I nemici di Gesù non desistono. Anzi, l'autorevolezza con cui egli ha tenuto testa, svergognandoli dinanzi alla gente, li ha irritati ancor più. Dopo frenetiche consultazioni decidono di accantonare per il momento le loro discordie interne e di far fronte comune contro di lui e così, in combutta, emissari dei farisei e degli erodiani partono al contrattacco, decisi più che mai a coglierlo in fallo per poterlo incastrare e, in qualche modo, farlo fuori.
La trappola che gli tendono è davvero
insidiosa. Soltanto una perfidia diabolica poteva escogitarla. Maestri di
menzogna e navigati nell'arte di fingere, si avvicinano a Gesù simulando
apprezzamento per il suo insegnamento "secondo verità",
deferenza per il suo coraggio e considerazione per la sua libertà verso tutti.
Illudendosi di averne captato la
benevolenza atteggiandosi a discepoli desiderosi unicamente di apprendere,
lanciano il loro laccio infido: gli chiedono di pronunciarsi con chiarezza, con
un sì o con un no, su un dibattito in corso, una questione pratica ma con risvolti
religiosi che accendeva e divideva gli animi: "è lecito o no pagare il
tributo a Cesare?".
Fra le tante vessazioni con cui gli
occupanti romani angariavano il popolo, c'era una tassa personale, imposta a
tutti, anche agli schiavi oltre che alle donne e agli uomini, dai 14 ai 65
anni. Un balzello abbastanza il esoso da corrispondere attraverso una moneta
appositamente coniata, un denaro d'argento,
equivalente al salario di una giornata lavorativa.
L'indignazione popolare, di cui il
movimento rivoluzionario degli zeloti si faceva vivace interprete,
nasceva dal conio, su dritto della moneta, della testa dell'imperatore Tiberio,
oltre che dall'universale comprensibile scarso amore per ogni inasprimento
fiscale.
Il piano escogitato dai nemici di Gesù
è perfido, ma ben congegnato: un vero trabocchetto. Si avesse risposto che era
lecito pagare quella tassa all'imperatore, si sarebbe alienato gran parte della
simpatia popolare e lo si poteva incriminare di attentato a quell'unica
signoria di Dio di cui il popolo era fieramente geloso: due risultati niente
male per discreditare Gesù e avviare la sua eliminazione.
Se, invece, avesse risposto che non
era lecito pagare quel tributo, allora si sarebbe pubblicamente schierato
contro i romani e, una volta deferito alle autorità, avrebbero provveduto
queste ultime a farlo fuori come eversore e sobillatore del popolo, con sistemi
sbrigativi, a onta delle garanzie pur previste dalla loro decantata civiltà
giuridica.
La posta in gioco per Gesù era molto
alta e l'alternativa senza via di uscita, così almeno credevano i suoi
interlocutori e avversari. Per Gesù si trattava, cioè, di scegliere tra fedeltà
al popolo è lealtà al potere occupante; tra l'unica, indiscutibile signoria di
Dio e il rispetto dovuto ad una legge odiosa quanto si vuole ma vigente; tra
doveri religiosi e obblighi civili; tra l'appartenenza alla città degli uomini,
con le sue norme, e a quella di Dio, anch'essa con i suoi statuti.
Gesù non si scompone. Intanto rigetta l'alternativa-capestro con cui i suoi nemici vogliono farlo impiccare da solo. Come in altre controversie, egli non segue i suoi interlocutori sul terreno da loro scelto. Consapevole della complessità della questione, rifugge da ogni sua comoda e superficiale semplificazione spostandola a un livello di più alta problematicità e rinviando ai mittenti la ricerca di una sua possibile e onorevole soluzione.
"Rendete dunque a Cesare quello
che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio": in queste parole di Gesù è possibile
cogliere un concentrato densissimo di sapienza nuova e profonda, pur nella loro
stringatezza e apparente semplicità.
"Rendete a Cesare": dunque chi legittimamente detiene il potere può legittimamente richiedere prestazioni e i sottoposti, credenti o no, hanno il dovere di soddisfarle. Per Gesù non c'è spazio per l'anarchia e per rifiuti pregiudiziali dell'ordine su cui una convivenza civile si regge.
"... quello che è di Cesare", precisa Gesù, delimitando i confini del potere di quanti sono investiti della responsabilità di legiferare e governare.
Questi, vuol dirci Gesù, hanno aree
proprie di competenza, e lì sono sovrani. Se, però, travalicano i loro confini,
se peccano, cioè, di eccesso di potere, allora la lealtà e l'obbedienza non
obbligano per in coscienza e l'obiezione e la trasgressione diventano non
soltanto lecite ma doverose, costi quel che costi.
Gesù non indica i casi possibili di prevaricazione dai propri limiti da parte dei detentori delle varie forme di potere. Il giudizio dipende dalle situazioni storiche ed è demandato al discernimento dei singoli, della comunità, con l'aiuto dello Spirito e la guida della parola. Se Cesare volesse legiferare su Dio, sulla sacralità e inviolabilità della vita, se volesse disporre dell'uomo da padrone assoluto -i casi ipotizzabili sono infiniti-, l'obbedienza a lui non sarebbe più virtù ma peccato, e anche non lieve, contro Dio e la sua unica signoria sull'uomo e sul mondo. Lealtà sì, ma condizionata, con riserva. Anzi, è dovere del discepolo esercitarsi in permanenza nella critica ad ogni potere che avanzasse pretese lesive di quella sovranità assoluta che compete soltanto a Dio. Il potere, in tal senso, non è divino, ma umano. Non va demonizzato ma neppure sacralizzato. Nei suoi confronti il credente deve far valere le riserve che la sua appartenenza ad un'altra città, quella di Dio con patria nei cieli, gli impone tassativamente. Nessuna teocrazia dunque, con i credenti convinti che dalla fede discenda un unico modello di società da imporre a tutti, magari con la forza. Ma, anche, nessun laicismo, con lo Stato che pretenda di entrare dovunque, anche in ambiti a lui preclusi.
I modelli, poi, del rapporto con Cesare possono configurarsi in svariati modi. A volte il credente si vede costretto a scegliere tra Cesare e Dio, dando soltanto a quest'ultimo piena obbedienza. Altre volte tra Cesare e Dio può instaurararsi un regime di rispettosa reciproca collaborazione, purché senza confusione, ambigui consociativismi e compromessi. Può anche accadere che si debba prescindere da Cesare riferendosi soltanto a Dio, com'è accaduto a Gesù e, tante volte nei secoli, alla comunità dei suoi discepoli. Questi, comunque, non farebbero male a ricordarsi sempre che Gesù è stato perseguitato, processato, condannato e ucciso proprio dal potere. "Tra Dio e Cesare non c'è una stretta di mano, un patto... ma una croce. I Gesù patì sotto Ponzio Pilato perché fu davanti a lui testimone, come dice il Vangelo di Giovanni, della libertà dell'uomo e testimone della verità di Dio..., le due cose che il potere teme di più d'ogni altra. Ma sono anche queste le cose che Dio ama più di ogni altra" (Paolo Ricca, Alle radici della fede, Claudiana, Torino 1987, p. 58).
" A Dio quello che è di Dio": conclude così Gesù la sua replica ai farisei e agli erodiani. Siccome tutto è di Dio ne segue che anche l'ottemperanza alle giuste leggi dello Stato, il cristiano deve viverla come servizio alla causa di Dio, con spirito religioso come un aspetto indiretto della sua volontà.
Niente e nessuno infatti, all'infuori di Dio, possono essere ragione sufficiente perché un credente si giochi vita. Questo primato di Dio, e di nient'altro che sia meno di Dio, il credente sa che puoi riconoscerlo e viverlo sotto qualsiasi regime politico. Storicamente non si sa bene se, ai fini della purezza e diffusione della fede, sia da auspicarne uno tollerante o uno biecamente persecutorio e stupidamente repressivo.
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