La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 23 dicembre 2017

Lettura al Vangelo dell'ultima domenica di Avvento. Don Pietro

1. Premessa

Non è Maria  il centro focale della odierna liturgia della Parola. È Dio, i cui pensieri, propositi e operazioni risplendono in pieno in questa creatura che, in risposta, vi consente pienamente.

2. Gli "angeli" e l'angelo"

Tra l'uomo e Dio c'è un’abisso incolmabile. L'uomo non può raggiungere Dio se Questi non prende l'iniziativa di scendere, di squarciare i cieli per andargli incontro.
Uno degli strumenti attraverso cui Dio comunica con gli uomini sono gli Angeli. Portano all'uomo la Potenza, la consolazione, la compagnia di Dio. Soprattutto la sua Parola.
Per il mistero oscuro del Male può accadere -è accaduto e accade- che l'uomo si lasci sedurre da falsi angeli, ministri delle tenebre ammantati di luce.
Il criterio per poter discernere tra angeli di Dio e angeli al servizio del Maligno va individuato nel tenore della proposta che essi fanno e dalle conseguenze che discendono dall'accoglienza del loro messaggio.

A.,  Gli angeli seduttori:

La Bibbia ha registrato un caso di cedimento grave di alcune creature -donne precisamente- alla seduzione esercitata nei loro confronti da uno stuolo di angeli perversi, falsi messaggeri di Dio.
Solleticandole nel loro fascino femminile -punto debole nel naturale e culturale narcisismo di ogni donna- questi angeli seduttori le convincono ad unire la loro bellezza fisica con la potenza superiore che essi avevano in quanto creature sovrumane, angeliche.
Da questa unione -insinuano gli angeli tentatori- nasceranno uomini di divini, autonomi da Dio, piccole divinità in grado di sfidare Dio, di fare a meno di lui. Insomma l'antico delirio di onnipotenza per l'uomo.
Dice Isaia del re di Babilonia in una elegia satirica e potente:

" Tu pensavi: salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell'assemblea divina, salirò sulle nubi nelle regioni superiori e mi farò uguale all'Altissimo!
E invece, sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell'abisso infernale" (Is 14, 13-15)

Così ragiona e agisce l'uomo che vuole sfidare il Dio con la complicità degli spiriti malvagi che ottenebrano la sua mente e il suo cuore esaltandoli.
Il giusto, invece,  sa che solo Dio può salvarlo dalla sua povertà radicale di creatura.
Egli sa di vivere sospeso tra due parole: la misericordia sovrabbondante di Dio e la sua miseria abissale.
L’uomo che sfida Dio è respinto da Dio e ripiomba nella sua miseria.

La Bibbia si informa della provenienza di questi angeli seduttori:  scendono dal cielo. Si ammantano di religiosità e sacralità. Cioè:
La religione può diventare una forte tentazione per la mania di grandezza dell'uomo.
Dall'unione di questi falsi "figli di Dio" con le donne vanitose (cioè con l'uomo preda dell'orgoglio) nascono i giganti, i potenti e violenti della terra che gettano il mondo in una catastrofe cosmica. E Dio manda il diluvio come castigo per la loro malvagità.
Questi figli nati dalle donne si sedotte dagli angeli sono i dominatori del mondo, quelli che si fanno venerare come figli di Dio e diffondono sulla terra  violenza e morte.

B.  L’Angelo di Maria

Ben diverso è il racconto di Maria e dell'angelo Gabriele.
Come quelle donne, anche Maria dà alla luce un "figlio di Dio".
Ma questo figlio non porta sulla terra il dominio e, dunque, violenza e morte. Al contrario porta una promessa di pace vera.
Questo figlio di Dio non si fa adorare come Dio a motivo del suo potere politico, ma segue la via dell'impotenza sino alla croce e tuttavia è superiore ad ogni potenza.
Quelle donne che si uniscono agli angeli servi delle tenebre si lasciano sedurre dalle loro lusinghe, cedono alla magia oltre che alle loro malie. Maria, invece, ricevere l'angelo che le annuncia  il concepimento e la nascita di un figlio, ma rimane consapevole della sua creaturalità, del suo essere semplicemente una donna che accoglie la Parola di Dio, se na fa fecondare per mettersi totalmente al servizio della vita e, ora, anche della vita divina. E in ciò risponde fedelmente alla sua vocazione di donna divenendo modello, icona, di ogni credente e di ogni comunità di fede.
C'è un confine da superare: quello tra cielo e terra.
Nel mito dei figli di Dio che si uniscono carnalmente alle figlie degli uomini  il tentativo è di superare il confine attraverso il sesso, considerato come potere divino, interpretato come forza divina, sacra.
In Maria, invece, i cieli e la terra si uniscono attraverso la Parola di Dio donata e accolta. Questa Parola di Dio è una forza creatrice: suscita la vita, genera  in Maria il figlio di Dio, supera i confini tra cielo e terra, annuncia pace sulla terra, produce l’elevazione dei poveri, degli affamati e degli umili.
Questa Parola di Dio, se accolta, crea anche in noi un uomo nuovo. E così diventiamo tutti  figli e figlie di Dio, sorelle e fratelli di Maria e di Gesù.

domenica 17 dicembre 2017

III Domenica di Avvento. Riflessione al Vangelo di Don Pietro

1. Un invito alla gioia

Un invito che assume quasi il tono di un precetto, di uno ordine: "Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino".
Ma si può comandare la gioia? È possibile, oggi, per l'uomo e per il credente parlare e proporre la gioia? E quali sono le ragioni e i contenuti di questi eventuali atteggiamenti di letizia che siamo chiamati a vivere e a testimoniare al mondo ?

2.  La situazione

Assistiamo ad una crescente di riduzione della gioia di vivere e ad una diffusa noia dell'esistenza. Spesso siamo delusi e scoraggiati, tristi e annoiati nel presente e tutti siamo presi dalla preoccupazione e dall'ansia per il futuro.
Sappiamo anche, per esperienza personale, che i piaceri del cosiddetto benessere non ci bastano, che anzi rischiamo di morire dentro, nella corsa in cui siamo impegnati per averne sempre di più con la paura che, per il gran numero di concorrenti, finiamo per arrivare tardi rimanendo a mani vuote.
Siamo consapevoli che ormai  si impone, per necessità oggettiva oltre che interiore, uno stile di vita più sobrio e semplice, ma facciamo fatica a liberarci di un modello che definiamo consumistico nel senso che ci consuma la vita.
I giovani avvertono più degli altri questa noia e questa tristezza che cercano di soffocare in diversi modi fino a giocarsi la vita per un momento di emozione come stendersi di notte sulla linea di mezzeria d'una corsia autostradale per vedere cosa succede...

3. Lettura della situazione alla luce della fede

La parola di Dio rispetto alla condizione umana ci avverte e ci ammonisce che il nostro cuore e il cuore della storia non hanno in sé il potere di darsi la gioia, ma hanno bisogno di riceverla come dono, come salvezza.
È Dio, e soltanto lui, che in Cristo fascia le piaghe del cuore. È Dio, e solo lui, che in Cristo ci libera dalle nostre schiavitù e prigioni, dal tedio della vita e dall'angoscia del tempo.
È qui la ragione della gioia: cioè nella speranza radicata nella fede che Dio, in Cristo, ci apre ad una novità sempre possibile e ad un cambiamento sempre in atto.
La gioia, perciò, non può esistere come sentimento spontaneo ed emotivo del cuore, ma essa nasce dall'adesione profonda alla persona di Gesù Cristo e cresce continuamente nell’ascolto della parola e nella preghiera, nella docilità allo Spirito e nella fedeltà anche nella sofferenza.
La gioia è, perciò, un itinerario che esige interiorità.
Questa esige il silenzio che vince il chiasso e l'alienazione delle cose.
Il silenzio porta all'ascolto di Dio che parla al cuore dell'uomo facendolo sentire amato da lui e sollecitato da lui a scegliere e a seguire ciò che rende felice vera: la verità e l'amore da vivere fedelmente anche nelle prove e nelle difficoltà, nelle delusioni e nelle contraddizioni della vita. Insomma: la sorgente unica della vera gioia è Dio. Solo chi è in relazione viva e profonda con lui conosce e sperimenta una gioia che il mondo irride e non può conoscere.  Ad esso basta lo stordimento del divertimento e la breve euforia di un'allegria chiassosa e vuota.

Il Buddismo ritiene che la causa dell'infelicità umana siano i desideri insoddisfatti. La terapia consisterebbe  nell'eliminazione di tutti i desideri.
Il messaggio cristiano afferma invece che i desideri del cuore umano debbono essere orientati a Cristo che, essendo la pienezza delle nostre aspirazioni, deve essere anche l'oggetto dei nostri desideri.
Ciò che conta per conoscere e vivere la gioia è tendere a Cristo, unificare in lui la nostra vita lacerata e  divisa.
Tendere a Cristo: è l'invito di Giovanni Battista che dirotta  le folle verso il Cristo. Lui è il Messia, lui la speranza, lui la gioia, lui lo sposo.
Giovanni ne è solo il battistrada, la voce, l'amico. Lui, come la Chiesa, potrà anche deludere, ma Cristo non smetterà mai di essere la nostra gioia e la nostra speranza.
A Cristo possiamo tendere, ma non pretenderlo: egli è il grande dono del Padre. Dunque anche la gioia è grazia, puro dono.
Questa grazia ci è  data in ogni eucaristia che è celebrazione gioiosa della salvezza del Signore.
È la gioia pasquale quella che passa nella celebrazione eucaristica. E’ una gioia capace di vincere ogni tristezza derivante dal peccato edalle prove e contraddizioni della vita. È una gioia che nasce dalla visita del Signore che dà speranza e liberazione alla vita di ogni giorno.
Colmi di gioia ci apriamo alla lode, al ringraziamento e alla benedizione. Chi è gioioso sa ringraziare, benedire e lodare: Dio per il suo amore, i fratelli per il bene che operano, la vita perché  dono grande nonostante le prove.
Una gioia da testimoniare.

domenica 10 dicembre 2017

Riflessione al Vangelo della II Domenica di Avvento. Don Pietro

1. Un Dio "testardo" 

Il Dio della rivelazione biblica ci appare come un Dio tenace e irriducibile, mai rinunciatario. Tenta  sempre di nuovo, provando e riprovando. I fallimenti non lo scoraggiano più di tanto. L'incompiuta a cui più lavora sono "i Cieli nuovi e la terra nuova nei quali abbiano stabili di mura la giustizia”. A Dio non interessa un semplice restauro di facciata.

Non che l'insuccesso di Dio sia totale. Le imprese gli è già riuscita in Cristo, nuovo Adamo, immagine perfetta del Padre e nei Santi: una moltitudine che nessuno può contare, “144.000,,, cioè una schiera infinita.

Vorrebbe riuscirci per tutti, ma l'ostacolo più grande gli viene dall’uomo. Che si è messo in testa per prendere il posto di Dio. Ma emerge solo come un inguaribile usurpatore, malato di onnipotenza, un suo vecchio e vero delirio. Tentò con una mela e l’ha pagata a un prezzo altissimo e ha ritentato subito con una Torre a Babele... Un vero recidivo:  continua imperterrito la sua impossibile impresa.
Ora l'uomo è tutto rotto, incerottato e ferito: ha rovinato la sua vita con questo suo maledettissimo vizio di voler essere dio ed è diventato tiranno dei suoi simili e nei suoi confronti è aperta da tempo una procedura fallimentare. Intanto è di pessimo umore, è infelice e rende gli altri infelici.

2. Dio consola e cerca collaboratori
 Per favore: non credete a chi accusa Dio di tanto disastro! E’ l’uomo il vero e principale responsabile!
Intanto Dio è impegnato a consolare e curare le vittime dello sfacelo operato dall'uomo: sono milioni e non c'è mano che non grondi sangue…

Intanto che consola, Dio continua a lavorare al suo progetto: rinnovare i Cieli, far nuova la Terra.
Ma ha bisogno di collaboratori: ciascuno di noi nel suo piccolo, è destinatario della chiamata. Dobbiamo passare da antagonisti di Dio a suoi collaboratori sentendone la fierezza e la responsabilità insieme.
Dio però ci avverte: l'impresa è laboriosa e i tempi sono lunghissimi. Perché il cambiamento dev'essere profondo, non di facciata, niente chirurgia plastica, niente bacchetta magica.
Dio diffida di tutti i "nuovisti", i "miglioristi "e dei falsi rivoluzionari.
Dio supera anche Giobbe in pazienza e invita anche noi alla pazienza. Pazienza  con lui: 1000 anni sono come un solo giorno. Pazienza con noi:  soste, impuntature, ritardie. E pazienza  con gli altri: hanno i loro tempi e i loro ritmi.

3. Cambiare se stessi

Il primo cambiamento Dio lo sollecita  da ciascuno di noi: da me, da te, da ciascuno.
L’esempio e modello è Giovanni Battista, profeta ruvido, scostante, impopolare. Si spoglia di ogni vanità, diserta la piazza della città e sceglieil deserto. Cerca l’autenticità della sua voce, no la potenza degli altoparlanti. Prima di predicare si impone con l'austerità e con la serietà della sua vita..

4. Convertirsi

Questo si chiama convertirsi. Ma noi non desideriamo la conversione, anzi la temiamo perché significa mettersi in gioco. La conversione è oggettivamente dura, ma è l'unica strada del cambiamento. "Impara a vivere in pace  e migliaia di anime intorno a te troveranno la salvezza" (San Serafino di Sarov)

5. La grazia della conversione

Perciò Dio ci dona la sua grazia. Il primo dono è il battesimo di acqua che serve a purificare, a raddrizzare le storture della mente, del cuore e della volontà, a colmare i vuoti di ascolto della Parola a causa del frastuono e della  vanità, ad abbassare le alture e cioè l'idolatria, l'affermazione del proprio io ad ogni costo. Poi ci chiama come Giovanni a sperimentare il deserto: perché Dio parli al nostro cuore e perché possa entrare nelle profondità della nostra esistenza dove risiedono i desideri più veri, dove elaboriamo i progetti, le scelte fondamentali della nostra vita. La via di Dio passa attraverso il deserto:lì avvengono gli incontri decisivi dello spirito.

6. Il battesimo nello Spirito

Così saremo pronti per un altro battesimo, quello nello Spirito santo.
Sarà lui a spingerci e a portarci. Lui accenderà in noi un fuoco: la passione della verità e dell'amore.
Pur rimanendo nella carne, diventeremo creature spirituali: occhi, gesti, parole, corpo e anima ne saranno segnati.
Diventeremo una novità mai vista: la novità di Dio.
Se solo ci decidessimo!...

giovedì 7 dicembre 2017

RIFLESSIONE SULLA SOLENNITA’ DI MARIA L’IMMACOLATA. Don Pietro

1. L'annunzio angelico
Troviamo nel brano di Luca lo schema tradizionale delle Annunciazioni: l'apparizione angelica, la reazione timorosa del destinatario, l'annuncio centrale, l'obiezione, il segno.
Il filo conduttore del brano è il tema del dono e dell'accoglienza. In Maria Dio ci offre il suo dono più grande, cioè il Figlio.
La sua figura in filigrana è nel piccolo credo al centro dell'annuncio angelico: il dono è Gesù, un uomo ma anche il salvatore. Egli è "grande", è Re eterno, cioè il Messia. È il Figlio dell'Altissimo, il Figlio di Dio, è il Santo, appartenente a Dio.
 Nel strano c'è anche la professione di fede come esaltazione dell’amore di Dio per noi.

2.  La risposta di Maria al dono
C'è la piena disponibilità di Maria al dono di Dio. Tutto il suo essere è offerto a Dio.  Da questa disponibilità deriva la nostra salvezza.
In Maria si realizzano pienamente il dono della presenza di Dio nell'uomo dopo le presenze nalla tenda dell'appuntamento, nella nube, nel Tempio.
C'è anche il legame profondo tra Maria e lo Spirito santo: Panaghion si dice dello Spirito, tutta santità, cioè. Panaghia, cioè tutta santa, si dice di Maria.
Lo Spirito santo scende in lei per purificarla, renderla capace di ricevere il Verbo.
Come lo Spirito, anche Maria ispira consola e incarna la Parola.
Lo Spirito di Dio si rivela anche attraverso la femminilità di Maria.
Di Maria il brano attesta la verginità: la cultura corrente la irride  perché  è incapace di coglierne il senso profondo. La nascita attraverso la carne non è peccaminosa, ma è nascita per la morte! La nascita attraverso lo Spirito è per un'esistenza che, affrontando la morte, la vinca.
Nel brano c’è anche il senso della libertà vera.
 Maria è la prima creatura che, a differenza di Adamo, non escludendo Dio ma accogliendolo, realizza in pieno la libertà della persona umana. Con una sua parola: "ecco sono la serva del Signore, accada a me  secondo la sua Parola",  Maria ha risolto la tragedia della libertà umana.
In Maria risplende anche il mistero della bellezza. La tutta santa è anche la tutta bella, ma noi la ottenebriamo con la nostra opacità. Maria, invece, a cominciare dal suo corpo, restituisce alle cose da loro trasparenza e così si purifica e offre in sé tutta la vita del mondo.
S. Ireneo ci ricorda: "Maria è la terra ridivenuta vergine perché Dio possa plasmarvi il nuovo Adamo".
Maria, cioè, compie la bellezza della creazione. Nella sua carne di Madre di Dio la terra, la materia, l'universo sensibile, ritrovano la loro verginità feconda e ridiventano "Paradiso".

“Maria dunque è la prima persona umana (Gesù era persona divina) in cui la creatura può vivere  il mistero della sua libertà e il mistero della bellezza, una bellezza che genera e suscita comunione”.

Conclusione
Il sì di Maria dobbiamo pronunciarlo anche noi e moltiplicarlo.
In Maria è anticipate il destino della Chiesa e del mondo: essere immacolati  e irreprensibili davanti a Dio, pronti e degni per il mondo che viene.
Maria è anche  la madre della tenerezza. Le sue lacrime, come fontana di giovinezza, ricreano i nostri vecchi cuori, pieni di amarezza e disperazione.
Un folle di Dio del settimo secolo vide Maria che stendeva il suo velo sulla città di Costantinopoli, cioè sull'umanità. È il velo delle lacrime di Maria. Maria, infatti, è madre del Cristo: a Cana di Galilea lo genera definitivamente al mondo. Perciò è madre della consolazione. Ed è diventata madre di ogni discepolo ai piedi della croce.
Ogni vero discepolo come lei deve diventare preghiera, accoglienza, offerta di sé.
Con la preghiera: conservando nel cuore le cose di Dio e meditandole.
Con l’accoglienza: del dono di grazia di Dio.
Con l’offerta di sé: mettendosi a disposizione dell'amore perché ami in noi.

sabato 2 dicembre 2017

Riflessione sulla Prima domenica di Avvento. Don Pietro

1. NUOVO ANNO LITURGICO E AVVENTO

Accogliamo con animo lieto e cuore aperto alla speranza la grazia di un nuovo inizio di quel rapporto che Dio, per mezzo di Cristo  e nello Spirito, ha stretto con ciascuno di noi, come persone uniche e irripetibili e come membri della comunità credente. Un rapporto -è bene mai dimenticarlo- che è insieme croce e delizia della nostra vita.
Riconosciamolo con umiltà e preoccupazione: i legami di fede e di amore tra noi er Dio, sottoposti all'usura di un tempo così carico di complessità e  contraddizioni come il nostro, rischiano lentamente di allentarsi, difatti ogni giorno si affievoliscono e rischiano di diventare insignificanti e  ininfluenti per la nostra vita e per il senso dell'esistenza che così  finisce tutta prigioniera del contingente, del vuoto, con la minaccia dell'assurdo e, spesso, dell'angoscia e della  disperazione. Cioè della morte.
Fotografa la nostra condizione molto bene il profeta Isaia quanto scrive:

" Siamo divenuti tutti come cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia: tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento" (Is 63)

Allentato il legame di fede-fedeltà con Dio facciamo grande fatica anche a vivere nella speranza:
Sembra che Dio, quel Dio che da sempre ci è stato indicato come Padre amoroso che provvede ai suoi figli, se ne stia ora inerte, lontano, senza prendersi più cura dell'umanità che, per questo, conosce un periodo di morte e vive in una cultura  nichilistica.
Sul versante della scena  del mondo le speranze di pace universale che non molto tempo fa erano riaffiorate in seguito a grandi rivolgimenti storici, sembrano affogare in un penoso risorgere della guerra, di conflitti fratricidi, privi di senso e sostenuti solo dall'odio etnico, dalle fazioni di lotta per il potere, dall'utilizzazione della strage terroristica per vincere una competizione che appare a tutti priva di una direzione costruttiva.
Abituati a credere nella presenza di Dio nel mondo, siamo così ora assaliti dal timore di essere abbandonati alle forze del male, di non essere ascoltati da Chi è sempre stato presentato come “Colui che ascolta".
Sul versante della nostra piccola vicenda personale, il dolore che sperimentiamo ci colpisce nella speranza di una vita tranquilla e felice. L'incombere della malattia e della morte sconvolge la fiducia che ci avevano inculcato in un Dio protettore e dispensatore di felicità.
Ci assale il dubbio che Dio non sia veramente un padre amoroso e  giusto, dal momento che permette che accadano cose tragiche: paurose perdite di felicità e di salute.
A volte addirittura sospettiamo che Egli sia quasi un nemico che perseguita l'innocente o, comunque, punisce l'umanità peccatrice ben oltre le sue colpe.
Ma perché Dio permette tanto male, perché non sopporta, perché non usa la sua potenza contro gli abissi del dolore?

2. COME REAGIRE?

Come deve reagire l'uomo dalla fede profonda e viva a queste laceranti domande, come vincere questi dubbi atroci?
L'uomo credente, il chiamato alla santità, il semplice, sa che l'esperienza del silenzio di Dio è una delle caratteristiche del cammino di fede: tutti i grandi santi hanno   attraversato la notte dello spirito senza più sentire la presenza di Dio. Ma proprio questo passaggio nella notte si è trasformato in un momento di crescita della fede che ha fatto ritrovare loro ciò che credevano perduto.
Certamente è stato un momento di prova e di verifica della capacità di tenuta della loro fede.
Questa fede proprio grazie a questo attraversamento nelle tenebre, ha prodotto una purificazione dell’immagine di Dio, un Dio da non pensare più in termini umani, da non poter nemmeno descrivere se non con le parole del desiderio di amore e di vicinanza.
Una fede che nel momento della croce, mentre le tenebre trionfano, si fa grido:
“Dio mio, Dio mio, perhé mi hai abbandonato?”,
ma che è capace di affidamento fiducioso:
“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”.

Una fede che nella frequentazione costante e nella familiarità quotidiana con Gesù, il Figlio di Dio, ha interiorizzato così profondamente nel cuore e nella vita la presenza di Dio da poter sostenere, senza devastazioni, anche i periodi, a volte lunghissimi, della sua lontananza e assenza, certi del suo ritorno.

3. IL TEMPO DI AVVENTO

Questo tempo di Avvento che inizia è tempo favorevole per questo esercizio di interiorizzazione della presenza di Dio. Il Dio della nostra fede è un Dio che viene.
L'Avvento è celebrazioni di questo venire incessante di Dio, è memoriale di un passato nel quale Dio ha operato, e annuncio-anticipo di un  futuro nel quale Dio porterà a compimento quello che ha iniziato, è segno presente di un dono che Dio fa oggi.
Il nostro atteggiamento in questo tempo di Avvento dev’essere di attesa.
Attesa come un aspettare pazientemente Qualcuno che deve venire.
Attesa come desiderio profondo del Dio che salva e porta novità di vita. C’è chi non attende più nulla, né da sestesso, né dagli altri, né dalla vita, né da Dio.
A volte manca il senso dell’attesa perché ci sentiamo autosufficienti, nonostante oggi questa autosufficienza sia molto in crisi su ogni piano.
Attesa come attenzione e vigilanza al passaggio di Dio e ai segni della sua assenza-presenza nascosta.
Attesa come invocazione e grido:

“Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”; “Tu sei Padre,ritorna per amore dei tuoi servi!”; Nella tua fedeltà che mai vien meno, ricordati di noi, Signore”.

Attesa come speranza, come esercizio di speranza: la speranza non è la soluzione dei problemi, è solo la forza per portare il peso della vita e della storia, un peso che o lo si porta insieme ad altri, ad una comunità di uomini e donne, o non lo si riesce a portare affatto. La speranza è la parola di Dio a donne e ad uomini che si rivolgono a lui con le loro parole, che sono poi le parole della fede, le parole dell'abbandono fiducioso.
Per portare il peso delle vicende umane bisogna diventare veri, trovare il coraggio (dal napoletano "aggi core") è davvero avere il cuore, diventare vivi, essere persone viventi, persone in relazione, a immagine di Dio.
Ma essere vivi, persone con un cuore, significa anche produrre segni di speranza facendo sentire che realmente nella nostra esistenza il bene è,  la verità è, la vita è.
Oltre la preghiera è atto religioso anche accorgersi che l'altro ci guarda ed ha bisogno di noi.
L’Eucaristia è il primo segno di speranza che pone una comunità perché è il segno della disponibilità a dare la vita.
Forse  le terre promesse sono ancora lontane, forse non vi entreremo,  ma intanto insieme possiamo cominciare a gustare le asprezze di un deserto che ci costituirà popolo.
Accettiamo, dunque, la limitatezza del nostro essere creature scoprendo, in questo tempo di grazia dell’Avvento, che Dio ama proprio me, nel mio limite, nel mio peccato, perché per il Signore ciò che conta non è il mio passato, ma il modo in cui vivo la realizzazione del regno.
Leggiamo le nostre vite come piccole storie nelle quali riconoscere il passaggio del Signore.


giovedì 30 novembre 2017

Dedicato a tutte le mie amiche e sorelle

Ciao ,mi hanno mandato un post che parla delle donne che si trovano nella Bibbia e voglio condividerlo con te...

Non mollare MAI.... !
Sii "audace" come  Ester, e coraggiosa abbastanza, per schierarti a difesa della verità, non temere di dire la tua opinione, lotta per il bene davanti all'opinione pubblica anche a costo di sacrificare te stessa. Se Dio ti ha portato in una posizione è per uno scopo. Non avere paura a prestare attenzione alla voce interiore. Sii come Rut, leale in tutte le tue relazioni, fai un miglio in più e non tornare indietro quando incontri difficoltà. Un giorno vedrai perché ne è valsa la pena.
Sii come  Lidia, lascia aperta la tua casa, lascia che le tue mani siano generose, lascia che il tuo cuore sia grande abbastanza per aiutare chiunque sia in difficoltà. La gioia è più grande se condivisa.  Sii come Hanna, non smettere mai di pregare. Non sarà mai inutile.     
Sii come Maria ,  umile e sottomessa. Non devi essere orgogliosa che Dio ti sta utilizzando, tu devi solo obbedire.  Sii come Dorcas, usa i tuoi talenti, per quanto piccoli sembrano, anche per portare un semplice sorriso sul volto di qualcuno. Non saprai mai quanto importante quel sorriso potrà essere stato. Sii come Abigail , ricordati come ogni decisione possa trasformare la tua vita intorno a te per il bene o per il male. Sii saggia.   
Sii come Elisabetta, non importa ciò che Dio fa, é Dio dei miracoli.             
Sii come Maria Maddalena, non lasciare che i tuoi errori e giudizi di altre persone ti impediscano di sperimentare la gioia di Dio.             
Sii come Rebecca, non dimenticare mai, che la vera bellezza è nella tua personalità. Attira tutte le persone che tu ami vicino a Dio attraverso il tuo carattere cristiano.
E infine: Sii come Sara, l'età non è importante, solo la fiducia e la fede che tutte le cose sono possibile con Dio secondo i suoi tempi.

sabato 25 novembre 2017

Solennità di Cristo Re. Riflessione di don Pietro

1. il senso della regalità di Dio in Cristo

Dopo l'esperienza fallimentare e deludente della regalità umana rivelatasi corrotta,  traditrice, oppressiva e idolatra, Dio, attraverso Cristo-Messia, decide di assumere in proprio una regalità alternativa a quella mondana.
Se i re della terra esercitano il potere come dominio, la signoria di Dio in Cristo si caratterizza come servizio umile, generoso al povero che vive in ogni uomo.
Se i potenti della terra opprimono, sfruttano e angariano, Dio in Cristo realizza e attua la vera giustizia.
La signoria di Dio è la forma più alta di grazia orientata alla comunione dell'uomo con Dio e degli uomini tra di loro.
La signoria di Dio attraverso Cristo diventa alla fine anche giudizio sulle opere degli uomini e in particolare dei potenti.

2. La regalità di Dio in Cristo trasferita alla Chiesa e ai credenti.

La Chiesa, partecipando della regalità di Cristo, riceve un onore grandissimo ma si espone anche ad un rischio altrettanto grande e si sobbarca ad un onere non indifferente.
La Chiesa partecipa veramente alla signoria del Cristo se come lui sa farsi serva della verità, della pace, della giustizia, della dignità di ogni uomo.
Come Cristo era re per la salvezza degli altri così anche la Chiesa non è per sé, per la sua riproduzione, per la sua permanenza in eterno, ma è per il regno.
Il regno di Dio inizia già nella storia ma avrà il suo compimento, la sua pienezza, solo alla fine della storia.
Il regno di Dio ha come destinatari privilegiati i poveri e quelli che si fanno poveri, come il Cristo.
Il regno di Dio è un regno di carità concreta verso gli affamati, gli assetati, gli ignudi, i carcerati, gli stranieri, le persone sole e abbandonate...
Nel regno di Dio l'amore è personale, non solo universale.
Nel regno di Dio si proclama e si indica  a tutti la condivisione dei beni. E, infatti, la vera divisione che fa scandalo e grida a Dio è quella tra chi mangia e chi non mangia, chi ha un tetto, un letto… e chi non ce l’ha…

3.  La legge del regno

La legge fondamentale ed unica del regno è l'amore. L'amore verso il fratello come riflesso ed espressione dell'amore di Dio in noi e del nostro amore verso Dio.
Un amore che può e deve avere molti nomi:  attenzione, sensibilità, perdono, solidarietà, condivisione, lotta della giustizia e per la pace, disarmo, istruzione, liberazione...
L'amore, ci ricorda l'apostolo Paolo nel capitolo 13 ai corinzi, inizia non tanto col fare delle cose, ma esattamente con l’astenersi dal fare certe cose come per esempio cedere all'orgoglio, all'egoismo, alla vanità, allo sfruttamento, all'ingiustizia, all'offesa ecc.. L'amore, è ancora Paolo a ricordarcelo, non consiste nell'elemosina. Col danaro abbiamo corrotto tutto, anche l'idea di carità. Amare non è innanzitutto dare. Amare e soprattutto darsi.
Amarsi, poi, è molto meglio che armarsi.

sabato 18 novembre 2017

La parabola dei talenti: riflessione al Vangelo della 33ª domenica del tempo ordinario. Don Pietro

Questa parabola di Gesù non intende minimamente legittimare il sistema economico finanziario né vuol essere una esaltazione dello spirito imprenditoriale o dell'efficientismo mercantile.
Questa parabola vuole solo proiettare una luce su Dio, sull'uomo, sui beni della terra.
I talenti di cui si parla alludono al grande dono della vita con tutti i regali che l'accompagnano. Investendo il talento della vita questo talento si moltiplica e arricchisce chi lo investe sempre di più.

Vediamo un po' i personaggi di questa parabola.  Anzitutto il padrone e poi i primi due servi donatari dei talenti
Il padrone a un certo punto è assente, se ne va, non c'è.Questa assenza  allude al silenzio in cui   Dio è entrato dopo aver pronunciato la sua  parola più alta sulla croce. Dopo quell’evento Dio  non ha più nulla da dirci. Dio ha  affidato la sua  parola nel tempo  del suo silenzio allo Spirito Santo.
Questo padrone è generosissimo nel dispensare le sue ricchezze. Dunque è buono, è munifico, vuole il nostro bene, la nostra felicità e ci da tutto ciò che ci può servire perché questa felicità non sia solo un sogno ma una realtà.

Questo padrone è buono e sorprendente perché non pretende indietro ciò che ha donato ai suoi servi e alla fine questi serbi sono resi signori perché nel suo regno Dio non vuole ricchi, ma  vuole che tutti siano signori. I ricchi non danno a nessuno ciò che hanno, invece i signori sanno condividere quello che hanno.
Questo padrone giudica buoni come Dio creando uomo e  la donna vide che erano molto buoni.
 Questo padrone giudica buoni i primi due per il loro agire. Se Dio fosse un'agenzia di Rating darebbe a questi due servi attribuirebbe un A tre. 

Vediamo invece il terzo servo, colui che rinuncia a investire il suo talento perché non ritiene suo il talento, perché non crede alla generosità e alla bontà del suo padrone, perché non sa rischiare. Egli seppellisce il dono ricevuto e seppellendo il dono seppellisce un po' se stesso. Agisce così  perché giudica cattivo il padrone  donatore Forse è  affetto un po' da paranoia perché vede il male in tutti gli altri. Infine lui si limita solo a non fare il male. lL’agenzia di rating sarebbe molto severa con lui.
È quali sono gli insegnamenti per noi in questa parabola?
Primo insegnamento: una falsa immagine di Dio, un  Dio percepito come cattivo come giustiziere  finisce fatalmente per  bloccare la nostra crescita personale.

Secondo insegnamento: La paura ci  paralizza e ci fa restare infantili e  non ci fa crescere.

Terzo insegnamento:  stiamo attenti! Dio si adira per una sua immagine negativa perché essa distorce i tratti del suo volto.

Quarto insegnamento:  produrre vita è accrescere la propria vita e quella degli altri.

Quinto insegnamento:  il fazzoletto in cui l'ignaro nasconde e seppellisce il talento che ha ricevuto e il sudario che si stendeva su un cadavere prima di seppellirlo hanno in greco lo stesso vocabolo.

Sesto insegnamento:  la vera fede libera le energie non le inibisce mai.

martedì 14 novembre 2017

Alberto Maggi: "Siamo tutti schiavi del più grande tabù"

Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di "eresia", è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell'esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede."Avevo appena ultimato un saggio sull'ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d'urgenza per una dissezione dell'aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l'esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi... Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l'eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all'ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell'azione creatrice del Padre".

Fatto sta che oggi si persegue tutt'altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
"È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell'uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all'infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l'uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa... Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po', ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte.

Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l'estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un'ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto".

Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
"Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: "Noi che siamo già resuscitati", "noi che sediamo nei cieli". Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentrebiosindica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovaniscedi giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai".

E allora l'Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
"Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa".

Non è una visione del cristianesimo un po' troppo gioiosa, consolatoria?
"Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall'alto. Quando stavo male, le persone pie  -  che sono sempre le più pericolose  -  mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione".

Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all'effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
"Questo secondo l'immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l'uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un'offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l'uomo ".

Ecco che salta fuori Maggi l'eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
"La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l'uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l'uomo. Con Gesù invece Dio è all'inizio e il traguardo finale è l'uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l'osservanza della legge divina e il bene dell'uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell'uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all'uomo".

Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos'altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
"Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l'apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà".

Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
"Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all'immensità dell'amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell'Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce".

venerdì 10 novembre 2017

VANGELO DELLA XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. COMMENTO DI DON PIETRO

Le comunità cristiane post-pasquali attendevano come imminente il ritorno glorioso del signore Gesù, la sua parusia. Questo clima di attesa, protraendosi molto, aveva indotto non pochi al disimpegno, in qualche caso a un vero e proprio ozio spirituale e materiale, come nella comunità dei Tessalonicesi. Paolo indirizzerà a quei cristiani moniti molto severi. Verosimilmente anche nel suo gruppo  Matteo deve aver registrato un calo di tensione spirituale e morale, riconducibile pur’esso a una diffusa delusione per il ritardo del Signore. Memore di una parola di Gesù sul comportamento da tenere proprio nell'eventualità di un differimento della sua venuta, Matteo ripropone la parabola delle dieci vergini, adattandola al momento particolare che la sua Chiesa stava vivendo.
La parabola ad alcuni è parsa parecchio inverosimile. E infatti certi particolari  presentano un carattere più vicino all'allegoria che alla parabola. Tenendo conto di queste osservazioni, proviamo a leggerla come rivolta a noi che, similmente ai nostri antenati cristiani, viviamo nel tempo dell'attesa di un ritorno del Signore che sentiamo ancora lontano.
Gesù, annunciando il proprio ritorno, aveva già più volte esortato i discepoli ad una vigilanza attenta e operosa. Ora li invita ad essere prudenti e preveggenti, nel senso di attrezzarsi dell'occorrente nel caso in cui l'attesa della parusia dovesse protrarsi.
L'incontro tra il Signore che ritorna e l'uomo che lo attende era stato finora descritto da Matteo come rapporto padrone-servo. Con questa parabola il rapporto diventa sposo-sposa. Quest'ultima, cioè la Chiesa, è la realtà a cui alludono le dieci vergini. Non c'è dubbio che la metafora nuziale è molto più ricca di tonalità affettive e anche più biblica: basti pensare al profeta Osea.
La festa nuziale di cui parla il brano è ambientata nella notte. Metafora potente, la notte! Certamente la più idonea per alludere a quella condizione di buio profondo e in cui la creatura tanto spesso viene a trovarsi, prigioniera delle tenebre. Tenebre rotte soltanto dall'affanno e dal gemito dell'uomo; tenebre anche come allegoria del peccato e della morte.
Proprio nel cuore della notte, a mezzanotte, l'ora del trionfo massimo delle tenebre, man che l'ora più amata da Dio, accade l'imprevisto: Dio visita la sua creatura, la Chiesa, il mondo, per legare tutti gli esseri con un vincolo d'amore eterno e senza più  ripensamenti.  Dieci vergini escono incontro allo sposo. In questa breve notazione è racchiuso tutto il senso dell'esistenza:  vivere è uscire, esodo permanente da quella tirannia che il proprio io faraonico vuole imporre su tutto, per scoprirsi viandanti tesi ad un incontro con Qualcuno che da sempre è già in cammino verso di noi.
Cinque di quelle dieci vergini sono prudenti perché portano con sé una scorta d'olio per le lampade. Le altre cinque, essendo stolte, non lo fanno.
Ancora una volta grano e zizzania insieme, pesci buoni confusi con i cattivi. Sarà così sino al ritorno dello Sposo, piaccia o no ai nostalgici del paradiso in terra e di una Chiesa già ora senza rughe e senza macchie.
Le cinque stolte erano comunque vergini. Evidentemente la verginità da sola non garantisce, se non si sposa con altre virtù, con la prudenza nella fattispecie. Prudenza, in questo caso, come preveggenza, accortezza, sapienza, discernimento,  intelligenza, giudiziosità..., insomma tutto il corteo delle altre preziose virtù che rendono la prudenza indispensabile. Un dono dello Spirito, la prudenza, da invocare nella preghiera, da accogliere con cuore riconoscente, ma anche da coltivare  esercitandola ogni giorno.

"Poiché lo sposto tardava, si assopirono tutte e dormirono".

Perché questo ritardo dello sposo?
Perché l'ora di Dio non sempre coincide con la nostra ora. Perché anche il suo ritardare è grazia per noi. Con l'attesa può crescere e diventare più vivo il nostro desiderio di lui e la sua assenza può diventarci salutarmente insopportabile. E intanto, mentre aspettiamo, possiamo purificarci, prepararci meglio all'incontro: il tempo, vuoto di per sé, c'è dato proprio per questo e possiamo anche, se è a una festa di nozze che dobbiamo andare, viestirci degli abiti della festa smettendo quelli logori della fatica e del pianto.
C'è, però, la tragica possibilità che le vergini, tutte e dieci, comprese le prudenti, si addormentino. Accade quando non riusciamo ad essere più uomini e donne dell'attesa di Qualcuno. Cioè quando non siamo più niente, perché la creatura altro non è che vuoto che anella a colmarsi, assenza assetata di compagnia, solitudine alla ricerca di un tu in cui ritrovarsi.
Accade all'uomo sazio che ha tutto e non è più in grado di accorgersi che manca di Tutto, che è di infinito la sete infinita che lo divora.
Accade quando non si è più capaci di vedere e interpretare i segni premonitori dell'arrivo dello sposo: la profondità della notte e il sonno dei cuori. Già, il sonno. Non è identico nelle dieci vergini. Quello delle stolte abbraccia anche il loro cuore. Nelle prudenti le membra esauste per il ritardo si abbandonano sì al sonno, ma il loro cuore veglia, presago delle visite notturne dello sposo. È il cuore ancora capace di sorpresa, aperto alla novità, consapevole che i giochi non sono mai fatti del tutto, il cuore che sta come sentinella sull'uscio a scrutare ogni impercettibile rumore di passi di viandante nella strada.

"A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro".
Chi sono quelli che debbono scuoterci dai nostri torpori grevi, snidarci dai rifugi onirici in cui amiamo rintanarci? Sono i profeti, i provocatori di coscienze intorpidite, i giusti con la limpidezza della loro vita; sono le moltitudini di uomini e donne in lamento e grido per l'oppressione che li sovrasta; è la chiesa quando lo Spirito la libera dal ripiegamento su se stessa. Ed è sempre un grido di gioia: ecco lo sposo, l'Atteso dei secoli, la speranza delle genti.

"Dateci del vostro olio...". "No..., andate piuttosto dai venditori e compratevene ".

Senza l'olio della fede-speranza-carità non può iniziare la festa. In oriente l'olio si offre all'ospite. Nel sogno dei profeti il suo fluire a fiumi giù per le valli  è il segno atteso per i tempi messianici insieme con cascate di vino. Nella lettura devota dei rabbini l'olio simboleggia la giustizia messianica che avrebbe illuminato e rallegrato la terra.
Il rifiuto delle vergini prudenti di spartire il loro olio con le stolte non va imputato a egoismo o ad avarizia. Il tempo della condivisione è quello che precede l'arrivo dello sposo. Oltre quella soglia si è soli davanti a lui, ognuno con quello che è riuscito a portare nelle proprie mani. Del resto, verità, giustizia, sapienza, amore..., sono conquiste personali, fatiche non delegabili ad altri,  esperienze fatte in prima persona anche se insieme con gli altri, mai vicarie. I compiti a casa non ce li può fare nessuno: al massimo qualcuno può aiutarci, mai sostituirsi a noi.

"E la porta fu chiusa".

Parola spaventosa. Decisione terribile. Dietro quella porta spalancata, nella sala illuminata a giorno, gioia, danze, festa: la letizia dell'amore, il gaudio di un incontro di intimità e comunione. Fuori, "pianto e stridore di denti". In mezzo lo sposso nelle vesti di giudice e una sentenza agghiacciante: "non vi conosco". Eppure anche quelle cinque vergini erano state invitate alle nozze...

"Vegliate dunque".

La vita cristiana è vigilia per tutto l'arco della sua durata. È attesa delle nozze. Occorre prepararsi all'evento. La lampada rischia di spegnersi se non la si alimenta ogni giorno con l'olio della preghiera, del desiderio vivo di Dio, di quella carità operosa secondo la misura sovrabbondante del "discorso della montagna". È di amore che dobbiamo riempire questo frattempo di grazia che ci è concesso.
Per il mondo il tempo è denaro. Per il discepolo è grazia, tempo offertogli per amare Dio che per primo ci ama e quanti lui ama.

venerdì 3 novembre 2017

RIFLESSIONE AL VANGELO DELLA XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Lo scontro tra Gesù e i capi di Israele va facendosi via via più duro. Dopo aver polemizzato vivacemente con loro, Gesù passa alla denuncia aperta e pubblica dei loro vizi più gravi e più scandalosi. Egli vuole smascherare agli occhi della gente quella onorabilità di cui si ammantano e di cui vanno fieri ma che, in realtà, è soltanto parvenza e nasconde comportamenti per niente lodevoli.
L'attacco che Gesù  sferra alle false guide religiose del popolo e la reazione rabbiosa che esso provoca fanno, intanto, precipitare sempre più gli eventi verso l'esito tragico della croce. L'ostilità che Gesù ora sperimenta nella propria pelle sarà la stessa che, alcuni decenni dopo la sua scomparsa, conoscerà la comunità di Matteo nello scontro con le autorità dell'epoca. La narrazione di Matteo rispecchia in qualche modo questa dolorosa situazione.

Gesù con una punta di ironia ma senza sarcasmo, riconosce la bontà degli insegnamenti impartiti dai suoi avversari, scribi e farisei, però diffida le folle dal seguire i loro esempi, "perché dicono e non fanno". Insomma, predicano bene e razzolano male. Le esigenze che l'osservanza scrupolosa della legge comporta, essi le conoscono e sono anche bravi a indicarle alla gente, salvo poi disattenderle nella loro vita quotidiana.
La  proposta morale, poi, che essi fanno è senza misericordia e compassione. Si limitano, infatti, a imporre pesanti fardelli sulle spalle del popolo, ma nulla fanno per aiutare chi, sotto quei pesi, rischia di soccombere. Se un insegnamento non è accompagnato da aiuti concreti per metterlo in pratica resta una pia e sterile esortazione, o finisce con lo scoraggiare e indurre alla rinuncia chi, generosamente, voleva provare a realizzarlo. Non così Gesù, che faceva prima di insegnare, e le sue pecore le guidava, le nutriva, le sosteneva e le incoraggiava nelle difficoltà.
Vanità, narcisismo,  esibizionismo, delirio di grandezza sono, inoltre, i vizi più diffusi di scribi e farisei. Vizi intollerabili agli occhi di Gesù che, invece, si è fatto servo disdegnando per sé onori e riconoscimenti. Sferzante è la sua parola contro il vezzo di quegli ineffabili signori, per i quali la fedeltà alla Legge si esaurisce unicamente nell'esibire sacre coccarde, sciarpe e distintivi vistosi sugli abiti, al solo scopo di far colpo sulla gente, di accreditarsi agli occhi degli ammiratori come persone profondamente attaccate alla religione.
Che cosa direbbe Gesù di certe nostre processioni e manifestazioni esteriori con tanto di stendardi, tuniche differenziate per gradi e colori, galiardetti, luminarie e vessilli vari? Che cosa c'e  sotto certe pubbliche rappresentazioni? E dopo, che resta?
Il Vangelo -è doloroso ma onesto riconoscerlo- è rimasto in gran parte disatteso dai cristiani, salvo nobilissime eccezioni. Dispiace, però, constatarlo  inattuato anche in quelle indicazioni che, tutto sommato, non richiederebbero grandi sforzi e dolorose rinunzie. Che fine ha fatto la diffida e la severa ingiunzione di Gesù di non sollecitare e di non fregiarsi di titoli onorifici e pomposi come "rabbi" (alla lettera: "mio grande") e "maestro"? È sacrificio tanto grande rinunciare spontaneamente a quei titoli e a quanti altri, nei secoli, ha escogitato la schiera congiunta di vanitosi e  adulatori?
Almeno in queste inezie si potrebbe tentare di essere fedeli alle indicazioni del Signore! Egli, in verità, ha disapprovato finanche l'uso della più innocente voce "padre", riservandola soltanto a Dio. Anche qui disobbedienza totale e continuata!
Quando capiremo che Gesù ha messo in quiescenza tutti questi titoli con cui ama paludarsi l'irriducibile vanagloria degli uomini?

martedì 31 ottobre 2017

NELLA SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI CI E’ PROPOSTO IL VANGELO DELLE BEATITUDINI. Don Pietro

1. Per manifestare il suo amore  Dio sceglie ciò che non è; sceglie il non valore.
Le Beatitudini indicano che  la predilezione di Dio è per gli uomini dove il non valore si esprime visibilmente.

2. Chi sono i poveri, gli afflitti, gli affamati… proclamati beati?
Non quelli che hanno il cuore distaccato dalle ricchezze, cioè i poveri in spirito.
Sono quelli che si trovano in una oggettiva situazione di indigenza, come i ciechi, i sordomuti, gli zoppi... che non possono esserlo in spirito, ma lo sono e basta!
A queste persone umanamente squalificate dal punto di vista fisico e/o sociale, Dio destina il suo regno.
Sono quelle che non hanno nulla da aspettarsi dalla vita, quelle che sono state tradite dalla vita.

3. Qual è il motivo di questa scelta da parte di Dio?
Non c'è nessun perché, se non quello che Dio sceglie così.
L’amore di Dio, che è gratuito verso tutti, nella scelta dei poveri realizza ed  esprime il massimo della gratuità.
Infatti nei poveri non c'è nulla che attragga lo sguardo di Dio.
Questa scelta di Dio verso i poveri nasce solo da quell'anima di amore che la informa e la determina.
Dio sceglie i poveri perché li ama: basta questo.
Dio sceglie i poveri perché sia chiaro che il suo venire all'uomo ha come unico motivo la gratuità del suo amore.
Non c'è nulla dell'uomo di cui l'uomo possa farsi bello e dire a Dio: "guardami".

4. La conferma nella Scrittura
Questa gratuità della scelta di Dio ha per oggetto costante i piccoli.
L'attenzione di Dio non è attirata dall'innocenza, dalla semplicità, dall'abbandono, dalla fiducia del bambino.
Gesù li predilige non perché abbiano qualcosa di interessante. Nel contesto sociale dell'epoca essi avevano piuttosto una connotazione negativa: erano considerati immaturi, istintivi, vittime dello spontaneismo.
Gesù li ama proprio perché in essi non c'è nulla che possa attirare l'attenzione,
li ama cioè gratuitamente.
Lo stesso dicasi per i pescatori dove la gratuità dell'amore è massima.
Dio sceglie peccatori e prostitute non perché siano migliori delle persone perbene, non perché in essi vi sia una qualche dote arcana che lo attiri, ma esattamente perché sono una vergogna. Ad essi Dio dona il suo amore.
Questa è lo scandalo del Vangelo e la sua buona notizia.

5. Una salvezza automatica per i poveri?
Basta, dunque, essere povero, peccatore per essere salvo?
La condotta personale non c'entra per niente?
Non è così, evidentemente.
La legge fondamentale dell'alleanza che salva è il rapporto tra la libertà di Dio che per primo ama e la libertà dell'uomo che risponde consentendo a quel amore.
Dio offre a chi è in condizioni di povertà il regno.
Il povero può accettarlo o rifiutarlo.
Se lo accetta, il povero accetta anche la propria povertà perché essa è stata fatta oggetto dell'amore gratuito di Dio.
E allora il povero diventa povero in spirito.
E questo è appunto il frutto e il segno della salvezza, dell'ingresso nel regno.
E la povertà, da condizione negativa, diventa positiva, proprio perché Dio offre il suo regno a chi è povero.
Allora: beati i poveri perché Dio li sceglie e poiché Dio li sceglie essi possono capire ciò che i ricchi non capiscono.

6. Chi non è povero è escluso dal regno?

La salvezza in Cristo è offerta a tutti.
Non ci sono giusti: tutti sono pescatori.
Il peccato per Gesù è una malattia, una risorgenza del caos, della minaccia all’esistenza dell'uomo.
L’esistenza dell'uomo è fondamentalmente insicura, non a casa sua, fuori di sé, alienata.
La malattia (paralisi, povertà, cecità) sono solo emergenze in superficie di un male, d'una miseria che è la stessa condizione umana nel mondo.
A questo malato Dio dona il regno.
Le  Beatitudini oltre che segno della gratuità dell’amore di Dio, servono a far prendere coscienza all'uomo della sua povertà radicale.
Quando questa povertà affiora nella malattia o povertà, l'uomo che ne è colpito non è un disgraziato, ma è doppiamente beato: perché il regno che è destinato a tutti, in quanto tutti sono poveri, è particolarmente destinato a lui in quella situazione. 
E chi non si trova in questa condizione, chi è ricco?
Il Vangelo esorta a disfarsi delle ricchezze: o donandole ai poveri, o rinunciando ad esse per andare dietro il Signore Gesù.

sabato 28 ottobre 2017

Riflessione al Vangelo di Don Pietro. XXX Domenica del Tempo Ordinario

1. Amare Dio e amare l'uomo

L'orizzonte imprescindibile per capire e cogliere il  senso di quest'unico comandamento con due versanti è l'amore di Dio per l'uomo.
Tutte le tappe della storia di Israele e tutte le strutture della creazione sono, nella Bibbia, sotto il segno dell'amore di Dio.
Creazione e storia e il loro confluire nel pane quotidiano a tutti viventi (Salmo 136,25) sono gli ambiti su cui l'amore di Dio ha esercitato la sua efficacia e la sua sempre nuova fedeltà, dal primo giorno fino all'ultimo, il Sabato del Signore.
Dal racconto biblico  emergono gli attributi dell’amore di Dio. Innanzitutto l'amore di Dio è gratuito nel suo sorgere e nell’ agire. È pura libertà di voler donare, senz'altra ragione che quella intrinseca al dono stesso. C'è poi la fedeltà ll giuramento: l'amore che Dio dà all'inizio vale per sempre. L'amore cioè, vincola se stesso con una forza che vince il logoramento del tempo. La tenerezza è l'altra caratteristica dell’amore di Dio. Dio si lascia prendere le sue viscere, cioè si coinvolge profondamente e partecipa a quanto accade alla persona amata. Se questa sbaglia può contare su un amore misericordioso e perdonante di Dio. Certamente l'amore di Dio si aspetta una risposta totale, piena, e incondizionata: amarlo cioè con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. L'amore di Dio non è solo  sentimento. È efficace e concreto: ci dona i beni di cui abbiamo bisogno per vivere.
Il Nuovo Testamento accentua e svela l'amore  irrevocabile di Dio che è dietro i doni che gli fa all'uomo, il pane, la salute, la pace, attraverso la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.

2. L'amore dell'uomo per Dio: la fede

A queste iniziative incredibili di Dio l'uomo può corrispondere solo amando a sua volta il suo Signore con tutto se stesso.
Il primo segno che questa corrispondenza d'amore è in corso è la fede.
Fede appunto come risposta all'amore di Dio. Fede come prova e manifestazione di amore per Dio. Credere, infatti, non è innanzitutto operazione intellettuale, ma coinvolgimento di tutto l'essere e l’agire dell'uomo, come realtà fondate e rifondate continuamente dall'amore di Dio.
Dio mi dà vita in Gesù: ecco il primato dell’amore di Dio. Io accolgo questo dono di vita: ecco la fede-risposta dell'uomo.
A questo affidamento totale di sé all'amore di Dio l'uomo fa seguire la sua volontà di mettersi a disposizione di Dio, di amarlo con tutto il cuore, di obbedire incondizionatamente al suo amore.

3. L'amore del prossimo

E la risposta dell'uomo all'amore di Dio.
L'amore per il prossimo non è espressione della spontaneità umana, ma esso viene comandato da Dio.
Nell'Antica Alleanza questo amore assume il volto esigente della giustizia. Nella Nuova Alleanza è formulato all'imperativo e, in Giovanni, è chiamato comandamento nuovo.
L'uomo accoglie nella fede con la fede l'amore di Dio e vi reagisce amando il prossimo.
L'amore per il prossimo è lo stesso amore che l'uomo riceve da Dio ed è generato da Dio stesso nel cuore del credente.

"Amatevi come e perché io vi ho amati"

E’ comandato perché non corrisponde a ciò che l'uomo ha in sé e può da sé.
È nuovo perché dono divino.
È libero perché posso non corrispondervi.
L'uomo non è capace di amore perché è dominato dalla ricerca e realizzazione di sé, sia nei rapporti strumentali che in quelli affettivi. Ora l'amore dice  un'uscita da sé che cerchi l'altro in ragione di lui stesso. Amare è rispondere a quello che l'altro è: una povertà che chiede di colmarsi.
L’ amore di sé degenera in egoismo nella forma della competizione violenta o della inimicizia verso l'altro.
L'amore divino quando lo accogliamo fa di noi  delle creature nuove liberandoci dall'impotenza di amare. Ci libera dalla necessità di competere e ci libera dalla legittimazione della inimicizia.
Senza questo amore del prossimo, l'uomo è nulla sul piano del senso profondo della sua esistenza.
L’agape fa diventare l'uomo quello che è: essere per gli altri e non essere per sé.
Perdendomi nell'altro io mi ritrovo.
Per questo amore l'uomo diventa come Dio: essere che si dona.
L’agape-amore verso l'altro assume la forma della giustizia.
In Dio come fedeltà alle promesse. Nell'uomo come risposta al bisogno dell'altro.
Il prossimo è il luogo della signoria di Dio. Il suo diritto diventa per me un dovere.
Gesù è principio e termine dell'amore cristiano. Principio: egli dice amatevi come io vi ho amati. Termine: "qualunque cosa avete fatto... l'avete fatta a meno".

venerdì 20 ottobre 2017

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessioni di Don Pietro Mari

 I nemici di Gesù non desistono. Anzi, l'autorevolezza con cui egli ha tenuto testa, svergognandoli dinanzi alla gente, li ha irritati ancor più. Dopo frenetiche consultazioni decidono di accantonare per il momento le loro discordie interne e di far fronte comune contro di lui e così, in combutta,  emissari dei farisei e degli erodiani partono al contrattacco, decisi più che mai a coglierlo in fallo per poterlo incastrare e, in qualche modo, farlo fuori.
La trappola che gli tendono è davvero insidiosa. Soltanto una perfidia diabolica poteva escogitarla. Maestri di menzogna e navigati nell'arte di fingere, si avvicinano a Gesù simulando apprezzamento per il suo insegnamento "secondo verità", deferenza per il suo coraggio e considerazione per la sua libertà verso tutti.
Illudendosi di averne captato la benevolenza atteggiandosi a discepoli desiderosi unicamente di apprendere, lanciano il loro laccio infido: gli chiedono di pronunciarsi con chiarezza, con un sì o con un no, su un dibattito in corso, una questione pratica ma con risvolti religiosi che accendeva e divideva gli animi: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?".
Fra le tante vessazioni con cui gli occupanti romani angariavano il popolo, c'era una tassa personale, imposta a tutti, anche agli schiavi oltre che alle donne e agli uomini, dai 14 ai 65 anni. Un balzello abbastanza il esoso da corrispondere attraverso una moneta appositamente coniata, un denaro d'argento,  equivalente al salario di una giornata lavorativa.
L'indignazione popolare, di cui il movimento rivoluzionario degli zeloti si faceva vivace interprete, nasceva dal conio, su dritto della moneta, della testa dell'imperatore Tiberio, oltre che dall'universale comprensibile scarso amore per ogni inasprimento fiscale.
Il piano escogitato dai nemici di Gesù è perfido, ma ben congegnato: un vero trabocchetto. Si avesse risposto che era lecito pagare quella tassa all'imperatore, si sarebbe alienato gran parte della simpatia popolare e lo si poteva incriminare di attentato a quell'unica signoria di Dio di cui il popolo era fieramente geloso: due risultati niente male per discreditare Gesù e avviare la sua eliminazione.
Se, invece, avesse risposto che non era lecito pagare quel tributo, allora si sarebbe pubblicamente schierato contro i romani e, una volta deferito alle autorità, avrebbero provveduto queste ultime a farlo fuori come eversore e sobillatore del popolo, con sistemi sbrigativi, a onta delle garanzie pur previste dalla loro decantata civiltà giuridica.
La posta in gioco per Gesù era molto alta e l'alternativa senza via di uscita, così almeno credevano i suoi interlocutori e avversari. Per Gesù si trattava, cioè, di scegliere tra fedeltà al popolo è lealtà al potere occupante; tra l'unica, indiscutibile signoria di Dio e il rispetto dovuto ad una legge odiosa quanto si vuole ma vigente; tra doveri religiosi e obblighi civili; tra l'appartenenza alla città degli uomini, con le sue norme, e a quella di Dio, anch'essa con i suoi statuti.

Gesù non si scompone. Intanto rigetta l'alternativa-capestro con cui i suoi nemici vogliono farlo impiccare da solo. Come in altre controversie, egli non segue i suoi interlocutori sul terreno da loro scelto. Consapevole della complessità della questione, rifugge da ogni sua comoda e superficiale semplificazione spostandola a un livello di più alta problematicità e rinviando ai mittenti la ricerca di una sua possibile e onorevole soluzione.
"Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio": in queste parole di Gesù è possibile cogliere un concentrato densissimo di sapienza nuova e profonda, pur nella loro stringatezza e apparente semplicità.

"Rendete a Cesare": dunque chi legittimamente detiene il potere può legittimamente richiedere prestazioni e i sottoposti, credenti o no, hanno il dovere di soddisfarle. Per Gesù non c'è spazio per l'anarchia e per rifiuti pregiudiziali dell'ordine su cui una convivenza civile si regge.

"... quello che è di Cesare", precisa Gesù, delimitando i confini del potere di quanti sono investiti della responsabilità di legiferare e governare.
Questi, vuol dirci Gesù, hanno aree proprie di competenza, e lì sono sovrani. Se, però, travalicano i loro confini, se peccano, cioè, di eccesso di potere, allora la lealtà e l'obbedienza non obbligano per in coscienza e l'obiezione e la trasgressione diventano non soltanto lecite ma doverose, costi quel che costi.

Gesù non indica i casi possibili di prevaricazione  dai propri limiti da parte dei detentori delle varie forme di potere. Il giudizio dipende dalle situazioni storiche ed è demandato al discernimento dei singoli, della comunità, con l'aiuto dello Spirito e la guida della parola. Se Cesare volesse legiferare su Dio, sulla sacralità e inviolabilità della vita, se volesse disporre dell'uomo da padrone assoluto -i casi ipotizzabili sono infiniti-, l'obbedienza a lui non sarebbe più virtù ma peccato, e anche non lieve, contro Dio e la sua unica signoria sull'uomo e sul mondo. Lealtà sì, ma condizionata, con riserva. Anzi, è dovere del discepolo esercitarsi in permanenza nella critica ad ogni potere che avanzasse pretese lesive di quella sovranità assoluta che compete soltanto a Dio. Il potere, in tal senso, non è divino, ma umano. Non va demonizzato ma neppure sacralizzato. Nei suoi confronti il credente deve far valere le riserve che la sua appartenenza ad un'altra città, quella di Dio con patria nei cieli, gli impone tassativamente. Nessuna teocrazia dunque, con i credenti convinti che dalla fede discenda un unico modello di società da imporre a tutti, magari con la forza. Ma, anche, nessun laicismo, con lo Stato che pretenda di entrare dovunque, anche in ambiti a lui preclusi.

I modelli, poi, del rapporto con Cesare possono configurarsi in svariati modi. A volte il credente si vede costretto a scegliere tra Cesare e Dio, dando soltanto a quest'ultimo piena obbedienza. Altre volte tra Cesare e Dio può instaurararsi un regime di rispettosa reciproca collaborazione, purché senza confusione, ambigui consociativismi  e compromessi. Può anche accadere che si debba prescindere da Cesare riferendosi soltanto a Dio, com'è accaduto a Gesù e, tante volte nei secoli, alla comunità dei suoi discepoli. Questi, comunque, non farebbero male a ricordarsi sempre che Gesù è stato perseguitato, processato, condannato e ucciso proprio dal potere. "Tra Dio e Cesare non c'è una stretta di mano, un patto... ma una croce. I Gesù patì sotto Ponzio Pilato perché fu davanti a lui testimone, come dice il Vangelo di Giovanni, della libertà dell'uomo e testimone della verità di Dio..., le due cose che il potere teme di più d'ogni altra. Ma sono anche queste le cose che Dio ama  più di ogni altra" (Paolo Ricca, Alle radici della fede, Claudiana, Torino 1987, p. 58).

" A Dio quello che è di Dio": conclude così Gesù la sua replica ai farisei e agli erodiani. Siccome tutto è di Dio ne segue che anche l'ottemperanza alle giuste leggi dello Stato, il cristiano deve viverla come servizio alla causa di Dio, con spirito religioso come un aspetto indiretto della sua volontà.
Niente e nessuno infatti, all'infuori di Dio, possono essere ragione sufficiente perché un credente si giochi vita. Questo primato di Dio, e di nient'altro che sia meno di Dio, il credente sa che puoi riconoscerlo e viverlo sotto qualsiasi regime politico. Storicamente non si sa bene se, ai fini della purezza e diffusione della fede, sia da auspicarne uno tollerante o uno biecamente persecutorio e stupidamente repressivo. 

martedì 17 ottobre 2017

IMMIGRAZIONE. IL RAPPORTO 2017 DELLA FONDAZIONE MORESSA.

Il Pil «straniero» vale 131 miliardi
Dai 2,4 milioni di lavoratori regolari arriva il 9% di ricchezza nazionale

Hanno prodotto quasi 131 miliardi di ricchezza, con un contributo vicino al 9% del Pil nazionale, pagato oltre 7 miliardi di Irpef e versato contributi previdenziali per altri 11 miliardi. Sono i 2,4 milioni di immigrati che lavorano da regolari in Italia. Nel 2016 sono poco più di cinque milioni gli immigrati con lo status di “regolare”, dato in crescita di un decimo di punto rispetto all’anno precedente.
Metà del contributo al Pil arriva dal settore dei servizi, oltre 26 miliardi di ricchezza provengono dal manifatturiero; seguono le costruzioni e il commercio, rispettivamente con quasi 12,2 e 11,6 miliardi. Il peso di alberghi e ristoranti sfiora i 10 miliardi e l’agricoltura si ferma a circa 5,5 miliardi. Quasi un lavoratore con cittadinanza non italiana su due svolge una attività che rientra nell’ambito dei servizi e il 17,5% è impiegato nella manifattura. Per finire, i settori dell’ospitalità e ristorazione, l’edilizia e il commercio: ognuno assorbe circa il 10% degli occupati immigrati. Ultima l’agricoltura. In poco più di un terzo dei casi viene svolto un lavoro manuale e non qualificato.
Tutti questi dati sono i principali risultati del settimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e che sarà presentato mercoledì alla Farnesina.
Il Rapporto segnala che nel 2016 la quota di immigrati sul totale degli occupati è del 10,5% contro il 7,9% di otto anni prima. Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio, poco più di un quinto degli immigrati regolari occupati si trova in Lombardia, dove viene realizzato oltre un quarto della ricchezza prodotta dai non italiani, ben 35,4 miliardi, ma è l’Emilia-Romagna la regione che conquista il podio se si considera il rapporto tra valore aggiunto degli immigrati e il totale regionale. I valori più bassi in Sicilia, Basilicata, Puglia e Sardegna dove non si raggiunge il 4 per cento.
«La presenza attiva degli immigrati sarà sempre più rilevante nei prossimi anni specie in un Paese che invecchia rapidamente come il nostro» rimarca Stefano Solari, direttore scientifico del Rapporto. Che aggiunge: «Rispetto alla prima edizione la popolazione straniera residente in Italia è passata da 3,9 milioni agli attuali 5, il numero di occupati da 2,0 a 2,4 milioni. In questi sei anni gli immigrati hanno versato complessivamente oltre 50 miliardi di contributi Inps».
Tra le comunità con più contribuenti (si vedano le tabelle) spicca quella rumena, paese Ue, con oltre 662mila presenze, che precede l’albanese (256mila), la marocchina (211mila) e cinese (191mila). Il termometro dei redditi pro capite segna una media, per le dichiarazioni dei redditi 2016, di quasi 13.630 euro, +2,7% rispetto all’anno precedente. Al di sotto dei 10mila euro i nati in Ucraina e in Cina. Le medie più elevate, sopra i 20mila euro, sono per francesi, argentini e svizzeri.
Sul fronte dei contributi previdenziali, considerando tutti i lavoratori nati all’estero per l’anno d’imposta 2015, i 3,1 milioni di dipendenti hanno versato 15,4 miliardi, a cui vanno aggiunti 1,4 miliardi di contributi versati da imprenditori e lavoratori autonomi. Limitandosi invece ai cittadini stranieri, il volume dei contributi previdenziali raggiunge i 11,5 miliardi. «Il contributo economico degli immigrati al sistema paese è sostanzialmente positivo - evidenziano i ricercatori della Fondazione Moressa -. Considerando l’età media relativamente bassa (33 anni contro i 45 degli italiani, ndr), il loro impatto sul welfare è limitato, pari a meno del 2% della spesa pubblica mentre il gettito Irpef e i contributi Inps fanno segnare un saldo attivo di oltre 2 miliardi».
Il Rapporto presenta anche delle stime sull’apporto economico degli immigrati in una condizione di irregolarità amministrativa: si tratta di 643mila lavoratori, pari al 24% degli occupati immigrati, di cui quasi la metà presenti al Nord. È al Sud dove è più forte l’incidenza degli irregolari. Maglia nera al settore dell’agricoltura, dove si supera la quota del 41% e si è in attesa di vedere gli effetti della legge sul contrasto al lavoro nero entrata in vigore lo scorso novembre, che precede le costruzioni e i servizi. La Fondazione stima in 14,9 miliardi il valore aggiunto prodotto dagli immigrati non in regola. Oltre a essere un elemento distorsivo della concorrenza tra le imprese, il fenomeno causa un mancato gettito pari a 6,5 miliardi.

sabato 14 ottobre 2017

LETTURA DEL VANGELO DELLA XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

1. "Il regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Matteo 22,1-14)
il regno dei cieli significa qui il regno di Dio e cioè la famiglia dei figli di Dio.
Il regno di Dio è simile ad un banchetto di nozze, non ad una caserma, ad un'azienda, ad un'agenzia di servizi, neppure a un convento o a un monastero severo, tantomeno a un tribunale.
La festa che accompagna il banchetto prevede una grande abbondanza di vivande. Nella simbologia biblica l'abbondanza di cibo significa l'abbondanza della conoscenza e cioè della sapienza e della vita. C'è anche la gioia a rallegrare il cuore degli invitati al banchetto. Essere invitati personalmente dal re è un grande onore ed è altro segno della bellezza della festa.

2. Il motivo profondo del rifiuto

Il re invita al suo pranzo, invita a gustare le sue vivande prelibate, invita alle nozze del suo proprio figlio.
Ma gli invitati pensano al proprio campo da curare, ai propri affari.
Ecco: gli invitati non sono disponibili a mettere da parte le loro faccende, i loro interessi.
Sono prigionieri di loro stessi, perciò respingono ciò che li obbligherebbe a badare a qualcosa d'altro.
Non sanno gioire della gioia di un altro. Non sanno riconoscere il primato di un altro.
Insomma: è l'eterna tentazione dell'uomo di conquistare una falsa autonomia da Dio, ignorandolo e difendendosi. E, forse, l’uomo non ha torto:  Dio infatti è molto esigente: dà tutto ma vuole anche tutto.
Farsi amare da Dio è molto difficile.
L'uomo è sempre un bambino che vuole prescindere dai genitori cui si ribella.

3.  La punizione per il rifiuto

I servi sono i Profeti uccisi.
Il Figlio è Gesù Cristo.
Il brano di Matteo allude alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.
Il male, vuol dirci l’ evangelista, è un boomerang: ed è questa  la punizione.

4. L'invitato senza la veste 

Ecco il senso: non basta avere accettato l'invito. Bisogna anche cambiare la propria esistenza in ragione dell'invito.
L'abito nuziale da indossare nel banchetto di Dio è la carità insieme alla  conversione.
Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: questi sono coloro che dimostrano di avere carità e di sapersi ogni giorno convertire

venerdì 13 ottobre 2017

Tre milioni di bambini muoiono di fame

Ogni anno, nel mondo, sei milioni di bambini muoiono prima di aver compiuto i cinque anni «per cause curabili e prevenibili». Tra queste la malnutrizione, che ne uccide tre milioni: la metà delle morti infantili. Cinquantadue milioni di minori sotto i cinque anni soffrono la carenza improvvisa di cibo, 155 milioni sono . malnutriti cronici. II nuovo rapporto di Save the children, "Una fame da morire", spiega che in 103 Paesi a medio e basso reddito 689 milioni di minori sono "poveri multidimensionali": in India lo è la metà dei bambini, nove su dieci in Etiopia, Niger e Sud Sudan.
Nel Corno d'Africa e in Kenya, in seguito all'emergenza climatica “El Nino,, sette milioni di bambini subiscono la carenza d'acqua e di sostanze nutritive. Solo nel 2016 guerre e insicurezza alimentare hanno provocato la fuga di 65,6 milioni dî persone e 122 milioni di bambini affetti da malnutrizione cronica vivono in zone colpite dai conflitti.
Se 52 milioni di bambini (1 su 12) sono colpiti da malnutrizione acuta, di cui più della metà in Asia meridionale, 41 milioni risultano obesi o in sovrappeso: quattro milioni sono in Paesi ad alto reddito. In quest'ultimi si contano però anche 1,6 milioni di minori colpiti da malnutrizione cronica. A livello globale cresce . la pratica dell'allattamento al seno, che garantisce ai neonati maggiori possibilità di sopravvivenza nei primi mesi di vita. Oggi sarà l'organizzazione Cesvi a presentare l'Indice globale
della fame 2017. (c.z Repubblica del 13/X/2017.)

domenica 8 ottobre 2017

Meditazione al Vangelo della XXVII Domenica del T.O.. Don Pietro

1. Sia il brano di Isaia che quello di Matteo narrano la storia tragica di un rapporto, quello tra Dio e l'uomo, attraverso la metafora della vigna.
Protagonisti della vicenda sono il padrone della vigna, la vigna stessa e i vignaioli.
Per Isaia il rapporto è di appartenenza totale, di amore generoso e la vigna è come una persona amata intensamente. "Canterò per il mio diletto un cantico d'amore per la sua vigna" (Is, 5).
Purtroppo l'esito del rapporto è deludente: anziché grappoli dorati la vigna ha prodotto solo uva selvatica. Perciò dal cuore del profeta scaturisce il canto dell'amore tradito, della giustizia disattesa, della fedeltà infranta.

2. La parabola evangelica

Quì la vigna non è avara di frutti. Sono i vignaioli che vogliono accaparrarsi del raccolto.
Il senso nascosto nella parabola è che la vita, dono di Dio, deve essere offerta a Dio. L'uomo non può rivendicare una autonomia totale da Dio. Dio invia agli uomini i suoi servi e alla fine il suo proprio Figlio: ma i vignaioli li uccidono tutti. Il male commesso dagli uomini alla fine, però, si ritorce contro gli uomini stessi.

3. Le due tentazioni della parabola

La prima tentazione consiste nel voler disporre della propria esistenza e del mondo in autonomia totale da Dio. Significa cioè volersi fare  Dio, decidere da soli il bene e il male. Accade quando l'uomo col suo comportamento violento nei confronti della terra finisce per distorcere l'ordine che Dio vi ha inscritto. Un altro esempio è quando l'uomo indebitamente si appropria di tutti i beni della terra  escludendo gli altri dalla loro fruizione.
La seconda tentazione consiste nel misconoscimento e nel rifiuto violento dei profeti e del Figlio stesso di Dio. Non solo gli ebrei hanno eliminato i profeti ma anche i cristiani continuano a farlo nei secoli.

4. Conseguenze

Verrà  il giorno in cui Dio ci chiederà conto della sua vigna. C'è il rischio che Dio ci tolga la vigna per darla ad altri vignaioli più fedeli.
Nel campo di Dio non esistono primogeniture né possessi definitivi.
Per fortuna e grazie a Dio ci sono anche vignaioli fedeli. Sono quelli che migliorano la vigna per offrirla a suo tempo al legittimo proprietario.
Noi ora siamo nel tempo dell'assenza del padrone della vigna.
Però dobbiamo ricordarci sempre che Dio ritornerà e fin a quando non viene avrà pazienza con tutti noi.
Se noi però perseveriamo nel rifiuto, allora incombe su di noi  un giudizio severo: una sentenza di morte!
Gesù, il Messia, non mette fine alle contraddizioni della storia, come tutti spereremmo, ma si pone al centro della contraddizione e da qui la scioglie.

venerdì 29 settembre 2017

Riflessione al Vangelo della XXVI domenica del tempo ordinario. Don Pietro

Il racconto, molto semplice, è noto: un padre invia i suoi i due figli a lavorare nella vigna. Il primo dice di  andarci, ma poi non lo fa. Il secondo dice di non volerci andare, ma poi ci va. Destinatari della parabola sono i capi dell’establishment politico-religioso di Israele, che Gesù identifica con il primo dei due figli, e quanti, nei secoli, si comportano allo stesso modo.
A tutti Gesù contesta l'incoerenza tra l’adesione facile e ipocrita a Dio,  a parole, e i comportamenti reali che la smentiscono. Una fede, intende dire Gesù, che non ha riscontro nella prassi, che non si traduce in vita concreta, è falsa ed esclude dal regno. 
In verità -pare sottinteso nelle parole di Gesù- anche un'obbedienza  recalcitrante, senza gioia, non è proprio il massimo che Dio si attende dagli invitati al regno.
Neppure il secondo figlio è un modello di quella obbedienza gioiosa che deve accompagnare il compimento della volontà paterna. Ma è sempre meglio della falsità di chi dice sì e poi non fa. Insomma, l'ideale sarebbe che sostanza in forma andassero insieme. Però Dio si contenta della sostanza, anche se offertagli con rozzezza e a malincuore, mentre detesta che sotto un vestito di belle parole e propositi non ci sia poi niente, si nascondano, anzi, orecchi da mercante e disprezzo della sua parola.
Come spiegare il comportamento formalmente ineccepibile ma  di fatto inosservante del primo figlio (e di quanti per primi sono invitati da Dio al regno)? Il giovane, forse, era un po' superficiale, pensava che nella vigna (nel regno) si va come in gita di piacere, per sdraiarsi e godersi il fresco sotto gli alberi. Invece c'è da faticare, sudare e soffrire. Godersi i frutti e il riposo sono promessi soltanto per dopo.
Può anche darsi che quel giovane (il credente) amasse il quieto vivere e non gli piacesse litigare con il padre. In fondo dire di sì e non fare, che costa? Com'è diverso il profeta Giona, che apertamente si ribella a Dio e non ha alcun timore a dirgli che farà esattamente il contrario di quanto gli è stato ordinato. Sorpresa: Dio non si arrabbia. Mette solo mano ad una pastorale per il ribelle e, alla fine, gli fa fare la propria volontà. Dio detesta la falsità, non l'onesto resistergli.
A parziale discolpa del primo figlio si potrebbe invocare anche uno stato costitutivo di debolezza della sua volontà. In tal caso il sì prontamente detto era sincero. Lui, a lavorare in vigna, voleva andarci sul serio. Ma poi, scoraggiato dagli impegni gravosi che l'attendevano, si è tirato indietro. Se non giustificarlo, possiamo almeno comprenderlo. Non farà così anche Dio con le guide disobbedienti di Israele, vecchio e nuovo? Auguriamocelo.
Al secondo figlio, sulle prime renitente ma poi pentito e presente al lavoro, va riconosciuta l'attenuante della impulsività. I giovani spesso ne sono vittime : contestano per principio, il loro posto è all'opposizione permanente, quello che dicono i padri va sempre respinto, la loro identità la costruiscono contrapponendosi. Ma poi, nel segreto della coscienza, se rientrano in se stessi, se guardano al mondo con un po' di sano realismo..., capiscono che le indicazioni dei padri non sono tutte da buttare o riconducibili a volontà tirannica, a dispotismo autoritario, e si piegano.
Certo, Gesù non è stato tenero con i primi figli (i capi di Israele): niente più regno per loro, sostituiti da prostitute e da pubblici peccatori pentiti. Non si equivoch: peccato e prostituzione non costituiscono benemerenze o titoli da far valere al botteghino del regno. È il pentimento che spalanca le porte; non importa che il comportamento pregresso non sia stato dei più esemplari.
Dietro a un vero pentimento c'è,  è naturale, la fede come obbedienza. Perché credere non è semplice assenso intellettuale a Dio, peggio se soltanto verbale, ma "fare la volontà del Padre".
Questa parabola è balsamo per quei genitori (educatori, formatori...) che fra i loro figli dovessero annoverare qualcuno discolo, ribelle, cocciuto e disobbediente. Se, infatti, il padrone della vigna il padre di due figli simboleggia Dio, è confortante rilevare come anche Dio con i suoi figli fallisce al 50%. Si accade a lui... si consolino i genitori, come fa Dio, pensando al figlio che, nonostante un po' di sgarbatezza, alla fine obbedisce alla volontà paterna, e la vigna non resta incolta.
Con i figli bisogna accontentarsi e sperare che alla fine gli giri dritta. Dio fa così.

sabato 23 settembre 2017

LETTURA AL VANGELO DELLA XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Don Pietro

Che la logica di Dio, il suo comportamento, siano altri rispetto alle nostre più ragionevoli aspettative; che lo stile del suo agire risulti sorprendente soprattutto per il comune senso di giustizia, emerge con evidenza solare dalla parabola di operai mandati a lavorare nella vigna a ore diverse e ai quali viene corrisposto lo stesso salario, con tanto di mugugno e  protesta da parte di quelli chiamati fin dal primo mattino.
È che il massimo della giustizia consiste, per noi, nel fare parti eguali nella divisione di un bene, anche se i partecipanti alla distribuzione non si trovano nelle stesse condizioni. Ci sembra lo esiga  l’equità canonizzata nell'antico principio: unicuique suum, a ciascuno ciò che gli spetta in proporzione del suo diritto.
Ma Dio, vuol dirci Gesù, non la pensa affatto così. Intanto Dio fa parti eguali fra diseguali. Egli non segue, cioè, criteri meritocratici, di gelida giustizia distributiva: a ciascuno il dovuto secondo i suoi meriti.
Dio non dà secondo il diritto di ognuno, ma secondo il bisogno di ognuno. Appaia a noi ingiusto o no, il comportamento di Dio verso l'uomo non segue il nostro criterioo di giustizia. Non che Dio non abbia provato a far andare avanti il mondo secondo la nostra giustizia. Ma -narrano antichi racconti rabbinici- Dio dovette prendere atto che non funzionava. Nacque allora la sua giustizia, che non ha più come simbolo i piatti della bilancia in equilibrio, ma che pende piuttosto da una parte: è il piatto della misericordia, della gratuità e dell'amore.
La notizia è di quelle eccellenti anche per noi: meglio affidarsi al buon peso della misericordia divina che ai nostri veri o presunti meriti. E poi, chi ci garantisce di far parte del novero dei chiamati della prima ora? Buon per noi, allora, che Dio distribuisce lo stesso salario a tutti, non in misura delle nostre prestazioni, ma del suo amore e del nostro bisogno di vita e di gioia. È una vera fortuna per noi sapere che il rapporto dare e avere Dio lo ha tutto squilibrato a nostro favore, eccedendo nel dare.
Il salario che l'uomo riceve, qualunque sia l'ora della chiamata, non deve mai essere visto soltanto come il frutto della sua fatica. Esso ha sempre dentro di sé una  preziosità nascosta: quella della grazia, del dono e dell'amore di Dio. Il salario di ogni ora è sempre il salario della bontà e della misericordia del Signore.
Compreso così il rapporto Dio-Uomo, probabilmente non sono più idonei i termini con cui la parabola definisce descrivere i due partner della relazione: padrone-servo. Non è, infatti, in questa prospettiva, offensivo o quantomeno riduttivo considerare Dio come un padrone che dà una paga?
Non è più bello vederlo come un Padre che dà un dono? E può l'uomo comprendersi come un freddo prestatore d'opera, per giunta portatore nei confronti di Dio di rivendicazioni salariali?
Quanto più arricchente è sentirsi come un figlio, gioioso di servire per amore! E non è oltremodo gratificante sapere che Dio, pur potendo prescindere da noi, ci chiama a dargli una mano nella vigna del regno? Come è avvilente appiattire soltanto sull'economico ogni rapporto! Com'è triste avere solamente diritti da rivendicare e non favori per cui essere grati...
Ancora due brevi notazioni a margine della parabola.
Da essa emerge chiara la cattiveria dei cosiddetti giusti. Non capiscono e non tollerano la bontà. Per loro tutto deve avvenire secondo legge. Che Dio ce ne liberi! Un mondo regolato soltanto dalla legge sarebbe infinitamente triste. A conforto, poi, di chi dovesse ritenere che per lui o per i suoi cari non giunga mai la chiamata di Dio, la parabola parla dell'ultima ora del giorno, quella buona per i non ancora chiamati. Nessuno, dunque, disperi della salvezza. Dio è sempre in orario, anche se in ritardo secondo i nostri orologi. I suoi tempi non sono i nostri…

venerdì 15 settembre 2017

Meditazione al Vangelo della XXIV domenica del T.O.. Don Pietro

Il segno, per sé e per il mondo, che si è discepoli del Signore non va cercato (non lo si troverebbe!) nel fatto che fra essi non avvengono mai  screzi, incomprensioni e non siano possibili comportamenti non proprio  esemplari di alcuni verso altri. La prova dell'appartenenza alla famiglia di Gesù è soltanto nella capacità di sapersi perdonare reciprocamente rimettendosi le offese. Questo Pietro lo aveva compreso. Il suo è un problema aritmetico, di quantità: sino a quante volte bisogna accordare il perdono? Dovrà pur esserci un limite!
Ancora una volta Gesù spiazza Pietro e la cerchia dei discepoli: il perdono deve essere illimitato o, nel gergo dell'epoca, deve essere accordato "settanta volte sette", cioè sempre.
L'antica legge di Lamech, "Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamec 'settantasette volte (Gn 4,24), è abrogata. Con Gesù vige il condono illimitato, a imitazione di quello che il Padre celeste offre ai peccatori. È questo e nessun altro il metro del perdono che Gesù indica ai suoi:  esagerato,  eccessivo, smisurato, al rischio di approfittamento come ogni vero amore, com'è l'amore di Dio che i suoi figli devono imitare.
Per esemplificare questo suo  esigente insegnamento e perché lo si tenga bene a mente, Gesù narra la parabola del servo spietato e punito perché restio a offrire agli altri la misericordia che pur aveva personalmente e corposamente sperimentato a proprio vantaggio.
Il messaggio del racconto è trasparente: il dovere di perdonare, non ci fossero altre ragioni (e ci sono!), nasce dal fatto che Dio perdona a noi le colpe, se lo supplichiamo. È un dovere di pura e semplice restituzione. E c'e anche convenienza: chi non ha nulla da farsi perdonare da Dio? La nostra ostinazione nel non perdonare, i nostri odi tenaci, chiudendo il ministero della grazia divina attivano quello della giustizia, e il suo titolare, lo sappiamo, vede ombre anche negli angeli...
La spietatezza del servo verso il subalterno si ritorce a suo danno e diventa la misura con cui il giudice ultimo tratterà chi è inflessibile e spietato verso i fratelli.
Per godere e non abusare della misericordia divina, l'unica strada è quella di usare misericordia verso chi ci offende e ci fa del male. Le cose tristi, spiacevoli e disdicevoli che avvengono fra noi sono segno che siamo e restiamo sempre creature fragili ed esposte al male. Se sappiamo  ricomporle con un perdono generoso, è segno che siamo discepoli del Signore. Allora il nostro amore non è più soltanto umano, è divino. Non siamo più noi ad amare, ma è Dio che ama in noi. Diventiamo un po' come Dio e, noblesse oblige, dobbiamo imitarlo nel suo amore perdonante.

sabato 9 settembre 2017

meditazione al Vangelo della XXIII domenica del Tempo Ordinario. Don Pietro

1. La correzione fraterna

A. Il brano ha come  orizzonte la comprensione della Chiesa come comunità di uomini e donne chiamati a vivere da fratelli e sorelle.
Essi non sono perfetti, ma fallibili.
Essi sono amati accolti e perdonati ogni giorno.
Anch'essi ogni giorno si amano, cercano e devono perdonarsi, se sbagliano.
Al centro della comunità c'è l'amore di Dio in Gesù e delle regole di vita alternative a quelle del mondo.

B. Cosa fare quando un fratello sbaglia?

Innanzitutto bisogna essere certi che ha sbagliato!
Bisogna mettere poi in atto tre interventi a tre livelli distinti:
Innanzitutto l'ammonizione interpersonale a quattro occhi. Non fermarsi al sospetto malevolo, non cedere al pettegolezzo da comari da cortile, bandire ogni forma di maldicenza.
In secondo luogo viene la discussione del caso  alla presenza di due o tre testimoni, discreti e sapienti.
Terzo intervento: il dibattito dinanzi all'assemblea della comunità.
Lo scopo deve essere sempre quello di recuperare il fratello.
Esperiti vanamente i tentativi di recupero, si prende atto, con dolore, dell'auto-esclusione del fratello dalla comunità.

C. Approfondimenti

Il deviante è da recuperare perché resta sempre fratello, è da amare, sull'esempio del Padre celeste che si prende cura dei più piccoli perché non si perdano.
La eventuale colpa non corrompe il vincolo di fraternità.
La comunità cristiana deve continuare nel tempo le scelte di solidarietà a favore dei peccatori operate da Gesù nella cui persona si è fatta presente la sollecitudine pastorale di Dio.
La sollecitudine di Gesù che riflette quella del Padre è regola di vita della comunità dei discepoli.
La prassi della correzione fraterna proposta dal Vangelo ha i suoi precedenti nell'Antico Testamento, in particolare nel codice di santità del Levitico (19,18)
La correzione fraterna si inserisce in quella giustizia più grande di quella degli scribi e dei farisei che i discepoli devono attuare e che si accompagna al dovere di riconciliazione fraterna e all'amore anche per i nemici.

2. Perché amare sempre?

Perché siamo amati e perché amati "siamo"
Perché dobbiamo riprodurre e non fermare l'amore di Dio verso di noi.
Perché dobbiamo far nostra la premura di Dio verso l'uomo deviante.
Perché, nel caso specifico del recupero del fratello, la nostra preghiera potrà essere esaudita.

3. Conclusioni

Ma considerare il deviante  impenitente, incorreggibile e recidivo, come un pagano e un pubblicando", non contraddice lo stile misericordioso di Dio rivelato e attuato in Gesù tanto compassionevole da essere considerato l'amico dei pubblicani dei peccatori?
Ora, se era giusto stabilire dei limiti nella prassi della correzione fraterna; se era ragionevole fissare dei criteri di appartenenza ecclesiale, nessun limite dev'essere posto all'amore fraterno.
Il fratello escluso dalla comunità continua ad essere amato da quel Dio che non discrimina gli uomini tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti, ma fa piovere sui buoni e sui cattivi,  fa uscire il sole per i giusti per gli ingiusti.
Quelli che vogliono essere figli di questo Padre, devono adottare lo stesso stile continuando ad amare anche quelli che sono stati esclusi dalla comunità, ma non dal proprio cuore.