La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

martedì 31 ottobre 2017

NELLA SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI CI E’ PROPOSTO IL VANGELO DELLE BEATITUDINI. Don Pietro

1. Per manifestare il suo amore  Dio sceglie ciò che non è; sceglie il non valore.
Le Beatitudini indicano che  la predilezione di Dio è per gli uomini dove il non valore si esprime visibilmente.

2. Chi sono i poveri, gli afflitti, gli affamati… proclamati beati?
Non quelli che hanno il cuore distaccato dalle ricchezze, cioè i poveri in spirito.
Sono quelli che si trovano in una oggettiva situazione di indigenza, come i ciechi, i sordomuti, gli zoppi... che non possono esserlo in spirito, ma lo sono e basta!
A queste persone umanamente squalificate dal punto di vista fisico e/o sociale, Dio destina il suo regno.
Sono quelle che non hanno nulla da aspettarsi dalla vita, quelle che sono state tradite dalla vita.

3. Qual è il motivo di questa scelta da parte di Dio?
Non c'è nessun perché, se non quello che Dio sceglie così.
L’amore di Dio, che è gratuito verso tutti, nella scelta dei poveri realizza ed  esprime il massimo della gratuità.
Infatti nei poveri non c'è nulla che attragga lo sguardo di Dio.
Questa scelta di Dio verso i poveri nasce solo da quell'anima di amore che la informa e la determina.
Dio sceglie i poveri perché li ama: basta questo.
Dio sceglie i poveri perché sia chiaro che il suo venire all'uomo ha come unico motivo la gratuità del suo amore.
Non c'è nulla dell'uomo di cui l'uomo possa farsi bello e dire a Dio: "guardami".

4. La conferma nella Scrittura
Questa gratuità della scelta di Dio ha per oggetto costante i piccoli.
L'attenzione di Dio non è attirata dall'innocenza, dalla semplicità, dall'abbandono, dalla fiducia del bambino.
Gesù li predilige non perché abbiano qualcosa di interessante. Nel contesto sociale dell'epoca essi avevano piuttosto una connotazione negativa: erano considerati immaturi, istintivi, vittime dello spontaneismo.
Gesù li ama proprio perché in essi non c'è nulla che possa attirare l'attenzione,
li ama cioè gratuitamente.
Lo stesso dicasi per i pescatori dove la gratuità dell'amore è massima.
Dio sceglie peccatori e prostitute non perché siano migliori delle persone perbene, non perché in essi vi sia una qualche dote arcana che lo attiri, ma esattamente perché sono una vergogna. Ad essi Dio dona il suo amore.
Questa è lo scandalo del Vangelo e la sua buona notizia.

5. Una salvezza automatica per i poveri?
Basta, dunque, essere povero, peccatore per essere salvo?
La condotta personale non c'entra per niente?
Non è così, evidentemente.
La legge fondamentale dell'alleanza che salva è il rapporto tra la libertà di Dio che per primo ama e la libertà dell'uomo che risponde consentendo a quel amore.
Dio offre a chi è in condizioni di povertà il regno.
Il povero può accettarlo o rifiutarlo.
Se lo accetta, il povero accetta anche la propria povertà perché essa è stata fatta oggetto dell'amore gratuito di Dio.
E allora il povero diventa povero in spirito.
E questo è appunto il frutto e il segno della salvezza, dell'ingresso nel regno.
E la povertà, da condizione negativa, diventa positiva, proprio perché Dio offre il suo regno a chi è povero.
Allora: beati i poveri perché Dio li sceglie e poiché Dio li sceglie essi possono capire ciò che i ricchi non capiscono.

6. Chi non è povero è escluso dal regno?

La salvezza in Cristo è offerta a tutti.
Non ci sono giusti: tutti sono pescatori.
Il peccato per Gesù è una malattia, una risorgenza del caos, della minaccia all’esistenza dell'uomo.
L’esistenza dell'uomo è fondamentalmente insicura, non a casa sua, fuori di sé, alienata.
La malattia (paralisi, povertà, cecità) sono solo emergenze in superficie di un male, d'una miseria che è la stessa condizione umana nel mondo.
A questo malato Dio dona il regno.
Le  Beatitudini oltre che segno della gratuità dell’amore di Dio, servono a far prendere coscienza all'uomo della sua povertà radicale.
Quando questa povertà affiora nella malattia o povertà, l'uomo che ne è colpito non è un disgraziato, ma è doppiamente beato: perché il regno che è destinato a tutti, in quanto tutti sono poveri, è particolarmente destinato a lui in quella situazione. 
E chi non si trova in questa condizione, chi è ricco?
Il Vangelo esorta a disfarsi delle ricchezze: o donandole ai poveri, o rinunciando ad esse per andare dietro il Signore Gesù.

sabato 28 ottobre 2017

Riflessione al Vangelo di Don Pietro. XXX Domenica del Tempo Ordinario

1. Amare Dio e amare l'uomo

L'orizzonte imprescindibile per capire e cogliere il  senso di quest'unico comandamento con due versanti è l'amore di Dio per l'uomo.
Tutte le tappe della storia di Israele e tutte le strutture della creazione sono, nella Bibbia, sotto il segno dell'amore di Dio.
Creazione e storia e il loro confluire nel pane quotidiano a tutti viventi (Salmo 136,25) sono gli ambiti su cui l'amore di Dio ha esercitato la sua efficacia e la sua sempre nuova fedeltà, dal primo giorno fino all'ultimo, il Sabato del Signore.
Dal racconto biblico  emergono gli attributi dell’amore di Dio. Innanzitutto l'amore di Dio è gratuito nel suo sorgere e nell’ agire. È pura libertà di voler donare, senz'altra ragione che quella intrinseca al dono stesso. C'è poi la fedeltà ll giuramento: l'amore che Dio dà all'inizio vale per sempre. L'amore cioè, vincola se stesso con una forza che vince il logoramento del tempo. La tenerezza è l'altra caratteristica dell’amore di Dio. Dio si lascia prendere le sue viscere, cioè si coinvolge profondamente e partecipa a quanto accade alla persona amata. Se questa sbaglia può contare su un amore misericordioso e perdonante di Dio. Certamente l'amore di Dio si aspetta una risposta totale, piena, e incondizionata: amarlo cioè con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. L'amore di Dio non è solo  sentimento. È efficace e concreto: ci dona i beni di cui abbiamo bisogno per vivere.
Il Nuovo Testamento accentua e svela l'amore  irrevocabile di Dio che è dietro i doni che gli fa all'uomo, il pane, la salute, la pace, attraverso la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.

2. L'amore dell'uomo per Dio: la fede

A queste iniziative incredibili di Dio l'uomo può corrispondere solo amando a sua volta il suo Signore con tutto se stesso.
Il primo segno che questa corrispondenza d'amore è in corso è la fede.
Fede appunto come risposta all'amore di Dio. Fede come prova e manifestazione di amore per Dio. Credere, infatti, non è innanzitutto operazione intellettuale, ma coinvolgimento di tutto l'essere e l’agire dell'uomo, come realtà fondate e rifondate continuamente dall'amore di Dio.
Dio mi dà vita in Gesù: ecco il primato dell’amore di Dio. Io accolgo questo dono di vita: ecco la fede-risposta dell'uomo.
A questo affidamento totale di sé all'amore di Dio l'uomo fa seguire la sua volontà di mettersi a disposizione di Dio, di amarlo con tutto il cuore, di obbedire incondizionatamente al suo amore.

3. L'amore del prossimo

E la risposta dell'uomo all'amore di Dio.
L'amore per il prossimo non è espressione della spontaneità umana, ma esso viene comandato da Dio.
Nell'Antica Alleanza questo amore assume il volto esigente della giustizia. Nella Nuova Alleanza è formulato all'imperativo e, in Giovanni, è chiamato comandamento nuovo.
L'uomo accoglie nella fede con la fede l'amore di Dio e vi reagisce amando il prossimo.
L'amore per il prossimo è lo stesso amore che l'uomo riceve da Dio ed è generato da Dio stesso nel cuore del credente.

"Amatevi come e perché io vi ho amati"

E’ comandato perché non corrisponde a ciò che l'uomo ha in sé e può da sé.
È nuovo perché dono divino.
È libero perché posso non corrispondervi.
L'uomo non è capace di amore perché è dominato dalla ricerca e realizzazione di sé, sia nei rapporti strumentali che in quelli affettivi. Ora l'amore dice  un'uscita da sé che cerchi l'altro in ragione di lui stesso. Amare è rispondere a quello che l'altro è: una povertà che chiede di colmarsi.
L’ amore di sé degenera in egoismo nella forma della competizione violenta o della inimicizia verso l'altro.
L'amore divino quando lo accogliamo fa di noi  delle creature nuove liberandoci dall'impotenza di amare. Ci libera dalla necessità di competere e ci libera dalla legittimazione della inimicizia.
Senza questo amore del prossimo, l'uomo è nulla sul piano del senso profondo della sua esistenza.
L’agape fa diventare l'uomo quello che è: essere per gli altri e non essere per sé.
Perdendomi nell'altro io mi ritrovo.
Per questo amore l'uomo diventa come Dio: essere che si dona.
L’agape-amore verso l'altro assume la forma della giustizia.
In Dio come fedeltà alle promesse. Nell'uomo come risposta al bisogno dell'altro.
Il prossimo è il luogo della signoria di Dio. Il suo diritto diventa per me un dovere.
Gesù è principio e termine dell'amore cristiano. Principio: egli dice amatevi come io vi ho amati. Termine: "qualunque cosa avete fatto... l'avete fatta a meno".

venerdì 20 ottobre 2017

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessioni di Don Pietro Mari

 I nemici di Gesù non desistono. Anzi, l'autorevolezza con cui egli ha tenuto testa, svergognandoli dinanzi alla gente, li ha irritati ancor più. Dopo frenetiche consultazioni decidono di accantonare per il momento le loro discordie interne e di far fronte comune contro di lui e così, in combutta,  emissari dei farisei e degli erodiani partono al contrattacco, decisi più che mai a coglierlo in fallo per poterlo incastrare e, in qualche modo, farlo fuori.
La trappola che gli tendono è davvero insidiosa. Soltanto una perfidia diabolica poteva escogitarla. Maestri di menzogna e navigati nell'arte di fingere, si avvicinano a Gesù simulando apprezzamento per il suo insegnamento "secondo verità", deferenza per il suo coraggio e considerazione per la sua libertà verso tutti.
Illudendosi di averne captato la benevolenza atteggiandosi a discepoli desiderosi unicamente di apprendere, lanciano il loro laccio infido: gli chiedono di pronunciarsi con chiarezza, con un sì o con un no, su un dibattito in corso, una questione pratica ma con risvolti religiosi che accendeva e divideva gli animi: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?".
Fra le tante vessazioni con cui gli occupanti romani angariavano il popolo, c'era una tassa personale, imposta a tutti, anche agli schiavi oltre che alle donne e agli uomini, dai 14 ai 65 anni. Un balzello abbastanza il esoso da corrispondere attraverso una moneta appositamente coniata, un denaro d'argento,  equivalente al salario di una giornata lavorativa.
L'indignazione popolare, di cui il movimento rivoluzionario degli zeloti si faceva vivace interprete, nasceva dal conio, su dritto della moneta, della testa dell'imperatore Tiberio, oltre che dall'universale comprensibile scarso amore per ogni inasprimento fiscale.
Il piano escogitato dai nemici di Gesù è perfido, ma ben congegnato: un vero trabocchetto. Si avesse risposto che era lecito pagare quella tassa all'imperatore, si sarebbe alienato gran parte della simpatia popolare e lo si poteva incriminare di attentato a quell'unica signoria di Dio di cui il popolo era fieramente geloso: due risultati niente male per discreditare Gesù e avviare la sua eliminazione.
Se, invece, avesse risposto che non era lecito pagare quel tributo, allora si sarebbe pubblicamente schierato contro i romani e, una volta deferito alle autorità, avrebbero provveduto queste ultime a farlo fuori come eversore e sobillatore del popolo, con sistemi sbrigativi, a onta delle garanzie pur previste dalla loro decantata civiltà giuridica.
La posta in gioco per Gesù era molto alta e l'alternativa senza via di uscita, così almeno credevano i suoi interlocutori e avversari. Per Gesù si trattava, cioè, di scegliere tra fedeltà al popolo è lealtà al potere occupante; tra l'unica, indiscutibile signoria di Dio e il rispetto dovuto ad una legge odiosa quanto si vuole ma vigente; tra doveri religiosi e obblighi civili; tra l'appartenenza alla città degli uomini, con le sue norme, e a quella di Dio, anch'essa con i suoi statuti.

Gesù non si scompone. Intanto rigetta l'alternativa-capestro con cui i suoi nemici vogliono farlo impiccare da solo. Come in altre controversie, egli non segue i suoi interlocutori sul terreno da loro scelto. Consapevole della complessità della questione, rifugge da ogni sua comoda e superficiale semplificazione spostandola a un livello di più alta problematicità e rinviando ai mittenti la ricerca di una sua possibile e onorevole soluzione.
"Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio": in queste parole di Gesù è possibile cogliere un concentrato densissimo di sapienza nuova e profonda, pur nella loro stringatezza e apparente semplicità.

"Rendete a Cesare": dunque chi legittimamente detiene il potere può legittimamente richiedere prestazioni e i sottoposti, credenti o no, hanno il dovere di soddisfarle. Per Gesù non c'è spazio per l'anarchia e per rifiuti pregiudiziali dell'ordine su cui una convivenza civile si regge.

"... quello che è di Cesare", precisa Gesù, delimitando i confini del potere di quanti sono investiti della responsabilità di legiferare e governare.
Questi, vuol dirci Gesù, hanno aree proprie di competenza, e lì sono sovrani. Se, però, travalicano i loro confini, se peccano, cioè, di eccesso di potere, allora la lealtà e l'obbedienza non obbligano per in coscienza e l'obiezione e la trasgressione diventano non soltanto lecite ma doverose, costi quel che costi.

Gesù non indica i casi possibili di prevaricazione  dai propri limiti da parte dei detentori delle varie forme di potere. Il giudizio dipende dalle situazioni storiche ed è demandato al discernimento dei singoli, della comunità, con l'aiuto dello Spirito e la guida della parola. Se Cesare volesse legiferare su Dio, sulla sacralità e inviolabilità della vita, se volesse disporre dell'uomo da padrone assoluto -i casi ipotizzabili sono infiniti-, l'obbedienza a lui non sarebbe più virtù ma peccato, e anche non lieve, contro Dio e la sua unica signoria sull'uomo e sul mondo. Lealtà sì, ma condizionata, con riserva. Anzi, è dovere del discepolo esercitarsi in permanenza nella critica ad ogni potere che avanzasse pretese lesive di quella sovranità assoluta che compete soltanto a Dio. Il potere, in tal senso, non è divino, ma umano. Non va demonizzato ma neppure sacralizzato. Nei suoi confronti il credente deve far valere le riserve che la sua appartenenza ad un'altra città, quella di Dio con patria nei cieli, gli impone tassativamente. Nessuna teocrazia dunque, con i credenti convinti che dalla fede discenda un unico modello di società da imporre a tutti, magari con la forza. Ma, anche, nessun laicismo, con lo Stato che pretenda di entrare dovunque, anche in ambiti a lui preclusi.

I modelli, poi, del rapporto con Cesare possono configurarsi in svariati modi. A volte il credente si vede costretto a scegliere tra Cesare e Dio, dando soltanto a quest'ultimo piena obbedienza. Altre volte tra Cesare e Dio può instaurararsi un regime di rispettosa reciproca collaborazione, purché senza confusione, ambigui consociativismi  e compromessi. Può anche accadere che si debba prescindere da Cesare riferendosi soltanto a Dio, com'è accaduto a Gesù e, tante volte nei secoli, alla comunità dei suoi discepoli. Questi, comunque, non farebbero male a ricordarsi sempre che Gesù è stato perseguitato, processato, condannato e ucciso proprio dal potere. "Tra Dio e Cesare non c'è una stretta di mano, un patto... ma una croce. I Gesù patì sotto Ponzio Pilato perché fu davanti a lui testimone, come dice il Vangelo di Giovanni, della libertà dell'uomo e testimone della verità di Dio..., le due cose che il potere teme di più d'ogni altra. Ma sono anche queste le cose che Dio ama  più di ogni altra" (Paolo Ricca, Alle radici della fede, Claudiana, Torino 1987, p. 58).

" A Dio quello che è di Dio": conclude così Gesù la sua replica ai farisei e agli erodiani. Siccome tutto è di Dio ne segue che anche l'ottemperanza alle giuste leggi dello Stato, il cristiano deve viverla come servizio alla causa di Dio, con spirito religioso come un aspetto indiretto della sua volontà.
Niente e nessuno infatti, all'infuori di Dio, possono essere ragione sufficiente perché un credente si giochi vita. Questo primato di Dio, e di nient'altro che sia meno di Dio, il credente sa che puoi riconoscerlo e viverlo sotto qualsiasi regime politico. Storicamente non si sa bene se, ai fini della purezza e diffusione della fede, sia da auspicarne uno tollerante o uno biecamente persecutorio e stupidamente repressivo. 

martedì 17 ottobre 2017

IMMIGRAZIONE. IL RAPPORTO 2017 DELLA FONDAZIONE MORESSA.

Il Pil «straniero» vale 131 miliardi
Dai 2,4 milioni di lavoratori regolari arriva il 9% di ricchezza nazionale

Hanno prodotto quasi 131 miliardi di ricchezza, con un contributo vicino al 9% del Pil nazionale, pagato oltre 7 miliardi di Irpef e versato contributi previdenziali per altri 11 miliardi. Sono i 2,4 milioni di immigrati che lavorano da regolari in Italia. Nel 2016 sono poco più di cinque milioni gli immigrati con lo status di “regolare”, dato in crescita di un decimo di punto rispetto all’anno precedente.
Metà del contributo al Pil arriva dal settore dei servizi, oltre 26 miliardi di ricchezza provengono dal manifatturiero; seguono le costruzioni e il commercio, rispettivamente con quasi 12,2 e 11,6 miliardi. Il peso di alberghi e ristoranti sfiora i 10 miliardi e l’agricoltura si ferma a circa 5,5 miliardi. Quasi un lavoratore con cittadinanza non italiana su due svolge una attività che rientra nell’ambito dei servizi e il 17,5% è impiegato nella manifattura. Per finire, i settori dell’ospitalità e ristorazione, l’edilizia e il commercio: ognuno assorbe circa il 10% degli occupati immigrati. Ultima l’agricoltura. In poco più di un terzo dei casi viene svolto un lavoro manuale e non qualificato.
Tutti questi dati sono i principali risultati del settimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e che sarà presentato mercoledì alla Farnesina.
Il Rapporto segnala che nel 2016 la quota di immigrati sul totale degli occupati è del 10,5% contro il 7,9% di otto anni prima. Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio, poco più di un quinto degli immigrati regolari occupati si trova in Lombardia, dove viene realizzato oltre un quarto della ricchezza prodotta dai non italiani, ben 35,4 miliardi, ma è l’Emilia-Romagna la regione che conquista il podio se si considera il rapporto tra valore aggiunto degli immigrati e il totale regionale. I valori più bassi in Sicilia, Basilicata, Puglia e Sardegna dove non si raggiunge il 4 per cento.
«La presenza attiva degli immigrati sarà sempre più rilevante nei prossimi anni specie in un Paese che invecchia rapidamente come il nostro» rimarca Stefano Solari, direttore scientifico del Rapporto. Che aggiunge: «Rispetto alla prima edizione la popolazione straniera residente in Italia è passata da 3,9 milioni agli attuali 5, il numero di occupati da 2,0 a 2,4 milioni. In questi sei anni gli immigrati hanno versato complessivamente oltre 50 miliardi di contributi Inps».
Tra le comunità con più contribuenti (si vedano le tabelle) spicca quella rumena, paese Ue, con oltre 662mila presenze, che precede l’albanese (256mila), la marocchina (211mila) e cinese (191mila). Il termometro dei redditi pro capite segna una media, per le dichiarazioni dei redditi 2016, di quasi 13.630 euro, +2,7% rispetto all’anno precedente. Al di sotto dei 10mila euro i nati in Ucraina e in Cina. Le medie più elevate, sopra i 20mila euro, sono per francesi, argentini e svizzeri.
Sul fronte dei contributi previdenziali, considerando tutti i lavoratori nati all’estero per l’anno d’imposta 2015, i 3,1 milioni di dipendenti hanno versato 15,4 miliardi, a cui vanno aggiunti 1,4 miliardi di contributi versati da imprenditori e lavoratori autonomi. Limitandosi invece ai cittadini stranieri, il volume dei contributi previdenziali raggiunge i 11,5 miliardi. «Il contributo economico degli immigrati al sistema paese è sostanzialmente positivo - evidenziano i ricercatori della Fondazione Moressa -. Considerando l’età media relativamente bassa (33 anni contro i 45 degli italiani, ndr), il loro impatto sul welfare è limitato, pari a meno del 2% della spesa pubblica mentre il gettito Irpef e i contributi Inps fanno segnare un saldo attivo di oltre 2 miliardi».
Il Rapporto presenta anche delle stime sull’apporto economico degli immigrati in una condizione di irregolarità amministrativa: si tratta di 643mila lavoratori, pari al 24% degli occupati immigrati, di cui quasi la metà presenti al Nord. È al Sud dove è più forte l’incidenza degli irregolari. Maglia nera al settore dell’agricoltura, dove si supera la quota del 41% e si è in attesa di vedere gli effetti della legge sul contrasto al lavoro nero entrata in vigore lo scorso novembre, che precede le costruzioni e i servizi. La Fondazione stima in 14,9 miliardi il valore aggiunto prodotto dagli immigrati non in regola. Oltre a essere un elemento distorsivo della concorrenza tra le imprese, il fenomeno causa un mancato gettito pari a 6,5 miliardi.

sabato 14 ottobre 2017

LETTURA DEL VANGELO DELLA XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1. "Il regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Matteo 22,1-14)
il regno dei cieli significa qui il regno di Dio e cioè la famiglia dei figli di Dio.
Il regno di Dio è simile ad un banchetto di nozze, non ad una caserma, ad un'azienda, ad un'agenzia di servizi, neppure a un convento o a un monastero severo, tantomeno a un tribunale.
La festa che accompagna il banchetto prevede una grande abbondanza di vivande. Nella simbologia biblica l'abbondanza di cibo significa l'abbondanza della conoscenza e cioè della sapienza e della vita. C'è anche la gioia a rallegrare il cuore degli invitati al banchetto. Essere invitati personalmente dal re è un grande onore ed è altro segno della bellezza della festa.

2. Il motivo profondo del rifiuto

Il re invita al suo pranzo, invita a gustare le sue vivande prelibate, invita alle nozze del suo proprio figlio.
Ma gli invitati pensano al proprio campo da curare, ai propri affari.
Ecco: gli invitati non sono disponibili a mettere da parte le loro faccende, i loro interessi.
Sono prigionieri di loro stessi, perciò respingono ciò che li obbligherebbe a badare a qualcosa d'altro.
Non sanno gioire della gioia di un altro. Non sanno riconoscere il primato di un altro.
Insomma: è l'eterna tentazione dell'uomo di conquistare una falsa autonomia da Dio, ignorandolo e difendendosi. E, forse, l’uomo non ha torto:  Dio infatti è molto esigente: dà tutto ma vuole anche tutto.
Farsi amare da Dio è molto difficile.
L'uomo è sempre un bambino che vuole prescindere dai genitori cui si ribella.

3.  La punizione per il rifiuto

I servi sono i Profeti uccisi.
Il Figlio è Gesù Cristo.
Il brano di Matteo allude alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.
Il male, vuol dirci l’ evangelista, è un boomerang: ed è questa  la punizione.

4. L'invitato senza la veste 

Ecco il senso: non basta avere accettato l'invito. Bisogna anche cambiare la propria esistenza in ragione dell'invito.
L'abito nuziale da indossare nel banchetto di Dio è la carità insieme alla  conversione.
Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: questi sono coloro che dimostrano di avere carità e di sapersi ogni giorno convertire

venerdì 13 ottobre 2017

Tre milioni di bambini muoiono di fame

Ogni anno, nel mondo, sei milioni di bambini muoiono prima di aver compiuto i cinque anni «per cause curabili e prevenibili». Tra queste la malnutrizione, che ne uccide tre milioni: la metà delle morti infantili. Cinquantadue milioni di minori sotto i cinque anni soffrono la carenza improvvisa di cibo, 155 milioni sono . malnutriti cronici. II nuovo rapporto di Save the children, "Una fame da morire", spiega che in 103 Paesi a medio e basso reddito 689 milioni di minori sono "poveri multidimensionali": in India lo è la metà dei bambini, nove su dieci in Etiopia, Niger e Sud Sudan.
Nel Corno d'Africa e in Kenya, in seguito all'emergenza climatica “El Nino,, sette milioni di bambini subiscono la carenza d'acqua e di sostanze nutritive. Solo nel 2016 guerre e insicurezza alimentare hanno provocato la fuga di 65,6 milioni dî persone e 122 milioni di bambini affetti da malnutrizione cronica vivono in zone colpite dai conflitti.
Se 52 milioni di bambini (1 su 12) sono colpiti da malnutrizione acuta, di cui più della metà in Asia meridionale, 41 milioni risultano obesi o in sovrappeso: quattro milioni sono in Paesi ad alto reddito. In quest'ultimi si contano però anche 1,6 milioni di minori colpiti da malnutrizione cronica. A livello globale cresce . la pratica dell'allattamento al seno, che garantisce ai neonati maggiori possibilità di sopravvivenza nei primi mesi di vita. Oggi sarà l'organizzazione Cesvi a presentare l'Indice globale
della fame 2017. (c.z Repubblica del 13/X/2017.)

domenica 8 ottobre 2017

Meditazione al Vangelo della XXVII Domenica del T.O.. Don Pietro

1. Sia il brano di Isaia che quello di Matteo narrano la storia tragica di un rapporto, quello tra Dio e l'uomo, attraverso la metafora della vigna.
Protagonisti della vicenda sono il padrone della vigna, la vigna stessa e i vignaioli.
Per Isaia il rapporto è di appartenenza totale, di amore generoso e la vigna è come una persona amata intensamente. "Canterò per il mio diletto un cantico d'amore per la sua vigna" (Is, 5).
Purtroppo l'esito del rapporto è deludente: anziché grappoli dorati la vigna ha prodotto solo uva selvatica. Perciò dal cuore del profeta scaturisce il canto dell'amore tradito, della giustizia disattesa, della fedeltà infranta.

2. La parabola evangelica

Quì la vigna non è avara di frutti. Sono i vignaioli che vogliono accaparrarsi del raccolto.
Il senso nascosto nella parabola è che la vita, dono di Dio, deve essere offerta a Dio. L'uomo non può rivendicare una autonomia totale da Dio. Dio invia agli uomini i suoi servi e alla fine il suo proprio Figlio: ma i vignaioli li uccidono tutti. Il male commesso dagli uomini alla fine, però, si ritorce contro gli uomini stessi.

3. Le due tentazioni della parabola

La prima tentazione consiste nel voler disporre della propria esistenza e del mondo in autonomia totale da Dio. Significa cioè volersi fare  Dio, decidere da soli il bene e il male. Accade quando l'uomo col suo comportamento violento nei confronti della terra finisce per distorcere l'ordine che Dio vi ha inscritto. Un altro esempio è quando l'uomo indebitamente si appropria di tutti i beni della terra  escludendo gli altri dalla loro fruizione.
La seconda tentazione consiste nel misconoscimento e nel rifiuto violento dei profeti e del Figlio stesso di Dio. Non solo gli ebrei hanno eliminato i profeti ma anche i cristiani continuano a farlo nei secoli.

4. Conseguenze

Verrà  il giorno in cui Dio ci chiederà conto della sua vigna. C'è il rischio che Dio ci tolga la vigna per darla ad altri vignaioli più fedeli.
Nel campo di Dio non esistono primogeniture né possessi definitivi.
Per fortuna e grazie a Dio ci sono anche vignaioli fedeli. Sono quelli che migliorano la vigna per offrirla a suo tempo al legittimo proprietario.
Noi ora siamo nel tempo dell'assenza del padrone della vigna.
Però dobbiamo ricordarci sempre che Dio ritornerà e fin a quando non viene avrà pazienza con tutti noi.
Se noi però perseveriamo nel rifiuto, allora incombe su di noi  un giudizio severo: una sentenza di morte!
Gesù, il Messia, non mette fine alle contraddizioni della storia, come tutti spereremmo, ma si pone al centro della contraddizione e da qui la scioglie.