno germinalmente, vita ricondotta alla piena autenticità, alla piena esperienza della liberazione. Potremmo mutuare così la parola di Pietro: “Signore, tu solo ci dai la piena libertà; tu solo ci dai l’esperienza della totale liberazione”.
La sura 103 del Corano dice: “In verità l’uomo è in perdizione”. E Giorgio Seferis: “come siamo piombati, compagno, in questa fogna di paura?”.  Le realizzazioni umane non potranno mai essere risposta adeguata a quel cumulo di attese in cui ritroviamo la nostra infinita miseria e anche la nostra straordinaria grandezza. Attese che permangono intatte anche e soprattutto là dove la civiltà delle cose cerca di drogarci con l’offerta di una felicità artificiale e con parziali liberazioni dalle sudditanze che ci stringono. Solo la Parola di Gesù può indicarci e avviarci verso una giustizia altra, una comunione nuova tra gli uomini, una corporeità trasformata e trasformante, una vita che sappia rispondere pienamente alle nostre attese, non solo infinite, ma di Infinito.

domenica 19 agosto 2018

Riflessione al Vangelo della XX Domenica del T.O.. Don Pietro

IL PANE VIVO: SAPIENZA ED EUCARISTIA

A) Il dono di sé che Dio fa all’uomo è il Figlio, la sua parola sapiente che si fa pane, carne per la vita dell’uomo. Chi lo accoglie riceve in se la sapienza stessa di Dio e la sua esistenza riceve un senso nuovo, già nel tempo.
B) L’uomo vive, è una rete di relazioni: con Dio, con se stesso, con gli altri e con il mondo. La novità di chi accoglie e “mangia” il pane divino della sapienza attraversa tutte queste relazioni e le trasforma.
L’UOMO DIFRONTE A DIO
Chi accoglie il dono della sapienza comprende, stupito, l’amore di Dio e lo riama esprimendo così ad un tempo il profondo desiderio dell’uomo e la sua gratitudine nel vedersi così incredibilmente amato. Il contenuto primo e pieno di questa risposta d’amore all’iniziativa amorosa di Dio è la fede, è credervi come al fondamento della propria esistenza abbandonando, come insegna Paolo, l’illusione di fondare in proprio il senso del proprio esistere.
È Dio che discende fino all’uomo per dargli la vita in Gesù. L’uomo, con la fede, si accosta a Gesù per ricevere la Vita. Credere in Gesù, credere a Gesù, credere in ciò che Gesù è, sono formule che, sotto angolature diverse, dicono la decisione con cui l’uomo si espropria di sé, per consegnarsi alla parola fatta carne e vivere di essa. La fede è certamente, nella sua componente cognitiva, una certa visione del mondo e dell’esistenza umana in esso. Ma il centro esistenziale della fede è l’affidamento totale di sé all’amore di Dio.
La fede è anche volontà di mettersi a disposizione di Dio, è obbedienza incondizionata al suo amore.
Nella comprensione di fede Dio non è né ovvio né assente da questo mondo, ma misteriosamente nascosto. Questo Dio dice a me il suo si d’amore dentro il si che dice al mondo. La sapienza di fede mi aiuta ad abbandonarmi a lui, a sperare nella sua parola e promessa di vita (A.T.) e giustificazione (N.T.).
A questo Dio io debbo offrire un “amore indiviso” non nel senso di una esclusività affettiva (1 Cor. 7),  ma nel senso di farne la ragione prima e ultima di ogni scelta umana.
L’UOMO DIFRONTE A SE STESSO
Con il dono della sapienza di Dio  l’uomo, rinunciando ad ogni delirio di onnipotenza, conseguenza del suo desiderio infinito, riconosce il suo limite creaturale, ma non diventa preda dell’angoscia e del nichilismo. Egli sa, infatti, che Dio lo ama, lo fa essere, gli dà un nome, cioè un essenza più profonda del semplice esistere.
 L’uomo è un essere amato e, perciò, interlocutore di Colui che lo ama. Accogliendo l’amore di Dio, l’uomo diventa capace di amare veramente l’altro in una realizzazione reciproca. L’uomo che ama è l’uomo “finito”: uomo, cioè non infinito; uomo compiuto in umanità.
L’UOMO DIFRONTE ALL’ALTRO
La ragione ci fa capire che l’esistenza è coesistenza. L’esperienza ci insegna che l’uomo è nativamente incapace di amare veramente l’altro uomo che viene visto come concorrente e/o come nemico. Solo la sapienza della fede ci fa vedere nell’altro un essere alla ricerca della sua realizzazione che mi interpella e a cui io debbo rispondere. Il dono divino (=Gesù) mi libera dalla impotenza di amare e trasforma la mia vita in dono all’altro nella figura della giustizia verso il diritto dell’altro che in me diventa dovere, e nella figura del perdono del nemico, a cui io non dico: “ti amo perché tu sei amabile”, ma “ti amo affinché tu sia amabile”. Non è chiudere gli occhi sul male passato o presente, ma aprirli sulla possibilità dell’uomo.
L’UOMO DIFRONTE AL MONDO
Il mondo, cioè le cose, è l’habitat dell’uomo. Le cose sono strumenti per la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, es. il cibo. Ma le cose sono, per l’uomo, anche valori: rispondono cioè a un bisogno di senso (es. convivialità). La sapienza della fede ci fa cogliere e usare le cose come doni di Dio all’uomo, segni del Suo amore. Responsabilità e compito dell’uomo consistono nel non interrompere questa dimensione di dono delle cose divenendo egli pure un “donatore”.
Senza la sapienza della fede, le cose o vengono quasi divinizzate rinunciando ad usarle (naturalismo) o vengono ridotte solo a oggetti da manipolare (tecnologia). Ancora: consumismo, aristocraticismo o spiritualismo sono altre patologie nella fruizione delle cose. Con la sapienza della fede l’uomo riesce a risalire dalle cose ai beni gratuiti che in esse sono presenti. Con l’amore di Dio sa destinarle ai bisogni di tutti gli uomini.

mercoledì 15 agosto 2018

SOLENNITA’ DELL’ ASSUNZIONE DI MARIA AL CIELO



1. Non abbiamo, oggi, il resoconto di un evento. Abbiamo solo l’annuncio della condizione finale, il destino, meglio la destinazione, di Maria di Nazaret.

La creatura Maria non è solo polvere che torna alla polvere, ma è chiamata ed orientata alla beatitudine piena in Dio.

2. L’Assunzione di Maria al cielo è l’anticipazione del destino di tutti.
Tutti saremo raggiunti dalla risurrezione del Signore.
Ogni storia e tutta la storia sarà condotta a Dio

3. Eloquenti e ricchi di immagini sono i simboli di Ap 12, 1-6.10

Il sole che riveste la donna: indica la posizione di privilegio presso Dio di Maria.
Le 12 stelle che  incoronano: alludono alla posizione di Maria in seno al popolo di Dio.
La luna sotto i piedi: Maria libera dal tempo ciclico, anzi ne è padrona.
La donna incinta, con le doglie: forte rinvio alla gloria attraverso angoscia e sofferenza.


venerdì 10 agosto 2018

LA MIA LETTURA SUL VANGELO DELLA DOM. XIX T.O. Don Pietro

SCORAGGIAMENTO E SPERANZA
1. Obiezione dei Giudei a Gesù: come può il figlio di Giuseppe, il falegname, dire: “Sono disceso dal cielo?”
Oggi l’obiezione, tradotta in forma moderna, suonerebbe: come può un uomo vissuto 20 secoli fa presentarsi a noi come “parola di vita eterna” ? Tra il suo mondo e il nostro c’è un abisso di eventi, trasformazioni, realtà totalmente diverse, per cui sembra impossibile guardare a Lui come a Colui che è disceso dal Cielo, al “senso” della nostra vita.

2. Una seconda difficoltà nasce da un’altra parola di Gesù nel brano odierno: “nessuno ha visto il Padre” .
C’è in questa parola, non unica nel vangelo, una chiara e forte dissuasione verso chi presume di parlare di Dio, di indicarlo come meta della vita dell’uomo, come punto di aggregazione della vita sociale. Si ridurrebbe il Dio di Gesù Cristo a un Dio nominale, conosciuto. In realtà noi non conosciamo Dio. Egli non è un oggetto della nostra mente. L’unico luogo di conoscenza di Dio è la parola di Gesù, parola di uno che ha conosciuto il Padre, che era presso il Padre. Allora: non è la nostra ragione la via per conoscere Dio, né l’intimismo psicologico, ma unicamente Gesù.
Noi crediamo perché crediamo che la parola di Gesù è Parola di Dio. Il velo che ci separa da Dio si è spezzato solo in un punto: l’esistenza e la parola di Gesù. Gesù è l’unico pane che ci vien dato nel nostro viaggio della vita.

3. IL VIAGGIO DI ELIA.
Elia vive un momento di estremo scoraggiamento, al punto di desiderare la morte: “riprenditi la mia vita, o Dio”.
Quella dello scoraggiamento è oggi tentazione particolarmente diffusa e acuta. Si configura come sentimento dell’inutilità del camminare, dell’inesistenza di una meta degna e capace di giustificare gli sforzi. Quello dello scoraggiamento è un sentimento nobile, è tipico delle anime sensibili. I superficiali e gli egoisti non lo conoscono: essi si prefiggono mete semplici, facili e, garantiti dal conto in banca, da una rete di affetti e di amicizie, veleggiano tranquilli verso il futuro. Per essere tranquilli essi innalzano una barriera protettiva tra la loro esistenza e molte realtà circostanti: la fragilità della vita; la rapidità con cui questa si consuma; le minacce di un futuro sempre più incerto; i rischi di un infelicità collettiva. Riflettere su queste cose è un obbligo morale. Uno ha tanta dignità morale, quanta è la sua apertura e sensibilità verso questi problemi, che producono scoraggiamento. C’è quasi una proporzione diretta tra scoraggiamento, infelicità e serietà morale. Più uno è moralmente serio e più è infelice perché si accorge che ciò che è moralmente degno della vita è instabile, precario e del tutto incerto. Soprattutto quando esso, per una stagione, era apparso possibile, raggiungibile, a portata di mano. Quando cioè alla primavera segue non l’estate, ma l’inverno. Quando questo accade, le ragioni del camminare, del lottare, si dissolvono e nasce lo scoraggiamento. Allora c’è chi si rifugia nell’orticello del proprio privato coltivando piccole soddisfazioni e grandi frustrazioni. Questo innalzamento di un muro tra se e il mondo è una forma grave di dimissione morale. Ma c’è anche chi avvertendo l’impossibilità di dare un senso alla propria vita in un mondo siffatto, cade nello scoraggiamento. Compito di noi credenti non è quello di diffondere serenità artificiali, speranze a buon mercato, bensì quello di prendere sul serio questi scoraggiamenti, attraversare insieme il tunnel buio delle situazioni, e cercare ragioni di vera speranza. È quanto dice la lettera di Pietro quando afferma: “sappiate rendere ragione della speranza che è in voi”.
Rendere ragione della speranza non è semplice. La vicenda di Elia può aiutarci. A questo profeta che sente di non farcela più, che avverte come al di sopra delle sue forze la missione affidatagli da Dio e che, perciò, protesta, il Signore dà una focaccia di pane e un orcio di acqua, due cibi elementari e semplici, segno esplicito della povertà elementare con cui Dio ci viene incontro. Dio, notate, non offre ad Elia un cavallo focoso e forte, non gli dà uno strumento di sicurezza, ma soltanto il cibo per camminare un giorno. Questo perché nel disegno di Dio la forza per camminare, andare avanti non viene all’uomo dai mezzi potenti, dagli strumenti umani, ma dall’amore.
L’amore vuole mezzi poveri perché esso nient’altro possiede che capacità inventive e fantasia creatrice. La sovrabbondanza dei mezzi ha spento la fantasia, ha reso inerte la creatività. Insomma la logica dei mezzi spegne e uccide la logica dell’amore. L’amore è forte di se stesso e capace di inventare. La logica evangelica di preferenza dei mezzi poveri nasce proprio dalla premura di salvare la preminenza dell’amore creativo. Se vengono meno i mezzi o si rivelano inadeguati al fine, l’amore vive di sé, trova in se stesso la possibilità di andare avanti.

4. Collegamento col vangelo.
Il mezzo povero che io ho come credente per vincere lo scoraggiamento e dare speranza anche agli altri è la parola di Gesù di Nazaret. Non abbiamo altre certezze e sicurezze umane: né teologiche, né istituzionali. Si sono tutte dissolte. Non ci resta che quest’orcio d’acqua e questa focaccia scaldata, questo cibo elementare: la parola del vangelo, la parola di vita eterna, una parola capace di illuminare le ragioni del nostro vivere. Anzi questa parola illumina anche le ragioni del nostro scoraggiamento, capovolgendo la disperazione che ci prende sul piano umano in motivo di soddisfazione. La perdita di alcune certezze che ci dà tristezza, si capovolge in grande gioia. Quando sono costretto a dire: non ce la faccio più, proprio allora mi nasce dentro una gran voglia di camminare e di essere accanto a quelli che non hanno più ragioni di speranza. Quando non ho più parole umane per consolare, allora posso contare sulla forza invincibile della parola di Dio. Dunque questo impoverimento di mezzi umani, è, nel viaggio, grazia di Dio, per la vita eterna.
Vita eterna nel linguaggio biblico, è vita in pienezza, non solo vita oltre la morte, ma già ora e qui. È vita diversa, segnata da una pienezza, segnata da Dio, non da noi o dalle cose. Questo mondo passa e viene da Dio un mondo diverso, verso cui andiamo. Chi non ha il dono di questa fede, è normale che si scoraggi fino al rifiuto della vita, non riuscendo a consolarsi con favole. Chi accoglie la grazia della fede sa, invece, che il suo viaggio è dentro l’amore di Colui che lo attende e interviene nei momenti di stanchezza e di scoraggiamento, per donargli la forza di spendere la propria vita per la salvezza del mondo. Allora nasce una somiglianza tra la vita di Gesù offerta fino alla croce e la nostra vita che diventa come la sua: dono offerto. Così svanisce la disperazione: quando la vita è donata in un’ offerta di amore.

martedì 7 agosto 2018

Per scuoterci dalla rassegnazione, indifferenza ed egoismo

La tragedia dei braccianti

LA DIGNITÀ
SOLO DA MORTI

I sedici esseri umani che hanno perso la vita in questi ultimi giorni sulle assolate rotte della via del pomodoro sono caduti in una terra dove, a quanto pare, l'intolleranza verso lo straniero è minima: effetto, secondo alcuni, del tradizionale senso di accoglienza e di apertura delle genti di Puglia. Ma, secondo altri, c'entra anche la convenienza: perché, specialmente nella stagione del raccolto, queste tante braccia aggiuntive fanno comodo. E dunque praticare lo sport nazionale dell'aggressività contro lo straniero sarebbe, oltre che inutile, dannoso.
Forse c'è del vero. La gente di Puglia è aperta e generosa, lo è sempre stata. E lo slancio, da queste parti, ha sempre prevalso sul calcolo. Ma la Puglia è, nello stesso tempo, la terra del caporalato, delle epiche lotte di Giuseppe Di Vittorio, dei canti amari e profondi di Matteo Salvatore, delle indiscutibili inchieste di Alessandro Leogrande. Si potrebbe però dire: questi poveracci non sono mica vittime di un agguato razzista o di uno scontro fra clan. Sono morti in incidenti stradali. Come centinaia di persone ogni anno. Fatalità, al massimo.
Allora perché scomodare il razzismo, il caporalato, i massimi sistemi? In realtà, il trasporto dei lavoratori per e dai campi è proprio uno dei core business del caporalato. Una buona parte della certo non lauta paga del bracciante se ne va proprio in trasporto.
È ancora presto per pronunciarsi sulla dinamica degli incidenti, ma le norme della legge Martina sulla lotta al caporalato che prevedono le convenzioni per il trasporto - norme pensate proprio per sottrarne il monopolio agli sfruttatori - non paiono aver trovato una completa applicazione. Ed è difficile pensare che nei campi i braccianti (non solo gli stranieri, s'intende) se la spassino alla grande.
Ma queste morti suscitano altre riflessioni, se si vuole meno "tecniche". Noi, dello straniero che occupa ormai ossessivamente le nostre cronache, le nostre narrazioni, i nostri pensieri, in realtà non conosciamo quasi mai né il volto né il nome. Non ci interessa conoscerli. Lo chiamiamo, al più, migrante. Evoca diffidenza, rancore, un terrore che talora, ma sempre più raramente, mascheriamo di ipocrisia: porte aperte a chi fugge da guerre e carestie, nessuno spazio per i migranti economici, quelli li aiutiamo a casa loro.
Eppure. I sedici morti del Tavoliere e di Lesina erano migranti economici. Venivano dall'Europa dell'Est e dall'Africa nera, ripercorrevano le rotte che un tempo erano state di noi italiani, quando andavamo a cercar fortuna sotto la Statua della Libertà, navigando dagli Appennini alle Ande. Ora che sono morti cominciano ad acquistare un'identità più precisa. Da indistinti "migranti" a "stranieri braccianti". Qualcuno ha preso persino a trascriverne i nomi.
Che tragedia paradossale: la morte ci ha costretti a prendere atto della loro esistenza nel momento in cui cessano di esistere. Non possiamo più considerarli fantasmi, i loro corpi ce lo impediscono. Sono state stroncate vite. Si è persa per sempre la possibilità di conoscere la loro storia, le traversie, i dolori, le gioie che li hanno segnati, che cosa li ha spinti così lontano, incontro a un destino che certo non desideravano né sognavano. Ora hanno riacquistato, nella morte, la dignità di persone, non più numeri, unità produttive, qualifiche operative, voci di reddito. Una dignità a prova di fake news. Facciamo in modo che non resti l'unica dignità possibile.

domenica 5 agosto 2018

La riflessione di Don Pietro al Vangelo della XVIII Domenica del T.O.

L'evangelista Giovanni ci ricorda che
“quando la folla vide che Gesù non era più là, salì sulle barche e si diresse alla ricerca di Gesù”.

Ma dov'era Gesù ? Gesù era nel luogo della misericordia e della compassione.
Quando non c'è Gesù, non c'è misericordia  e, viceversa,  dove c’è misericordia lì c’è sempre Gesù.
Allora bisogna cercarlo altrove rispetto ai luoghi norrnali, canonici e cioè la famiglia, i Movimenti,  il luogo del culto,  la chiesa come tempio materiale?

“Rabbi quando sei venuto qui?, chiede la folla quando incontra Gesù.
         Cioè:  perché c'hai lasciati, perché  te ne sei andato via?

Gesù risponde: Voi mi cercavate perché avete mangiato quei pani e vi   siete saziati.
Cioè voi cercavate non Dio, ma il vostro appagamento. Nel vostro   cercarmi non c'era gratuità, ma interesse.

“Datevi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna”  , raccomanda Gesù alla folla e aggiunge:  “Questo cibo è fare   la volontà del Padre mio” 
E la volontà di Dio è rendere felice l'uomo: questo è quello che Dio vuole dai suoi seguaci.
        Poi Gesù li esorta  a vivere una fede senza paura e senza sacrifici inutili.

Infine Gesù afferma :
“Questa è l'opera di Dio: che crediate   in Colui che egli ha mandato” :

          Cioè credere all'amore che Dio nutre per noi nel Figlio.

La fede è l'opera più importante. Fede è scoprire il volto di Dio in ogni     segno materiale.

“Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
          Solo Gesù può saziare la fame di vita che è in noi.

“Io sono il pane della vita”:
Un Dio che vuole essere  gustoso per chi lo mangia, un Dio da mangiare.