La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

venerdì 29 settembre 2017

Riflessione al Vangelo della XXVI domenica del tempo ordinario. Don Pietro

Il racconto, molto semplice, è noto: un padre invia i suoi i due figli a lavorare nella vigna. Il primo dice di  andarci, ma poi non lo fa. Il secondo dice di non volerci andare, ma poi ci va. Destinatari della parabola sono i capi dell’establishment politico-religioso di Israele, che Gesù identifica con il primo dei due figli, e quanti, nei secoli, si comportano allo stesso modo.
A tutti Gesù contesta l'incoerenza tra l’adesione facile e ipocrita a Dio,  a parole, e i comportamenti reali che la smentiscono. Una fede, intende dire Gesù, che non ha riscontro nella prassi, che non si traduce in vita concreta, è falsa ed esclude dal regno. 
In verità -pare sottinteso nelle parole di Gesù- anche un'obbedienza  recalcitrante, senza gioia, non è proprio il massimo che Dio si attende dagli invitati al regno.
Neppure il secondo figlio è un modello di quella obbedienza gioiosa che deve accompagnare il compimento della volontà paterna. Ma è sempre meglio della falsità di chi dice sì e poi non fa. Insomma, l'ideale sarebbe che sostanza in forma andassero insieme. Però Dio si contenta della sostanza, anche se offertagli con rozzezza e a malincuore, mentre detesta che sotto un vestito di belle parole e propositi non ci sia poi niente, si nascondano, anzi, orecchi da mercante e disprezzo della sua parola.
Come spiegare il comportamento formalmente ineccepibile ma  di fatto inosservante del primo figlio (e di quanti per primi sono invitati da Dio al regno)? Il giovane, forse, era un po' superficiale, pensava che nella vigna (nel regno) si va come in gita di piacere, per sdraiarsi e godersi il fresco sotto gli alberi. Invece c'è da faticare, sudare e soffrire. Godersi i frutti e il riposo sono promessi soltanto per dopo.
Può anche darsi che quel giovane (il credente) amasse il quieto vivere e non gli piacesse litigare con il padre. In fondo dire di sì e non fare, che costa? Com'è diverso il profeta Giona, che apertamente si ribella a Dio e non ha alcun timore a dirgli che farà esattamente il contrario di quanto gli è stato ordinato. Sorpresa: Dio non si arrabbia. Mette solo mano ad una pastorale per il ribelle e, alla fine, gli fa fare la propria volontà. Dio detesta la falsità, non l'onesto resistergli.
A parziale discolpa del primo figlio si potrebbe invocare anche uno stato costitutivo di debolezza della sua volontà. In tal caso il sì prontamente detto era sincero. Lui, a lavorare in vigna, voleva andarci sul serio. Ma poi, scoraggiato dagli impegni gravosi che l'attendevano, si è tirato indietro. Se non giustificarlo, possiamo almeno comprenderlo. Non farà così anche Dio con le guide disobbedienti di Israele, vecchio e nuovo? Auguriamocelo.
Al secondo figlio, sulle prime renitente ma poi pentito e presente al lavoro, va riconosciuta l'attenuante della impulsività. I giovani spesso ne sono vittime : contestano per principio, il loro posto è all'opposizione permanente, quello che dicono i padri va sempre respinto, la loro identità la costruiscono contrapponendosi. Ma poi, nel segreto della coscienza, se rientrano in se stessi, se guardano al mondo con un po' di sano realismo..., capiscono che le indicazioni dei padri non sono tutte da buttare o riconducibili a volontà tirannica, a dispotismo autoritario, e si piegano.
Certo, Gesù non è stato tenero con i primi figli (i capi di Israele): niente più regno per loro, sostituiti da prostitute e da pubblici peccatori pentiti. Non si equivoch: peccato e prostituzione non costituiscono benemerenze o titoli da far valere al botteghino del regno. È il pentimento che spalanca le porte; non importa che il comportamento pregresso non sia stato dei più esemplari.
Dietro a un vero pentimento c'è,  è naturale, la fede come obbedienza. Perché credere non è semplice assenso intellettuale a Dio, peggio se soltanto verbale, ma "fare la volontà del Padre".
Questa parabola è balsamo per quei genitori (educatori, formatori...) che fra i loro figli dovessero annoverare qualcuno discolo, ribelle, cocciuto e disobbediente. Se, infatti, il padrone della vigna il padre di due figli simboleggia Dio, è confortante rilevare come anche Dio con i suoi figli fallisce al 50%. Si accade a lui... si consolino i genitori, come fa Dio, pensando al figlio che, nonostante un po' di sgarbatezza, alla fine obbedisce alla volontà paterna, e la vigna non resta incolta.
Con i figli bisogna accontentarsi e sperare che alla fine gli giri dritta. Dio fa così.

sabato 23 settembre 2017

LETTURA AL VANGELO DELLA XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Che la logica di Dio, il suo comportamento, siano altri rispetto alle nostre più ragionevoli aspettative; che lo stile del suo agire risulti sorprendente soprattutto per il comune senso di giustizia, emerge con evidenza solare dalla parabola di operai mandati a lavorare nella vigna a ore diverse e ai quali viene corrisposto lo stesso salario, con tanto di mugugno e  protesta da parte di quelli chiamati fin dal primo mattino.
È che il massimo della giustizia consiste, per noi, nel fare parti eguali nella divisione di un bene, anche se i partecipanti alla distribuzione non si trovano nelle stesse condizioni. Ci sembra lo esiga  l’equità canonizzata nell'antico principio: unicuique suum, a ciascuno ciò che gli spetta in proporzione del suo diritto.
Ma Dio, vuol dirci Gesù, non la pensa affatto così. Intanto Dio fa parti eguali fra diseguali. Egli non segue, cioè, criteri meritocratici, di gelida giustizia distributiva: a ciascuno il dovuto secondo i suoi meriti.
Dio non dà secondo il diritto di ognuno, ma secondo il bisogno di ognuno. Appaia a noi ingiusto o no, il comportamento di Dio verso l'uomo non segue il nostro criterioo di giustizia. Non che Dio non abbia provato a far andare avanti il mondo secondo la nostra giustizia. Ma -narrano antichi racconti rabbinici- Dio dovette prendere atto che non funzionava. Nacque allora la sua giustizia, che non ha più come simbolo i piatti della bilancia in equilibrio, ma che pende piuttosto da una parte: è il piatto della misericordia, della gratuità e dell'amore.
La notizia è di quelle eccellenti anche per noi: meglio affidarsi al buon peso della misericordia divina che ai nostri veri o presunti meriti. E poi, chi ci garantisce di far parte del novero dei chiamati della prima ora? Buon per noi, allora, che Dio distribuisce lo stesso salario a tutti, non in misura delle nostre prestazioni, ma del suo amore e del nostro bisogno di vita e di gioia. È una vera fortuna per noi sapere che il rapporto dare e avere Dio lo ha tutto squilibrato a nostro favore, eccedendo nel dare.
Il salario che l'uomo riceve, qualunque sia l'ora della chiamata, non deve mai essere visto soltanto come il frutto della sua fatica. Esso ha sempre dentro di sé una  preziosità nascosta: quella della grazia, del dono e dell'amore di Dio. Il salario di ogni ora è sempre il salario della bontà e della misericordia del Signore.
Compreso così il rapporto Dio-Uomo, probabilmente non sono più idonei i termini con cui la parabola definisce descrivere i due partner della relazione: padrone-servo. Non è, infatti, in questa prospettiva, offensivo o quantomeno riduttivo considerare Dio come un padrone che dà una paga?
Non è più bello vederlo come un Padre che dà un dono? E può l'uomo comprendersi come un freddo prestatore d'opera, per giunta portatore nei confronti di Dio di rivendicazioni salariali?
Quanto più arricchente è sentirsi come un figlio, gioioso di servire per amore! E non è oltremodo gratificante sapere che Dio, pur potendo prescindere da noi, ci chiama a dargli una mano nella vigna del regno? Come è avvilente appiattire soltanto sull'economico ogni rapporto! Com'è triste avere solamente diritti da rivendicare e non favori per cui essere grati...
Ancora due brevi notazioni a margine della parabola.
Da essa emerge chiara la cattiveria dei cosiddetti giusti. Non capiscono e non tollerano la bontà. Per loro tutto deve avvenire secondo legge. Che Dio ce ne liberi! Un mondo regolato soltanto dalla legge sarebbe infinitamente triste. A conforto, poi, di chi dovesse ritenere che per lui o per i suoi cari non giunga mai la chiamata di Dio, la parabola parla dell'ultima ora del giorno, quella buona per i non ancora chiamati. Nessuno, dunque, disperi della salvezza. Dio è sempre in orario, anche se in ritardo secondo i nostri orologi. I suoi tempi non sono i nostri…

venerdì 15 settembre 2017

Meditazione al Vangelo della XXIV domenica del T.O.. Don Pietro

Il segno, per sé e per il mondo, che si è discepoli del Signore non va cercato (non lo si troverebbe!) nel fatto che fra essi non avvengono mai  screzi, incomprensioni e non siano possibili comportamenti non proprio  esemplari di alcuni verso altri. La prova dell'appartenenza alla famiglia di Gesù è soltanto nella capacità di sapersi perdonare reciprocamente rimettendosi le offese. Questo Pietro lo aveva compreso. Il suo è un problema aritmetico, di quantità: sino a quante volte bisogna accordare il perdono? Dovrà pur esserci un limite!
Ancora una volta Gesù spiazza Pietro e la cerchia dei discepoli: il perdono deve essere illimitato o, nel gergo dell'epoca, deve essere accordato "settanta volte sette", cioè sempre.
L'antica legge di Lamech, "Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamec 'settantasette volte (Gn 4,24), è abrogata. Con Gesù vige il condono illimitato, a imitazione di quello che il Padre celeste offre ai peccatori. È questo e nessun altro il metro del perdono che Gesù indica ai suoi:  esagerato,  eccessivo, smisurato, al rischio di approfittamento come ogni vero amore, com'è l'amore di Dio che i suoi figli devono imitare.
Per esemplificare questo suo  esigente insegnamento e perché lo si tenga bene a mente, Gesù narra la parabola del servo spietato e punito perché restio a offrire agli altri la misericordia che pur aveva personalmente e corposamente sperimentato a proprio vantaggio.
Il messaggio del racconto è trasparente: il dovere di perdonare, non ci fossero altre ragioni (e ci sono!), nasce dal fatto che Dio perdona a noi le colpe, se lo supplichiamo. È un dovere di pura e semplice restituzione. E c'e anche convenienza: chi non ha nulla da farsi perdonare da Dio? La nostra ostinazione nel non perdonare, i nostri odi tenaci, chiudendo il ministero della grazia divina attivano quello della giustizia, e il suo titolare, lo sappiamo, vede ombre anche negli angeli...
La spietatezza del servo verso il subalterno si ritorce a suo danno e diventa la misura con cui il giudice ultimo tratterà chi è inflessibile e spietato verso i fratelli.
Per godere e non abusare della misericordia divina, l'unica strada è quella di usare misericordia verso chi ci offende e ci fa del male. Le cose tristi, spiacevoli e disdicevoli che avvengono fra noi sono segno che siamo e restiamo sempre creature fragili ed esposte al male. Se sappiamo  ricomporle con un perdono generoso, è segno che siamo discepoli del Signore. Allora il nostro amore non è più soltanto umano, è divino. Non siamo più noi ad amare, ma è Dio che ama in noi. Diventiamo un po' come Dio e, noblesse oblige, dobbiamo imitarlo nel suo amore perdonante.

sabato 9 settembre 2017

meditazione al Vangelo della XXIII domenica del Tempo Ordinario. Don Pietro

1. La correzione fraterna

A. Il brano ha come  orizzonte la comprensione della Chiesa come comunità di uomini e donne chiamati a vivere da fratelli e sorelle.
Essi non sono perfetti, ma fallibili.
Essi sono amati accolti e perdonati ogni giorno.
Anch'essi ogni giorno si amano, cercano e devono perdonarsi, se sbagliano.
Al centro della comunità c'è l'amore di Dio in Gesù e delle regole di vita alternative a quelle del mondo.

B. Cosa fare quando un fratello sbaglia?

Innanzitutto bisogna essere certi che ha sbagliato!
Bisogna mettere poi in atto tre interventi a tre livelli distinti:
Innanzitutto l'ammonizione interpersonale a quattro occhi. Non fermarsi al sospetto malevolo, non cedere al pettegolezzo da comari da cortile, bandire ogni forma di maldicenza.
In secondo luogo viene la discussione del caso  alla presenza di due o tre testimoni, discreti e sapienti.
Terzo intervento: il dibattito dinanzi all'assemblea della comunità.
Lo scopo deve essere sempre quello di recuperare il fratello.
Esperiti vanamente i tentativi di recupero, si prende atto, con dolore, dell'auto-esclusione del fratello dalla comunità.

C. Approfondimenti

Il deviante è da recuperare perché resta sempre fratello, è da amare, sull'esempio del Padre celeste che si prende cura dei più piccoli perché non si perdano.
La eventuale colpa non corrompe il vincolo di fraternità.
La comunità cristiana deve continuare nel tempo le scelte di solidarietà a favore dei peccatori operate da Gesù nella cui persona si è fatta presente la sollecitudine pastorale di Dio.
La sollecitudine di Gesù che riflette quella del Padre è regola di vita della comunità dei discepoli.
La prassi della correzione fraterna proposta dal Vangelo ha i suoi precedenti nell'Antico Testamento, in particolare nel codice di santità del Levitico (19,18)
La correzione fraterna si inserisce in quella giustizia più grande di quella degli scribi e dei farisei che i discepoli devono attuare e che si accompagna al dovere di riconciliazione fraterna e all'amore anche per i nemici.

2. Perché amare sempre?

Perché siamo amati e perché amati "siamo"
Perché dobbiamo riprodurre e non fermare l'amore di Dio verso di noi.
Perché dobbiamo far nostra la premura di Dio verso l'uomo deviante.
Perché, nel caso specifico del recupero del fratello, la nostra preghiera potrà essere esaudita.

3. Conclusioni

Ma considerare il deviante  impenitente, incorreggibile e recidivo, come un pagano e un pubblicando", non contraddice lo stile misericordioso di Dio rivelato e attuato in Gesù tanto compassionevole da essere considerato l'amico dei pubblicani dei peccatori?
Ora, se era giusto stabilire dei limiti nella prassi della correzione fraterna; se era ragionevole fissare dei criteri di appartenenza ecclesiale, nessun limite dev'essere posto all'amore fraterno.
Il fratello escluso dalla comunità continua ad essere amato da quel Dio che non discrimina gli uomini tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti, ma fa piovere sui buoni e sui cattivi,  fa uscire il sole per i giusti per gli ingiusti.
Quelli che vogliono essere figli di questo Padre, devono adottare lo stesso stile continuando ad amare anche quelli che sono stati esclusi dalla comunità, ma non dal proprio cuore.

domenica 3 settembre 2017

RIFLESSIONE SUL VANGELO DELLA XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. DON PIETRO

1. "Gesù cominciò a dire che doveva andare a Gerusalemme… soffrire molto... e venire ucciso, e risuscitare il terzo giorno".

Quel "doveva" è molto sconcertante: in Dio non abita la necessità, ma solo la libertà assoluta. Ma, più ancora, Dio è amore e per amore, solo per amore, accetta e sceglie la logica dell'amore e cioè darsi, consegnarsi all'amato, essergli fedele fino in fondo.
Tra la forza dell'onnipotenza e la debolezza dell'amore, Dio in Cristo sceglie quest'ultima. Dio non vuole imporsi con la forza, ma solo con l'amore. Dio vuole affermare non la potenza di sé, ma l'amore. Egli vuole vincere il male e la morte, caricandoseli sulle spalle.

2. "Pietro, scandalizzato, protesta: "Dio te ne scampi, Signore, questo non ti  accadrà mai"

Pietro ragiona come noi. Per lui il successo è segno della benedizione divina. Mentre sofferenza e morte sono segno della disapprovazione e condanna divina. Qual è il problema di Pietro? È il seguente: può il Dio della vita manifestarsi nella morte? Volere la sofferenza e manifestarsi nel fallimento?

3. Gesù abbraccia la volontà di Dio

Gesù è innocente, ma al battesimo si confonde con i peccatori e il Padre si compiace in lui. Il Padre viene testimoniato da Gesù come Padre e amico di chi non merita l'amore divino.
Nel deserto Gesù rifiuta la strada facile del successo e resiste a Satana, ora resiste a Pietro che viene definito Satana, perché il discepolo che Gesù pure amava non rivela l'orto-sentire (l’orto-prassi, il retto sentire, il sentire secondo fede).

4. Lo scandalo della croce

Per salvare la creatura Dio non usa la sua onnipotenza, ma un amore fedele e la condivisione della sua miseria.
Gesù è il segno vivente di questa solidarietà di Dio. Egli prende (tollit) su di se i nostri peccati. Egli condivide il nostro destino di sofferenza e di morte. Egli rinuncia ad affermare e a difendere se stesso.

5. La croce vie vera di salvezza, nient'altro

Solo il Dio crocifisso con i crocifissi  della storia è il Dio che ci salva. Perché sulla croce, massimo nascondimento di Dio, c'è il massimo della rivelazione divina. Lì Dio si rivela come amore sconfinato, infinito, scandaloso e incomprensibile. Solo lo Spirito può aprirci, con il dono della fede, alla comprensione del mistero della croce.