1. Sono in molti oggi a ritenere che solo un “dio” possa salvarci e perciò si rivolgono alla fede.
Questo “dio che salva tutti” evidentemente non può essere quello offerto finora, se chiedono ancora salvezza.
Questo “dio” non può che essere “il Dio di Gesù Cristo”, il Dio che si è incarnato, si è fatto compagno di strada di ogni uomo, ha assunto la condizione di servo, si è fatto debole ed è morto in croce.
Un Dio che non ci salva miracolisticamente dalle nostre sofferenze, ma che cammina insieme a tutti i curvati della storia per rendere liberante e feconda di vita la sofferenza e la croce degli uomini.
Un Dio sensibile al gemito del suo popolo.
2. Un Dio che libera, impegnato nella storia.
I tratti del volto di questo Dio non siamo noi a delinearli, ma Lui stesso ce li manifesta nel suo movimento di auto-comunicazione di sé all’uomo per amore.
A questo Dio, perciò, non arriviamo sulla scala dei nostri ragionamenti o sillogismi, né possiamo parlarne con parole umane, ma solo perché Lui si è manifestato a noi.
Mosè era un pastore, non un cercatore di Dio. E Dio gli si mostra nel roveto ardente. E gli si mostra come un Dio che vuole impegnarsi nella storia dell’uomo, dell’uomo che combatte per Lui in Abramo, dell’uomo che combatte col proprio padre in Isacco, dell’uomo che combatte con i fratelli in Giacobbe, dell’uomo che combatte con il potere oppressivo in Mosè.
Questo – e non solo la sua trascendenza e santità – è il tratto con cui Dio si manifesta e vuole che gli uomini lo ricordino.
Un “Dio che libera” e non come un suo attributo accessorio e marginale, bensì come attributo qualificante.
Il Dio che nominiamo è il Dio che prende posizione contro coloro che fanno soffrire il popolo, non il Dio dei filosofi, della razionalità, o il Dio che è a sostegno dei troni dei potenti.
Questa è la primordiale epifania di Dio.
3. Un Dio che giudica e condanna chi lo delude.
Questo Dio si manifesta come giudizio di condanna verso chi lo delude nelle sue aspettative, come è chiaro nell’episodio evangelico del fico sterile.
Ora è certo che se noi guardiamo, senza sospette acrobazie apologetiche, a cosa ha prodotto l’albero che si rifà a Dio, l’albero piantato dal divino Agricoltore, dobbiamo riconoscere che i frutti buoni sono ben pochi.
Non sempre il nostro Dio è stato il Dio della liberazione. Anzi spesse volte il nostro Dio è andato ad abitare con i Faraoni, è diventato il Dio di corte mentre nel deserto il popolo è rimasto abbandonato a se stesso.
Perciò molti hanno abbandonato questo Dio: i suoi uomini lo avevano collocato sul versante degli oppressori.
4. Sotto la nube, ma non nella terra promessa.
Può accadere che noi crediamo tutti in Dio, ma non arriviamo tutti alla terra promessa, la liberazione.
Non ci arrivano quanti rimpiangono la schiavitù, quanti non vogliono liberarsi della schiavitù.
Perché la schiavitù offre indubbi vantaggi alla nostra pigrizia e al nostro immobilismo.
Non tutti sognano o cercano la terra promessa, una condizione congrua alla dignità dell’uomo.
Se la sogniamo essa non può che essere la terra della pace, senza armi, anche se noi non la vedremo. Ma questo non ci esonera dal cercarla.
Non può che essere una terra senza sperequazioni sociali, anche se questo significa una terra con minore (falsa) tranquillità.
5. Un Dio che dilaziona la condanna.
Per non aver testimoniato questo Dio siamo tutti dentro il male e il male è dentro di noi.
Non solo per il peccato originale, ma per le nostre responsabilità storiche.
Ma, ecco un tratto sorprendente del Dio della Rivelazione: questo Dio rinvia, dilazione l’esecuzione della pena di morte, dopo il giudizio di condanna su di noi. Deciderà dell’esecuzione della condanna di morte il fatto che porteremo o meno frutti.
Più che Dio saranno le nostre opere a giudicarci e a condannarci.
“Le vostre opere vi giudicheranno”. Se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo.
Oggi le nostre opere di morte hanno ricadute planetarie e decisive per le generazioni future.
I frutti che Dio si attende da noi sono
• la ricerca della pace e della fraternità
• quindi la condanna dell’uomo che fa soffrire l’uomo e di ogni potere oppressivo
• la condanna della fiducia cieca nell’aumento del benessere, nella diffusione del consumo, dell’inerzia di fronte alla morte per fame di milioni di innocenti.
La professione della nostra fede non ci trasferisce nell’intimità psicologica, né nella trascendenza metafisica, ma ci butta in pieno nel cuore delle contraddizioni.
Il Dio in cui crediamo è il Dio dell’annichilimento, della Kenosis.
Un Dio che non troviamo più nei cieli ma negli ultimi, nei poveri, negli umiliati con cui si identifica.
A partire da questa immagine di un Dio debole, pieno di simpatia e misericordia per l’uomo, di un Dio che in Cristo ci insegna che la felicità non è nel possesso delle persone e delle cose, ma che c’è felicità più piena ancora nel dono, nella condivisione, nell’accettazione cordiale del diverso, nella comunione con Dio, nel servizio più che nel dominio.
A partire da questa immagine di Dio dobbiamo impegnarci a costruire una nuova immagine di mondo e di uomo.